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Lidia Maggi "Maschio e femmina Dio lo creò"

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Maschio e femmina Dio lo creò
di Lidia Maggi
in “Esodo” n. 3 del luglio-settembre 2018

Dio creò la creatura umana a sua immagine e somiglianza,
a immagine e somiglianza Dio la creò
maschio e femmina li creò

Ritorniamo ai racconti primordiali, li rileggiamo per cercare luce nel paesaggio sfocato dei nostri giorni confusi e frammentari.
Racconti specchio, che mettono in scena mondi lontani per poter leggere la realtà vicina; paesaggi esteriori per penetrare gli interni delle geografie dell'anima. È così che lavora il mito biblico: usa un codice simbolico di tipo sapienziale, che conduce in epoche arcaiche per farti vedere con occhi nuovi il tuo presente. Non ci troviamo di fronte a racconti storici, capaci di svelare il nostro passato, ma a narrazioni antiche che permettono di dare voce alle domande afone che abitano il nostro presente. Narrazioni che, pur dando voce ai nostri interrogativi, non offrono risposte puntuali. Piuttosto, reindirizzano le domande.

1. La Bibbia si apre con uno, anzi due racconti delle origini del mondo e dell'umanità. Due narrazioni molto diverse, a testimonianza che il testo non vuole battere la via storiografica, ma quella sapienziale per offrire percorsi di senso, percorrendo la differente gamma dei linguaggi umani. Nel primo racconto si canta la vita: un poema dei tempi che mette in scena il Dio che chiama il mondo all'esistenza. La voce di Dio convoca i diversi elementi del creato. Ogni creatura generata riceve lo spazio per fare il suo assolo nella sinfonia della vita. Dio chiama, separa, differenzia gli elementi del cosmo così che, in questo ordine, nessuno prevalga sull'altro, tutti ricevano pari dignità. E Dio vide che era buono, bello, giusto...
In un crescendo sempre più complesso, che mette in tensione coppie contrastanti di elementi (luce-buio, terraferma-acque, cielo-terra), sorge la vita. Al vertice di queste coppie in tensione, viene creata la creatura umana, rappresentata da una coppia primordiale, maschio e femmina.
L'essere umano non può essere raccontato come singolo individuo senza l'altro; esso vive in una relazione che, come per le coppie precedenti, passa anche attraverso la tensione della differenziazione. Senza questa, non esiste lo spazio vitale necessario. Confondere le diversità, negare le differenze significa sottrarre spazio vitale. È il caos, la morte. Questa creatura umana, creata plurale, in relazione, è anche portatrice di tratti divini: è fatta "a immagine e somiglianza" di Dio. Quel plurale con cui Dio commenta il suo atto creativo, ha dato tanto filo da torcere agli esegeti: "facciamo l'essere umano...". Testimonianza arcaica di un'epoca in cui il monoteismo non si era ancora consolidato in Israele? Oppure il tentativo poetico di evocare l'umanità come progetto aperto, in divenire? Secondo quest'ultima ipotesi di lettura, quel "facciamo" andrebbe riferito sia a Dio che alla neonata creatura umana: "insieme, io e voi, facciamo l'essere umano".
Indica, dunque, non uno status, ma un divenire. Diventare umani: è questo il primo ed essenziale tratto della coraggiosa antropologia biblica. Umani non si nasce, si diventa. Come? In relazione: con un tu orizzontale (l'altro di fronte a me) e verticale (l'altro sopra di me). Si va nella stessa direzione anche se si considera quel "facciamo" come un plurale riferito unicamente a Dio: la creatura umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, è rivelativa di un Dio "plurale" in relazione, che non basta a se stesso, che è relazione, comunicazione, parola, voce che chiama. E la creatura umana spezza il suo percorso di umanizzazione (o divinizzazione) quando smette di comunicare, quando si sottrae al dialogo, all'alterità, per parlarsi addosso in un monologo narcisista.
L'umanità, creata in questo modo, rimanda alla differenza testimoniata nella coppia; tuttavia, questa non può esaurire tutte le altre differenze relazionali. Le riepiloga, le evoca, attraverso l'irriducibile differenza sessuale.

2. Il tema diventa più esplicito nel secondo racconto di creazione, Qui non abbiamo un cantico, un poema, ma un racconto mitico delle origini. Anche le geografie sono differenti. Non siamo più nel cosmo, ma in una dimensione più piccola, un giardino recintato da quattro fiumi, che ne delimitano i confini. La creatura umana non è creata al vertice della creazione. È collocata, invece, nel giardino, prima ancora che sorga il resto del creato. Queste differenze spazio-temporali tra il primo e il secondo racconto ci aiutano a comprendere che la preoccupazione di queste narrazioni delle origini non è quella di spiegarci puntualmente come è nato il mondo, piuttosto quella di rivelarci qualcosa sulla nostra condizione. Chi sono io? Qual è lo scopo dell'umanità? E che cosa vuol dire essere (o diventare) umani?
Per affrontare questi quesiti, il secondo racconto ci porta, dunque, in un giardino. Un deserto, più che un giardino, o meglio, un giardino incolto. Non c'è nessuno che lo custodisca e lavori. Dio, allora, agisce: forma la creatura umana, la plasma dalla terra del giardino. Il giardino di cui si dovrà prendere cura è fatto della stessa sostanza della creatura umana, che è prima di tutto un terrestre. Qui viene messo in scena il primo legame di coppia: terra e creatura terreste. Un legame profondo, espresso attraverso il nome: da adamà (terra) è tratto adam (terrestre). Implicitamente, risuona già qui quel "carne della mia carne" che, più avanti, sarà rivolto alla donna. Terra e umanità sono legati tra loro con un legame "biologico". La creatura umana è generata (non creata) dalla terra, e della stessa sostanza di questa. Ma non finisce qui. Il legame tra terra ed essere umano non esaurisce tutti gli altri legami, come quello sessuale tra uomo e donna non può esaurire la complessità di relazioni che formano e modellano la creatura umana. Dio, dopo averlo plasmato dalla terra, soffia nelle narici del terreste e questi diventa anima vivente, terra animata.
La creatura umana, dunque, fin dall'inizio, è collocata in una relazione di coppia. Con la terra da cui è tratta. Ed anche con Dio, attraverso un doppio legame: impastato dalle sue mani che lo hanno formato, e abitato dal respiro divino, il soffio del suo alito.
Proprio perché l'umanità è pensata e posta in relazione a un tu - la terra da cui è tratta e che deve governare e custodire; il Dio, che la abita con il suo respiro, questa creatura prende forma in divenire. Anche l'esperienza della relazione, dell'essere in coppia evolve, si trasforma.
Nonostante la creatura terreste sia legata alla terra e sia abitata dal respiro divino, ecco che Dio stesso ne denuncia una carenza: "Non è bene che l'essere umano sia solo". Pur con la terra e con Dio, l'umano sperimenta una solitudine che lo disumanizza. Nessuno basta a se stesso. Nessun uomo è un'isola. Possiamo dirlo con tanti linguaggi. La Bibbia sceglie il più coraggioso: quella di un Dio che riconosce, prima di tutto, che nemmeno Lui, il Signore del mondo, il Creatore dell'universo, può bastare alla creatura umana. "Solo Dio basta" può dirlo la mistica, in un'esperienza puntuale di estasi; ma non può diventare una condizione di vita. La creatura umana ha bisogno di un tu orizzontale, qualcuno che possa incontrare, in una relazione di riconoscimento e differenza. Si creano così le premesse narrative perché entri in scena la donna, che, in questo secondo racconto, viene creata in un momento successivo, non certo per subordinarla all'uomo maschio!

3. Nel prendere forma di questo nuovo orizzonte relazionale, la prima difficoltà la deve affrontare Dio stesso, che non riesce a trovare una creatura che corrisponda all'Adam, la creatura tratta dalla terra. La parata zoologica che gli passa davanti, probabilmente, intende conservare la memoria della cautela necessaria per trovare il partner giusto. Non si trova tra gli animali qualcuno che, secondo il progetto divino, possa essere un "aiuto-contro". Termine difficile da rendere nella lingua italiana, quello utilizzato dalla narrazione di Genesi. Esso evoca una relazione dialettica, che non si scioglie, che crea tensione, resistendo alla fusione, alla confusione. Non si trova per la creatura umana qualcuno che gli corrisponda in questo modo.
Egli può nominare ogni essere vivente, ma non c'è nessuno che gli possa dire chi è lui.
"Così il terrestre impose il nome a tutto il bestiame, ai volatili del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma per la creatura terrestre non c'era un aiuto corrispondente" (Gen 2,20).
Il racconto, qui, rallenta; la ricerca non è immediata. L'incontro con l'altro avviene rispettando alcuni ingredienti: la consapevolezza di un'assenza (non è bene che sia solo), la fatica della ricerca (Dio conduce ogni creatura vivente davanti al terrestre), la necessità della scelta ("questa è carne della mia carne e osso delle mie ossa").
La donna, creata in un secondo momento, dopo il riconoscimento che la creatura umana è tale solo di fronte a un tu, che non può essere supplito nemmeno dal tu divino, è diversa dall'uomo maschio, ma ha la stessa dignità: è formata da Dio come l'uomo, è impastata con la stessa sostanza dell'uomo, sostanza presa dal fianco, perché possa camminargli a fianco e consentire così l'esperienza dell' "in-contro" (è così che scelgo di tradurre quell'aiuto-contro, troppe volte reso dalla tradizione con aiuto convenevole, complementare). Dal sonno dell'Adam, dalla sua capacità di lasciare andare, di non controllare tutto, di essere passivo e affidarsi all'Altro, nasce la donna, e allo stesso tempo, nasce anche il maschio. Questi non è più creatura terreste (Adam), ma Ish (uomo) in relazione con Isha (donna). I giochi linguistici, difficili da restituire in una traduzione, creano un parallelo tra le coppie: terra-creatura terrestre, uomo-donna, avendo sullo sfondo la relazione Dio-umanità.
La creatura terreste, nell'in-contro con la donna, cambia: diventa creatura sessuata al maschile e dunque definita anche attraverso questa diversità. Ma soprattutto impara a parlare, a comunicare.
La lingua, che prima sapeva già usare per "nominare il mondo", per catalogarlo, conoscerlo e controllarlo, adesso diviene dispositivo di relazione, linguaggio della comunicazione. Da compilatore delle voci della Wikipedia dell'Eden a comunicatore in una relazione aperta; dal linguaggio che ordina e controlla a quello che racconta: "questa è carne della mia carne, osso delle mie ossa".
La storia di Adamo ed Eva non è una favola. Le favole seguono parabole predefinite: iniziano con una situazione descrittiva, la quale si annoda nella scena della crisi, e si concludono con la sconfitta del male e la felicità ristabilita. Nel racconto della creazione, nella vicenda dei nostri progenitori, archetipo della coppia umana, al posto della linearità dello scioglimento dei nodi, fino all'epilogo felice, troviamo gli ingredienti che combinano il linguaggio alto della vocazione all'amore e la verifica esperienziale del continuo fallimento. Ingredienti miscelati secondo un ordine opposto a quello fiabesco: un racconto idilliaco degli inizi, che si frantuma con la caduta e la cacciata. Ma già nelle battute iniziali troviamo i segni che annunciano la crisi, che subentra a deformare il progetto originario. Le parole d'amore che l'uomo dice al risveglio sono parole forti, innamorate, parole piene di stupore e di riconoscimento. Parole positive, ma non prive di ambiguità. La prima ambiguità è che l'uomo non si rivolge direttamente alla donna. Parla di lei senza parlare con lei. La riconosce come parte di sé e, tuttavia, non è in grado di riconoscerla altro da sé. È come se, per accoglierla ed entrare in relazione con lei, ritenesse necessario ridurla a sé: questa è me, carne della mia carne! in queste prime parole fusionali viene meno il riconoscimento di quell'alterità che aveva mosso il progetto divino dell' "in-contro". È il primo segnale forte dell'esito disastroso della relazione di coppia, segnata poi dal sospetto e dall'incapacità di fare i conti con l'altro (Gen 3).
L'altro è il vero problema per la creatura umana: sia il tu orizzontale, rappresentato dalla donna, che quello verticale, rappresentato da Dio. Si nega l'alterità dell'altro, trasformandolo in me (carne della mia carne) o col desiderio di voler essere come lui. Il desiderio di essere come Dio, facendo venir meno l'in-contro. O come il fratello, sostituendosi a lui, di fatto eliminandolo.
La scena di creazione si conclude con Dio che, dopo aver formato la donna, la conduce all'uomo, e questi la riconosce come parte di sé e le dà un nome. Tuttavia, fallisce nel riconoscerne l'alterità. La consegna finale, con cui la voce narrante conclude il racconto, pone le condizioni perché questa relazione di coppia possa, di nuovo, risultare "feconda". "Perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una stessa carne" (Gen 2,24). Il comando di lasciare, di uscire dai legami originari (il padre e la madre), che, in seguito, darà vita all'esperienza della fede (Abramo, chiamato a lasciare la sua terra e la sua casa), è qui consegnato come la condizione per l'in-contro. Se nel patriarcato è la donna che deve uscire dalla casa paterna per entrare nella casa del marito, qui è l'uomo che deve lasciare per incontrare. Una chiara critica all'ordine patriarcale, non finalizzata a creare un ordine matriarcale, ma a esprimere un movimento di uscita per generare vita. In gioco c'è molto di più dell'istituzione matrimoniale e della legittimazione della coppia eterosessuale, come unico modello affettivo. Trova voce, piuttosto, un'intuizione antropologica che vede nell'in-contro con l'alterità l'unica possibilità per diventare umani. Molto più di una teologia matrimoniale che la morale cristiana, sulla base di un'interpretazione letterale del testo, riduce esclusivamente alla relazione uomo-donna, con il rischio di chiudere la coppia, fossilizzandola, negandole quel dinamismo che apre al nuovo.
Nell'esperienza di coppia si può sperimentare una sterilità ben più tragica di quella biologica, quando l'io rimane ancorato a se stesso, quando l'in-contro avviene senza un'uscita dal sé originario (padre e madre). La coppia, come esperienza di eccedenza del sé, più che immagine radicale di tutte le altre alterità e del dinamismo della relazione, può deformarsi in esperienza difensiva di chiusura.
La coppia, dogmatizzata, moralizzata, rischia di non rimandare più a quel laboratorio di passioni che si espandono, a quel giardino dove si impara un alfabeto che l'umanità è chiamata a parlare anche altrove. Se viene meno la dialettica dell'in-contro - e può venir meno persino in nome di Dio! - la coppia torna a vivere l'esperienza del bastare a se stessa.
Si invertono i termini: non "i due saranno una carne sola" ma "la carne sola saranno i due"; ovvero: la stabilizzazione presuntuosa e giudicante di un'unica esperienza di coppia assorbe l'alterità - il "due" - nel monofisismo dell'unica carne. Non è proprio questo un nodo del nostro presente? Dove l'esperienza di coppia perde il mondo, ripiegandosi in un'intimità, intimata nel privato, incapace di scommettere sulla condizione relazionale dell'umanità intera, sulla sua irriducibile pluralità. La coppia funziona se c'è differenziazione, ma non solo al proprio interno; se non pretende di avere l'esclusiva sull'esperienza di alterità.
La sapienza biblica narra di un sogno divino, e per questo esorbitante, dagli orizzonti ampi, creaturali, per l'appunto. Non è la difesa d'ufficio di una configurazione storica delle relazioni affettive. È molto di più. La coppia umana - ogni tipo di coppia - è chiamata a fare della propria esperienza un laboratorio di incontro, di relazioni allo stesso tempo stranianti e riconciliate, aprendosi a tutte quelle alterità che nascono come frutti inattesi del giardino umano, che Dio ci ha consegnato perché lo custodissimo e lo coltivassimo.
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