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Gianfranco Ravasi "Rivelazione un faccia a faccia"

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Editoriali ottobre 2018

Immaginiamo un palco sul quale viene fatta sfilare una serie di personalità della storia culturale dell’Occidente e un presentatore chiede loro una definizione del “volto”.
Il primo è Cicerone che in latino esclama: «Imago animi vultus», il viso è uno specchio dell’anima. E aggiunge: «indices oculi», cioè gli occhi ne sono lo svelamento. Poco dopo, ecco Plinio ripetere: «In oculis animus habitat», e qui non c’è bisogno di traduzione. È, secoli dopo, Ariosto a sospirare: «Se, come il viso, si mostrasse il core!». Poi è la volta di Jean La Bruyère, pensatore francese del Seicento, : «Un bel viso è più affascinante di tutti gli spettacoli». Un secolo dopo, ecco lo scienziato e scrittore tedesco Georg Christoph Lichtenberg a ribadire che «la più interessante superficie del mondo è quella del volto umano».
Minaccioso è il grande francese Albert Camus che dichiara: «Ahimè, dopo una certa età ognuno è responsabile della sua faccia». A questo punto fermiamo la sfilata con un’ultima figura che entra in scena, cronologicamente ancor più vicina a noi (anche se già dimenticata), lo scrittore Oreste Del Buono che sviluppa il tema: «Non c’è nulla di più sconosciuto della faccia di una persona che conosci; se la guardi a lungo, diventa non so cosa, un paesaggio». Fermiamoci qui, in questo spettacolo forse un po’ stravagante che, in realtà, potrebbe essere di molto dilatato perché il volto è uno dei simboli maggiori della nostra comunicazione.
Esso è tutt’altro che una mera sequenza di piani, di forme e di organi; è un palinsesto di messaggi nascosti ma decifrabili, tanto che Michelangelo in un suo sonetto, echeggiando Dante, ribadiva che l’anima si affaccia tutta dai nostri occhi. Ed è così vero che, quando due innamorati che siano veramente tali hanno esaurito tutte le loro parole, si guardano in viso e si fissano negli occhi in silenzio e quell’incrocio di sguardi è molto più eloquente del linguaggio delle labbra.
Che cosa dire, poi, del “ritratto”, cioè del volto dipinto, uno dei capitoli fondamentali nella storia dell’arte, a partire dall’icona cristiana (è già san Paolo a definire Cristo eikôn del Padre in Colossesi 1,15), procedendo in mille raffigurazioni di santi, di re, di vescovi, di cavalieri e di gente comune? Non è solo il sorriso enigmatico della Gioconda o quello sottile della Dama con l’ermellino o il volto impenetrabile del Musico, opere tutte di Leonardo, ma anche la faccia “scomposta” della Donna seduta di Picasso o il curioso Autoritratto (un genere dalla diffusione sterminata) con l’aureola di Gauguin presente nella National Gallery di Washington, e così via.
In questo speciale di “Luoghi dell’Infinito” il volto sarà perlustrato in tutte le sue dimensioni simboliche, a partire dal paradosso biblico di un Dio fortemente marcato nella sua fisionomia attraverso la parola sacra, ma invisibile a livello iconico. È interessante notare che nell’Antico Testamento “davanti a…” si esprime con lipnê-, che letteralmente significa “davanti al volto di…”. Panîm, la “faccia” di una persona, è in ebraico un vocabolo plurale che denota la complessità di un volto che – come si diceva – non è mai un mero fenomeno di pelle, organi, carne e teschio, ma un vero e proprio segno espressivo di comunicazione. È per questo che spesso nella Bibbia il viso indica l’interiorità stessa di una persona come, ad esempio, avviene nel caso di Caino invidioso di suo fratello Abele: «Caino era molto irritato e il suo volto era abbattuto» (Genesi 4,5). O come accade in positivo ad Anna, la futura madre del profeta Samuele: dopo aver sentito il sacerdote Eli assicurarle che il Signore avrebbe esaudito la sua speranza di generare un figlio, «il suo volto non fu più come prima» (1Samuele 1,18).
L’attenzione della Bibbia (come in tutte le religioni) punta, però, su una faccia misteriosa e gloriosa, quella di Dio. Proprio perché il volto designa la persona stessa, è facile comprendere come “vedere il volto” divino sia vietato all’uomo, tant’è vero che si riteneva che non si potesse sopravvivere a quell’esperienza. Significativa è la reazione di Isaia nel giorno della sua vocazione profetica: «Ohimè! Sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono […]; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti!» (6,5). Anche Mosè, che pure dialogava con Dio come un amico parla col suo amico («bocca a bocca io parlo con lui», Numeri 12,8), al suo desiderio di contemplare in pienezza e senza schermi la gloria del volto divino, riceve questa risposta netta di Dio: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. […] vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Esodo 33,20.23).
Eppure nella Bibbia, attraverso il ricorso all’antropomorfismo, cioè a un modo simbolico per parlare di Dio, del Signore noi conosciamo gli occhi che scrutano gli uomini, la bocca che pronuncia oracoli e messaggi, le orecchie che ascoltano, persino il naso che sbuffa nell’ira. Anzi, nel Salterio progressivamente si delinea l’idea della possibilità di “vedere il volto di Dio” quando si accede al tempio nella preghiera (Salmi 11,7; 17,15; 42,3), così come la faccia di Dio che risplende sul suo popolo è segno di felicità e protezione, secondo quanto dice la bella benedizione “sacerdotale” di Numeri 6,25-26: «Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace». I fedeli sono definiti come «coloro che cercano il volto di Dio» (Salmo 24,6; 27,8-9), così come, nel giorno del peccato e del giudizio, si dice che «il Signore nasconde il suo volto».
In questo contrappunto tra il mistero del volto divino e la sua rivelazione e contemplazione si ripropone il nesso tra la trascendenza di Dio e la sua immanenza, ossia tra il suo essere differente e superiore alle facoltà umane ma al tempo stesso il suo essere persona che opera, parla, interviene nella storia, manifestandosi come salvatore. Naturalmente l’apice di questo incontro con l’uomo è raggiunto da Cristo che è in sé il Figlio di Dio, «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (Ebrei 1,3), ma che è anche Gesù di Nazareth con una faccia umana percepibile, visibile e vivente. Si riesce allora a comprendere la frase di Giovanni: «Dio nessuno l’ha mai visto, ma proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre lui lo ha rivelato» (1,18). In questa luce, le pagine che seguono diventano sintesi non solo di arte, storia e cultura ma anche di teologia.
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