Quale tipologia biblica di molesto sei?
di Christian Albini
Editrice Missionaria Italiana |8 Agosto 2018 Fonte: Aleteia
[Tratto da “Sopportare pazientemente le persone moleste. Aver pazienza con gli altri come Dio con noi” (Emi)]
Secondo Voltaire, siamo tutti impastati di errori e debolezze, per cui la prima legge di natura è perdonarci reciprocamente le nostre balordaggini.
Eppure, questo principio pare non avere buon corso nei rapporti umani, che oggi sembrano particolarmente difficili e conflittuali. È il caso delle persone moleste, di cui ci vogliamo occupare. Per affrontare la nostra riflessione dobbiamo innanzitutto capire chi esse sono.
Con l’aggettivo molesto si intende normalmente colui che provoca fastidio e danni, che è sgradito e sgradevole, difficile da sopportare. Deriva dal latino e ha la stessa radice di moles, il cui significato è «mole», «massa», «peso», ma anche «pericolo». Le persone moleste sono perciò coloro che «ci pesano addosso» e che percepiamo come irritanti o addirittura minacciose. Il punto è da che cosa dipenda la nostra percezione. All’interno di questo orizzonte di significato possiamo individuare almeno quattro categorie di persone che vi si collocano. Ciascuna può essere associata a un episodio biblico, a riprova di come la Scrittura rispecchia e legge la nostra umanità e la nostra vita.
Abbiamo innanzitutto i molesti «dannosi», quelli che procurano disagio: prendono, invadono, opprimono, addirittura feriscono, perché non sono capaci di rispetto e considerazione per gli altri. Giobbe, emblema dell’uomo prostrato dalle sofferenze, definisce «consolatori molesti» (cfr. Gb 16,2b) quegli amici che, con la loro pretesa di illustrargli la ragione delle sue disgrazie, non gli portano alcuna consolazione, ma ulteriore tormento.
Ci sono poi i molesti «scomodi», che disturbano i nostri privilegi e svelano i nostri egoismi e ipocrisie con le loro richieste che sono fondamentalmente richieste di giustizia. Ne è un esempio la parabola del giudice disonesto e della vedova che lo infastidisce (cfr. Lc 18,1-8).
Inoltre, vi sono dei molesti che potrebbero essere definiti «provocatori», i quali ci disturbano con la loro sola presenza, con la loro stessa esistenza che costituisce un appello alla nostra responsabilità. Sono i marginali, gli scartati che ci turbano, a volte ci disgustano, e che vorremmo fossero invisibili. È il caso del cieco di Gerico che tutti volevano tenere lontano da Gesù, il quale si sofferma invece con lui (cfr. Mc 10,46-52).
Infine, ci sono coloro che potremmo chiamare i molesti «detestabili»: li consideriamo tali in quanto diversi per la loro identità, le loro convinzioni, i loro comportamenti. In genere si tende a ignorarli, a scansarli, ma c’è chi prova nei confronti della diversità un rifiuto tanto viscerale da spingersi fino a un’ostilità aggressiva. Un esempio di persona molesta «detestabile» è la donna che, durante un banchetto a cui era stato invitato Gesù, desta scandalo perché lo tocca bagnandogli i piedi con le lacrime e asciugandoli con i propri capelli (cfr. Lc 7,36-50). Il padrone di casa, il fariseo Simone, non riusciva ad ammettere che un uomo di Dio avesse una tale confidenza con una nota peccatrice.
Allargare lo sguardo
La tipologia che abbiamo abbozzato ci presenta una sorta di ribaltamento. Se sentiamo nominare le persone moleste, infatti, il nostro primo pensiero è quello di immaginarle come figure negative che ci creano problemi. Questo perché istintivamente tendiamo a fare del nostro vantaggio e del nostro gradimento la misura di tutto ciò che è bene e male. Figure del genere certamente esistono, sono persone che purtroppo incontriamo quasi tutti i giorni nei luoghi della convivenza. Adottando, però, una prospettiva più ampia, ci possiamo accorgere che a volte consideriamo molestie i segnali di un male subito da altri, del quale addirittura potremmo essere corresponsabili.
«Fare misericordia» in questo senso, allora, tocca una vasta gamma di relazioni umane private, civili, pubbliche, e si sviluppa lungo due direttrici:in primo luogo, si tratta di affinare e convertire il nostro sguardo per distinguere le molestie «dannose» da tutte le altre; poi, si tratta di saper vivere e abitare tutte queste relazioni cercando di costruire comunione, incontro, condivisione. Lo stile ci viene indicato da una lettura attualizzata degli altri vocaboli che compongono la formulazione tradizionale di quest’opera di misericordia spirituale: il sopportare e la pazienza. La misericordia è una vera e propria arte di vivere e di amare e nell’accezione che qui esploriamo si configura come un educarci allo stare insieme. «Nessun uomo è un’isola, in sé completa: ognuno è un pezzo di un continente, una parte di un tutto», dice un passo del poeta John Donne, dal quale il monaco Thomas Merton ha tratto il titolo di una sua celebre opera.
L’umanità è relazione: è una realtà che Gesù esprime attraverso il comandamento di amare il prossimo come sé stessi. Possiamo arrivare a comprenderlo razionalmente, ma molte relazioni che sperimentiamo sono di fatto difficili e urtanti.
Il rapporto con coloro che sentiamo come un peso, nella prospettiva cristiana, è riconducibile alla questione di amare chi non è amabile, che Merton affronta su un piano spirituale. È possibile amare i molesti? E come? Risulta impossibile se ci adoriamo segretamente, se siamo preda di una sorta di idolatria di noi stessi che ci impedisce di vedere con obiettività i nostri limiti ed enfatizza quelli altrui. La chiave è capire che non siamo «come dei» e che nessuno si aspetta questo da noi. «Ci vedremo creature umane come tutti gli altri; scopriremo di avere tutti debolezze e deficienze e che queste nostre limitazioni hanno una parte importantissima nella vita di ognuno di noi. Proprio per queste deficienze abbiamo bisogno degli altri e gli altri hanno bisogno di noi e poiché non abbiamo tutti le stesse debolezze, possiamo aiutarci e completarci a vicenda, supplendo l’uno a quel che manca all’altro».2
Quando riusciamo a guardarle con verità e onestà, le nostre ombre possono sembrarci anche più oscure di quelle altrui. Spesso le ignoriamo e distogliamo lo sguardo perché non le sappiamo accettare. Nella nostra vita spirituale, però, possiamo fare esperienza di uno sguardo che ci precede e si posa su di noi, ci accoglie con le nostre ombre e ci trasmette la fiducia che i nostri pesi siano portati con pazienza. Questa stessa fiducia ci educa e ci incoraggia a sostenere i pesi degli altri. Si impara così a stare insieme, a «vivere con», atteggiamento che sembra una delle fatiche più grandi nella nostra cultura, così propensa a rifugiarsi nel guscio del privato e delle relazioni più strette. «Sopportare pazientemente le persone moleste» equivale a vivere con gli altri e non senza, includerli nel nostro orizzonte di vita e non rimuoverli.
I molesti «dannosi»
Il prossimo è sempre qualcuno che non ti aspetti. Lo incontri o ti viene incontro sulle strade di ogni giorno. Così anche i molesti. Sono pure loro un’occasione per «farsi prossimi», seppure poco piacevole per noi. Tra le categorie che abbiamo elencato, questo vale soprattutto per coloro che in qualche misura ci feriscono o ci danneggiano con un comportamento invadente o addirittura nocivo.
Possiamo pensare alle piccole molestie compiute dai venditori che, con insistenza, fanno squillare i nostri telefoni e bussano alle nostre porte. Ci sono poi i vicini di casa rumorosi e tante situazioni legate alle nostre abitazioni, soprattutto nei condomini dove si sta gomito a gomito con persone che non abbiamo scelto. L’ambiente urbano, i luoghi pubblici, le strade sono tutti spazi d’incontri che diventano spesso fonte d’irritazione e stress: quell’impiegato sgarbato dopo una lunga coda a uno sportello, quell’automobilista aggressivo che ti insulta e ti fa rischiare un incidente, quei ragazzi il cui divertimento si riversa in forme di disturbo o addirittura di vandalismo… E poi abbiamo i luoghi di lavoro, quando incontriamo un collega scorretto e arrivista, un capo autoritario e oppressivo, un cliente pretenzioso e arrogante…
Ognuno potrebbe fare i suoi esempi. La figura che oggi è emblematica di questo genere di persone è lo stalker. È un esempio estremo, che ci fa spostare in direzione dei comportamenti penalmente rilevanti e delle patologie psichiche, i quali stanno al di là della sfera del nostro discorso, ma ci aiutano a capire. Nella lingua inglese, stalking è un vocabolo che appartiene al lessico della caccia e significa «fare la posta», come quando si bracca la preda. Lo stalker è un autentico persecutore che invade la vita della vittima con la sua presenza reale o virtuale, attraverso mezzi di comunicazione e social network, fino alla violenza fisica. Nella maggior parte dei casi, questo modo di fare è legato a fissazioni sentimentali, per cui il persecutore non accetta un rifiuto o la rottura di una relazione. È una persona che vede solo sé stessa, i propri bisogni e desideri, senza accettare la libertà dell’altro e senza riconoscere il suo vissuto.
Parliamo di una degenerazione, ma quante volte incontriamo persone che, nelle piccole cose di tutti i giorni, irrompono nella nostra vita esigendo qualcosa o imponendo i propri desideri? E a pensarci bene, potrebbe essere un modo di fare che talvolta anche noi adottiamo…
Come figura biblica di questo genere di molesti, mi viene da pensare agli amici di Giobbe, l’uomo sofferente, tempestato dalle disgrazie. Costoro andarono da lui «per consolarlo» (Gb 2,11) e, dopo essergli rimasti vicini con lamenti, pianti, gesti di lutto e soprattutto con un lungo silenzio, «perché vedevano che molto grande era il suo dolore» (2,13), cominciarono a parlare e si rivelarono «consolatori molesti» (16,2). Giobbe lo capiva bene, lui che era considerato un «consolatore di afflitti» (29,25). Invece di rispettare il suo dolore e accettarlo, quegli amici sfoderavano le proprie spiegazioni e i propri giudizi su di lui e su quanto gli era accaduto.
Dicevano gli antichi saggi d’Israele: «Non consolare [il tuo prossimo] quando un morto che gli è caro giace disteso davanti a lui».3
Imporre le proprie parole e opinioni a chi è nella sofferenza acuta è come imporre sé stessi, invece di accoglie-
re la persona nel suo dolore. Sono molesti coloro che avanzano pretese, che agiscono a prescindere dall’altro, senza considerarlo. È una strada radicalmente divergente da quella dell’esistere con l’altro, presentata ad esempio da Giovanni Battista a chi gli chiedeva un insegnamento ed è riassumibile in tre verbi: condividere, cioè vedere il bisogno dell’altro e saper donare ciò che abbiamo; non pretendere, che significa porsi con umiltà e gratuità nelle relazioni; non maltrattare, sarebbe a dire non abusare delle posizioni di potere in cui eventualmente ci troviamo (cfr. Lc 3,10-18).
I molesti «scomodi»
Ben diverso è il caso di chi risulta molesto perché la sua voce e la sua presenza sono per noi scomode. Sono coloro che denunciano un’iniquità e reclamano un proprio diritto. Una situazione del genere è presentata da Gesù in una parabola da lui raccontata ai discepoli, per far comprendere loro la necessità di pregare senza interruzione. La protagonista è una vedova che si rivolge a un giudice disonesto domandando giustizia. Questi la ignora, ma viene infine vinto dall’insistenza di lei, e il testo riporta il suo monologo interiore: «Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi» (Lc 18,5).
La parabola è narrata allo scopo di non far perdere la fiducia in Dio e di incoraggiare la perseveranza nella preghiera, poiché Dio è giusto, a differenza del magistrato. Per contrasto, però, la giustizia divina mette in risalto la nostra ingiustizia. E quando le vittime, o coloro che parlano per loro, si fanno sentire, danno fastidio, disturbano interessi, comodità, connivenze piccole e grandi.
Qui la situazione precedente del molesto dannoso e prevaricatore risulta capovolta, perché la molestia deriva invece dalla protesta e dall’azione di una vittima.
Riguardo al chiedere giustizia, chi appartiene alla mia generazione non può non pensare a Giovanni Falcone – che era un magistrato completamente diverso da quello della parabola evangelica; e ce ne sono stati altri come lui –, ucciso in un attentato per le sue indagini contro la criminalità organizzata. Sull’autostrada A29, allo svincolo di
Capaci, a pochi chilometri da Palermo, una bomba telecomandata fece saltare in aria le auto blindate su cui viaggiavano lui, la moglie e gli agenti di scorta. Gherardo Colombo, un collega particolarmente impegnato nel contrastare la corruzione a Milano, ricorda che Falcone «dava fastidio a molte persone»,4 non solo ai mafiosi. Attorno alle «famiglie» della malavita ci sono sempre reti di connivenze ed equilibri di potere… Adattarsi a queste
realtà è di certo molto più comodo e vantaggioso che non sfidarle a proprio rischio e pericolo.
Chi lo fa, spiega Colombo, è spinto dalla «consapevolezza dell’esistenza di un sottile filo invisibile che ci lega tutti e ci fa essere parte non solo della stessa specie biologica, ma della stessa societas, insomma di un gruppo all’interno del quale il cammino dell’uno, per quanto possa sembrare indifferente, si interseca con quello degli altri, e lo rende partecipe».5
Qui cogliamo un aspetto in più, rispetto a quanto detto in precedenza: la prevaricazione, il non considerare l’altro, nasce dal non riconoscerlo, dal sentirlo slegato da me, irrilevante, per cui vedo solo i miei fini e il mio tornaconto. Chi dice «no» è molesto, diventa un peso, un problema. Molti potrebbero non sentirsi toccati dagli esempi sulla mafia, ma il punto è che potrebbero esserci situazioni d’ingiustizia, anche «banali» e ordinarie, in cui siamo coinvolti e magari nemmeno ce ne accorgiamo.
O fingiamo di non vedere. E, allora, la molestia generata dagli scomodi ci fa da campanello d’allarme.
I molesti «provocatori»
Un altro genere ancora di molestia è quella che deriva dall’incontro con persone che vorremmo lasciare al di fuori del nostro orizzonte di relazioni, perché sono d’intralcio al nostro quieto vivere. Sono gli esclusi, gli scartati, coloro che stanno ai margini del nostro sistema. La loro situazione non dipende da noi, non è imputabile a qualche nostra colpa diretta. Però ci dicono che le cose, così come stanno, non vanno bene. C’è bisogno di un cambiamento che anche a noi può costare qualcosa.
Qui la molestia corrisponde a una sfida a uno dei grandi mali del nostro tempo: l’indifferenza. È un tema che papa Francesco ha affrontato in particolar modo nel suo messaggio per la Giornata della pace del 2016, in cui denuncia quell’assuefazione a motivo della quale molti non si sentono coinvolti nei drammi che affliggono gli altri e non si preoccupano se questi vengono «scartati». La nostra società iperinformata – così la definisce il papa – paradossalmente produce forme di abitudine e di passività rispetto ai disagi altrui. Nel flusso d’informazioni e stimoli, così vasto e incessante, gli ultimi si perdono, diventano ancora più irrilevanti e ci si volta dall’altra parte per non vedere.
«Alcune persone preferiscono non cercare, non informarsi e vivono il loro benessere e la loro comodità sorde al grido di dolore dell’umanità sofferente. Quasi senza accorgercene, siamo diventati incapaci di provare compassione per gli altri, per i loro drammi, non ci interessa curarci di loro, come se ciò che accade a essi fosse una responsabilità estranea a noi, che non ci compete».6
Il povero (soprattutto quando assume la veste, per molti repellente, dell’homeless), il disoccupato, l’anziano, il malato o l’invalido sono tutte persone rimosse, da cui si distoglie lo sguardo. Oggi, questo vale in particolar modo per i migranti, contro i quali si riversano ostilità e prevenzioni di ogni genere. Però ci si rifiuta di vederli come persone nel bisogno, si preferisce ignorare i loro vissuti di sofferenza. Ci sono bambini che nascono sui barconi dei disperati, lo sappiamo, e purtroppo anche quelli che muoiono lì, nel freddo del mare aperto o sulle spiagge. L’immagine di Aylan, una di queste piccole vittime, ha fatto il giro del mondo. Vorrei dare un briciolo di memoria, attraverso il suo nome, anche a tutti quelli di cui non sapremo mai niente. Questo è Male e basta: eppure, c’è anche chi, di fronte a tragedie del genere, rimane nell’indifferenza…
Rientrano nel discorso anche le persone disabili, verso le quali c’è magari una migliore disposizione d’animo, ma solo finché non escono da certi confini che sembrano recinti. Ho potuto sperimentare di persona che cosa voglia dire accompagnarle nel condividere delle giornate di vacanza e assistere, in rinomate località di montagna, alle reazioni suscitate dal loro passaggio. Penso a certa «gente bene» che con le espressioni del viso e i commenti si rivelava seccata, anche un po’ disgustata, per l’invasione di spazi di riposo e di svago che considerava «suoi».
Qualcosa del genere è capitato anche a Gesù, quando a Gerico incontrò il cieco Bartimeo che al suo passaggio cominciò a gridare: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!» (Mc 10,47). Il cieco è fermo ai bordi della strada (10,42), cioè ai margini, in una situazione umiliante, costretto a dipendere dagli altri. E per di più la folla vuole costringerlo a tacere, lasciando trasparire disprezzo nei suoi confronti. Eppure, Bartimeo si distingue da tutti gli altri: «Egli ha un nome e un’identità precisa, vede in Gesù il “figlio di David”, cosa che non colgono quanti circondano Gesù, per i quali egli è semplicemente “il Nazareno”».7
Stare ai margini consente di vedere quel che la prospettiva dei privilegiati occulta. E Gesù si lascia molestare: si ferma, devia dai propri programmi, lo riconosce nella sua dignità e nel suo bisogno, si lascia interpellare – «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (10,51) – e accoglie la richiesta di restituire al cieco la vista. Questo tipo di persone moleste sollecita da parte del cristiano una risposta!
I molesti «detestabili»
«Abbiamo bisogno di accoglienza con benedizione. Non è più sopportabile sentir dire che la Chiesa non scaccia nessuno, non giudica nessuno, che tutto accoglie e tutto perdona. Non è più sopportabile, perché presuppone che l’omosessuale in quanto tale sia “male”, un male da accogliere per redimerlo».
Ricordo bene quando ho sentito queste parole. Stavo dialogando con Eduardo Savarese, magistrato e scrittore, per presentare la sua Lettera di un omosessuale alla Chiesa di Roma, un libro in cui pone degli interrogativi e, da credente convinto, lancia un appello per un ripensamento della posizione cattolica in materia di morale sessuale. Savarese ha dato voce a molte persone che ha incontrato e che hanno abbandonato la pratica religiosa, pur soffrendone, perché si sentivano rifiutate ed etichettate.
Il tema è vasto e implica questioni di antropologia ed etica che qui non è possibile discutere. Mi limito a ribadire un argomento che toccai quella sera: preliminarmente a tutte le considerazioni teologiche e dottrinali, se qualcuno nella comunità cristiana non si sente ben accetto e sostenuto nella sua vita, ma sminuito, c’è qualcosa che non va e che non corrisponde al senso del Vangelo. Ci sono state persone, al termine, che mi hanno confidato di non aver mai incontrato uomini di Chiesa che parlassero loro in quel modo. Anche il Catechismo della Chiesa cattolica pone come imprescindibile un atteggiamento di rispetto, compassione (che alla radice è cum-patire, «sentire con») e delicatezza.9
E il primo rispetto riguarda i sentimenti profondi di una persona e il suo legittimo desiderio di amore e di felicità che fa parte della comune condizione umana. Eppure, quando dissi la stessa cosa in un’altra occasione – senza citare la fonte magisteriale – ci fu qualcuno che andò a chiamare il parroco che ci ospitava, allarmato dalle mie parole che evidentemente gli suonavano pericolose. Mantenere ferma la fede cristiana nel matrimonio tra uomo e donna come sacramento non impedisce, in forza della stessa fede, di apprezzare le persone omosessuali e l’impegno d’amore che può esserci tra loro, come ha ben spiegato Timothy Radcliffe, già maestro generale dei domenicani.10
Ci sono persone che risultano moleste non perché dannose, scomode o provocatorie. Magari non compiono nessun atto che ci riguardi direttamente, non ci chiedono nulla, potremmo addirittura non incontrarle nemmeno. Eppure, ci pesano in quanto la loro identità – in relazione al modo di essere, all’appartenenza, alle convinzioni, allo
stile di vita – è per noi detestabile, insopportabile. È un discorso che va oltre l’ingiustizia e l’indifferenza egoista che abbiamo già toccato. Abbiamo a che fare con un atteggiamento dal quale una persona si sente marchiata e tormentata in continuazione. Lo ha spiegato bene Martin Luther King, nella sua Lettera da una prigione di Birmingham:
«Quando ti si umilia un giorno sì e uno no con cartelli che dicono “bianchi”, “persone di colore”, quando il tuo nome di battesimo diventa negro e quello di mezzo diventa “ragazzo” (non importa che età tu abbia), e tua moglie e tua madre non sono mai chiamate “signore” con rispetto, quando devi vivere in punta di piedi senza mai sapere che cosa ti può capitare, quando devi sempre combattere con il sentimento di essere “nulla”, allora capite perché troviamo difficile aspettare».11
Siamo all’interno di una logica di esclusione che può colpire i soggetti più diversi e che sembra diffusa in varie forme, come se fosse diventato più faticoso accettare la differenza, come se nell’altro si vedesse immediatamente il negativo con uno sguardo spietato e senza appello. Anche nel contesto delle chiese cristiane ci sono gruppi di credenti che giudicano e condannano altri in modo molto duro quando hanno posizioni diverse dalle loro. Avviene là dove ci si sente superiori agli altri per l’osservanza di norme e dottrine particolari – perdendo di vista l’essenziale della fede che è la misericordia di Dio – rinchiudendosi nella presunta sicurezza di un elitarismo narcisista e autoritario.12
Gesù si misura con la logica dell’esclusione in più occasioni, come quando è ospite del fariseo Simone e una donna peccatrice entra e, stando ai suoi piedi, li lava con le lacrime e li asciuga con i capelli (cfr. Lc 7,36-50). Per il pio Simone è uno scandalo: non concepisce che si possa accettare una tale confidenza da una donna del genere. Lui vede solo una peccatrice, una persona molesta da tenere a distanza, non riesce a riconoscerla capace di amore e di fede. Ci riesce invece Gesù, il cui sguardo di misericordia vede ciò che è più importante in una logica d’inclusione e d’integrazione.
Ed è questo suo atteggiamento, la fiducia di essere accolta, a incoraggiarla ad avvicinarsi al Signore.