Lisa Cremaschi Digiuno e condivisione
Meditazioni di Lisa Cremaschi
per il tempo di Quaresima 2018
per le Acli di Bergamo
Il cibo in sé è cosa buona. «Non è ciò che entra nella bocca che rende impuro l’uomo» (cf. Mt 15,11), afferma il Signore, e la prima lettera a Timoteo insegna che «tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi quando lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera» (1Tm 4,4-5). È l’uso del cibo che può essere stravolto.
Il cibo non ha a che fare col semplice bisogno fisiologico, ma appartiene al registro dell’affettività e del desiderio. Sebbene il corpo sia direttamente implicato, la voracità non deriva direttamente dai bisogni del corpo; ne è prova il fatto che il desiderio supera, e a volte di molto, il bisogno. Superare la misura del bisogno è dare al cibo un posto che non gli spetta; colui che si relaziona al cibo con ingordigia e voracità «riempie il suo stomaco per riempire il vuoto del suo cuore» (A. Berge, Le métier de parent, Paris 1956, p. 106), ha ben presente il cibo, ma dimentica colui che glielo ha donato. Mentre il bambino passa dal bisogno di cibo al desiderio di unione con un altro essere, a una relazione affettiva che diverrà il prototipo di tutte le relazioni affettive successive, costui invece resta chino sul suo piatto, incapace di rendimento di grazie e di ricevere insieme al dono del cibo il dono della relazione.
L’atteggiamento dell’ingordo è fondamentalmente idolatrico. Gli esseri umani che sono preda dell’ingordigia hanno il ventre quale il loro Dio, dice Paolo (cf. Fil 3,19); pongono al centro della loro vita il cibo, il piacere che da esso ne deriva.
Incapaci di rendere grazie, di vivere il nutrimento in atteggiamento eucaristico, lo considerano preda e bottino. Adamo volle gioire del cibo al di fuori di Dio. Il cibo qui è metafora dell’intera creazione, del mondo, della realtà. Adamo tende la mano per piegare a sé la realtà, consumando la sua disobbedienza al Creatore. In questo senso la voracità nella tradizione spirituale cristiana è la prima delle passioni, è all’origine di ogni altra, è la prima forma dell’egoistico amore (esclusivo) di sé, considerato dai padri “radice di ogni male”.
La rinuncia al cibo pone un limite a un bisogno vitale dell’uomo; attraverso di essa si vuole assoggettare il corpo, disciplinare i suoi istinti per predisporsi al dono della carità. Ma sempre il digiuno va associato alla preghiera e all’elemosina. Scrive Girolamo: «Chi digiuna si nutre come Mosè della familiarità con Dio e della sua parola. Sperimenta la verità di queste parole: l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (cf. Mt 4,4)» (Girolamo, Lettere 130,1). Come Mosè, come Gesù Cristo, il cristiano durante il digiuno si nutre della familiarità con Dio e della sua parola. La sua persona intera è coinvolta nella fatica della preghiera e della ricerca del volto di Dio. Rifiutando l’appesantimento di un cibo eccessivo, lo spirito è più desto e pronto a penetrare il significato delle Scritture. Purtroppo non sempre l’ascesi cristiana è stata vissuta in questa prospettiva. Talora si è caduti in eccessi lontani dallo spirito dell’evangelo ed ecco allora c’è chi ricorda che: «È cosa buona mangiare carne e bere vino, e non mangiare con la maldicenza la carne dei fratelli» (Detti dei padri, S. alf.: Iperichio 4). Nella tradizione cristiana il digiuno è sempre orientato alla carità. Un antico autore cristiano testimonia che nella comunità primitiva se vi era un povero e mancavano i mezzi per assisterlo, i cristiani «digiunavano due o tre giorni per poter dare al povero il cibo necessario» (Aristide, Apologia 15). In un altro testo si invita: «Il giorno in cui digiunerai, non gusterai nulla, salvo pane e acqua, e dei cibi che avresti mangiato in quel giorno calcola il prezzo e lo metterai da parte per farne dono a una vedova, a un orfano o a un bisognoso» (Erma, Il Pastore 56,7).
Il cibo non ha a che fare col semplice bisogno fisiologico, ma appartiene al registro dell’affettività e del desiderio. Sebbene il corpo sia direttamente implicato, la voracità non deriva direttamente dai bisogni del corpo; ne è prova il fatto che il desiderio supera, e a volte di molto, il bisogno. Superare la misura del bisogno è dare al cibo un posto che non gli spetta; colui che si relaziona al cibo con ingordigia e voracità «riempie il suo stomaco per riempire il vuoto del suo cuore» (A. Berge, Le métier de parent, Paris 1956, p. 106), ha ben presente il cibo, ma dimentica colui che glielo ha donato. Mentre il bambino passa dal bisogno di cibo al desiderio di unione con un altro essere, a una relazione affettiva che diverrà il prototipo di tutte le relazioni affettive successive, costui invece resta chino sul suo piatto, incapace di rendimento di grazie e di ricevere insieme al dono del cibo il dono della relazione.
L’atteggiamento dell’ingordo è fondamentalmente idolatrico. Gli esseri umani che sono preda dell’ingordigia hanno il ventre quale il loro Dio, dice Paolo (cf. Fil 3,19); pongono al centro della loro vita il cibo, il piacere che da esso ne deriva.
Incapaci di rendere grazie, di vivere il nutrimento in atteggiamento eucaristico, lo considerano preda e bottino. Adamo volle gioire del cibo al di fuori di Dio. Il cibo qui è metafora dell’intera creazione, del mondo, della realtà. Adamo tende la mano per piegare a sé la realtà, consumando la sua disobbedienza al Creatore. In questo senso la voracità nella tradizione spirituale cristiana è la prima delle passioni, è all’origine di ogni altra, è la prima forma dell’egoistico amore (esclusivo) di sé, considerato dai padri “radice di ogni male”.
La rinuncia al cibo pone un limite a un bisogno vitale dell’uomo; attraverso di essa si vuole assoggettare il corpo, disciplinare i suoi istinti per predisporsi al dono della carità. Ma sempre il digiuno va associato alla preghiera e all’elemosina. Scrive Girolamo: «Chi digiuna si nutre come Mosè della familiarità con Dio e della sua parola. Sperimenta la verità di queste parole: l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (cf. Mt 4,4)» (Girolamo, Lettere 130,1). Come Mosè, come Gesù Cristo, il cristiano durante il digiuno si nutre della familiarità con Dio e della sua parola. La sua persona intera è coinvolta nella fatica della preghiera e della ricerca del volto di Dio. Rifiutando l’appesantimento di un cibo eccessivo, lo spirito è più desto e pronto a penetrare il significato delle Scritture. Purtroppo non sempre l’ascesi cristiana è stata vissuta in questa prospettiva. Talora si è caduti in eccessi lontani dallo spirito dell’evangelo ed ecco allora c’è chi ricorda che: «È cosa buona mangiare carne e bere vino, e non mangiare con la maldicenza la carne dei fratelli» (Detti dei padri, S. alf.: Iperichio 4). Nella tradizione cristiana il digiuno è sempre orientato alla carità. Un antico autore cristiano testimonia che nella comunità primitiva se vi era un povero e mancavano i mezzi per assisterlo, i cristiani «digiunavano due o tre giorni per poter dare al povero il cibo necessario» (Aristide, Apologia 15). In un altro testo si invita: «Il giorno in cui digiunerai, non gusterai nulla, salvo pane e acqua, e dei cibi che avresti mangiato in quel giorno calcola il prezzo e lo metterai da parte per farne dono a una vedova, a un orfano o a un bisognoso» (Erma, Il Pastore 56,7).