Lidia Maggi Perché le parole non siano chiacchiera
“Esodo” n°4 dell'ottobre-dicembre 2017
Azzardo due affondi sul dilemma posto in evidenza, ovvero la figura pastorale e la comunità.
Il primo potremmo intitolarlo “naufragio con spettatore”. Riprendo questa celebre metafora per affrontare la questione comunitaria, in crisi non soltanto sulla scena ecclesiologica, ma anche in quella politica e nell’intero orizzonte dell’Occidente.
Del resto, le chiese non sono un mondo a parte: al loro interno si riproducono i medesimi fenomeni che connotano i tempi e i luoghi in cui i credenti si trovano a vivere. Il “tra voi non sia così” (Matteo 20,25ss), che indica la differenza evangelica rispetto alla logica mondana, di fatto, è stato assorbito e sostituito dal desiderio mimetico di essere come gli altri (1Samuele 8). E nel nostro presente, i legami sociali sempre più faticano a essere tessuti, mentre ritorna con forza il fascino dell’uomo forte, in grado di compiere quanto la comunità avrebbe potuto fare, ma non è stata in grado di realizzare, in quanto soggetto naufragato.
La questione dei ministeri all’interno delle chiese - e in particolare di quel servizio pastorale su cui ha fatto leva l’ecclesiologia cattolica controriformistica, ma non solo - sta tutta qui. Per quanto le discussioni ecumeniche si avvitino sulla legittimità o meno e sul riconoscimento di queste figure nelle diverse chiese, e la riflessione pastorale provi a ridisegnarle, in modo che siano all’altezza dei tempi, il problema sta a monte, nella questione comunitaria.
E, a differenza dello spettatore antico, che osservava il naufragio dalla felice condizione dello scampato pericolo, noi, oggi, sentiamo di essere su quella barca, di non avere a disposizione appigli esterni, riservati ai credenti.
Verrebbe da dire che ci troviamo nella medesima situazione dei primi cristiani, in un mondo in cui le esperienze consolidate erano messe in questione. La distruzione del Tempio di Gerusalemme, i primi sintomi di un Impero in fase decadente. Ma allora, il fascino dell’evangelo, la prospettiva di una liberazione, in grado di affascinare donne e uomini, pubblicani e schiavi, era una potente spinta propulsiva a tentare la strada della ecclesia. E duemila anni dopo? Per noi, la crisi da fronteggiare è anche il frutto avvelenato dell’operato delle chiese. Un soggetto comunitario può essere riconosciuto e preso in considerazione solo se si presenta credibile e in grado di aprire sentieri promettenti. Le chiese non possono sfilarsi dal naufragio, attribuendo le responsabilità all’imperizia di navigatori increduli.
Sento un po’ strette quelle analisi, pur puntuali e acute, di cui le chiese si fanno portavoce, senza che traspaia una seria autocritica. Come se il soggetto ecclesiale fosse stato del tutto marginale, in questi due millenni che hanno progetti minimali, dove ciò che conta è il dare forma a una casa abitabile.
I quattro racconti evangelici, mi sembra, funzionano così. Danno forma a quattro comunità, unite dalla medesima passione per l’evangelo, perseguita però seguendo ipotesi di lavoro differenti.
Hanno qualcosa da suggerire anche alla nostra cristianità stanca e delusa, che sembra aver mollato il colpo rispetto al sogno di Gesù? Possono parlarci anche in un contesto, in cui si va ognuno per sé?
Non saprei. Intendetemi bene: personalmente, credo nella Parola e nella sua potenza. Ma ciò non toglie che ci siano momenti storici in cui non resta che rilevare la sua inoperosità, a causa nostra, come ha dovuto constatare Giosia (2Re 22). Che - come suggerisce il Qohelet - ci sono diversi tempi, opposte stagioni. E a chi crede non è risparmiata l’esperienza di vivere periodi in cui è rara la Parola (1Samuele 3,1). Anzi, di patirne l’assenza, senza che il vuoto venga colmato (Amos 8,11-12). La Parola, cioè, non va in automatico. E le chiese non possono nutrire la pretesa di averla a propria disposizione. Anche nei confronti della Parola attestata nelle Scritture è necessario uno stile differente, un approccio più cauto, consapevole degli abusi e delle pretese di questi due millenni.
Indossando la veste penitente di chi quella Parola l’ha già letta, sovente abusandone, e riconciliandoci con la precarietà fallibile della nostra storia, possiamo tentare lo sguardo mobile dello spettatore capace di scorgere il naufragio e, insieme, di riconoscere il cantiere, da cui potrà uscire una nuova nave, costruita con i relitti della precedente e con altro materiale (Matteo 13, 52: “cose nuove e cose vecchie”!).
Torniamo, dunque, a interrogarci sull’esperienza comunitaria e sulle sue possibili forme, oggi.
Senza la garanzia che il progetto trovi realizzazione, che il cantiere aperto possa essere chiuso con successo. Come Penelope, tessiamo la tela delle relazioni, ma mettiamo in conto anche di disfarla, se i nuovi proci usano quel lavoro per altri fini, di fatto tradendolo.
Il secondo affondo - come il primo più interrogativo che risolutivo - si potrebbe intitolare “il pulpito muto”. Qui le domande si spostano attorno alla figura pastorale. E dalla nave ecclesiale, l’obiettivo si sposta su due scialuppe di salvataggio abbastanza differenti. Se il presbitero cattolico è un maschio celibe, precedentemente (?!) pensato come uomo del sacro e poi, col Vaticano II, come il ministro che presiede la comunità, in grado di raccogliere in sintesi l’operato dei diversi ministeri, nelle chiese protestanti la pastora e il pastore, solitamente coniugati, sono pensati come ministri della Parola. Quella Parola che la cristianità, pur venerando, di fatto aveva esiliato, e che con la Riforma torna a essere il centro dell’esperienza credente e la sorgente dell’esperienza ecclesiale (Ecclesia, creatura Verbi!). Parola di Dio, che i ministri, riconosciuti come tali da una comunità tutta sacerdotale, predicano con autorevolezza dal pulpito, nuovo centro dello spazio liturgico, che prende il posto dell’altare. Spogliato di ogni altra incombenza, non più padre e padrone della
comunità, la figura pastorale in ambito protestante si gioca tutta sulla Parola. Sennonché non solo il balcone di S. Pietro appare vuoto; anche il pulpito si ritrova silente, in una società dove la parola è ridotta allo stremo.
La situazione paradossale di una società dell’ipercomunicazione, in cui la parola ha perso senso e autorevolezza, delinea lo scenario nel quale ci muoviamo.
Inflazionata, usata strumentalmente, perlopiù secondo quel genere letterario oggi imperante, ovvero l’ironia postmoderna, decostruttiva, la parola è detta ma non significa. E non solo nell’ambito sociale: anche qui vale l’assunto che una chiesa non vive sotto una campana di vetro. La sorte della parola, di fatto, condiziona la possibilità di ascolto della Parola, la quale è sì “di Dio”, ma ci giunge attraverso una predicazione, che si avvale di parole umane. E se queste ultime sono ridotte a chiacchiera, destinate a perdersi nella moltiplicazione delle diverse voci, tutte equivalenti, allora la differenza della Parola pronunciata sul pulpito viene fatalmente compromessa. Se poi questa Parola è quanto dà forma alla comunità cristiana, alla ecclesia dei chiamati, si comprende bene che non siamo di fronte a un problema tecnico di comunicazione ma abbiamo a che fare con la questione decisiva se sia possibile dare forma a un gruppo umano che si lascia plasmare dall’evangelo.
Come si sottrae la sorte della Parola a questa deriva dell’insignificanza? E, di riflesso, come andrà ripensato quel ministero della Parola, il cui senso non sta nell’organizzare incontri e offrire bei sermoni, ma nella missione impossibile di lasciare irrompere e far risuonare una Parola altra, creatrice di una comunità alternativa alla logica mondana? Come può riacquisire autorevolezza la Parola, ora umiliata e offesa? Scartiamo l’ipotesi di lavoro che occorra ristabilire un’autorità indiscussa - ma non lo facciamo con supponenza, perché vi è ragionevolezza anche nel battere questo sentiero. Ipotesi che sembra guadagnare consenso nel disorientamento attuale e che non fa che riproporre la questione del potere e della forza necessaria per acquisirlo e mantenerlo. Ipotesi legittima e legittimata da una storia secolare, che ha battuto la strada della presa di potere al fine di realizzare quanto si proponeva. Ipotesi che, oggi, non necessariamente si tradurrebbe in prese di palazzi d’inverno, con relativa eliminazione del personale lì acquartierato. Si può agire a colpi di click e con strette di mano fatte con le persone giuste, influenti.
Gesù, però, non ha battuto questa strada. Alle autorità regnanti, ha contrapposto una sua autorevolezza, guadagnata sul campo, lungo le strade della Galilea, della Giudea e della Samaria, e non sedendo a corte, dettando legge e promulgando sanzioni. Come possiamo, oggi, ritrovare un’autorevolezza simile, per quanto non uguale a quella del Cristo, la cui unicità non ci compete?
Come ricostruire quel pulpito che l’ora barbara delle parole vuote ha travolto? Le ipotesi di lavoro, a questo proposito, non saranno senza una buona dose di ironia.
Desiderare che risuoni di nuovo una Parola che pretende di trasformare le esistenze e di configurare un differente legame tra le persone appare un obiettivo fantascientifico. Fatichiamo a operare cambiamenti anche minimi nelle nostre vite. Siamo tutti più propensi a cercare conferme a quanto siamo e facciamo, che non a mettere in conto cammini effettivi di conversione.
Perciò, la serietà della questione non andrà senza il sorriso ironico della consapevolezza dell’enormità del compito! E dopo il sorriso? Mi sembrano promettenti due piste di lavoro.
La prima consiste nell’offrire una parola che non fornisca una lettura del presente - individuale e sociale - già confezionata. Ovvero: ti faccio la diagnosi e ti propongo la Parola come prognosi risolutiva. Forse, i ministri e le ministre della Parola, oggi, possono contribuire a ridare autorevolezza alla Parola aiutando i fratelli e le sorelle di chiesa a leggere loro stessi come il campo e il seme, a impastare con le loro mani, mani di sapienza femminile, la pasta e il lievito necessario.
Ripensare la figura pastorale in modo tale che il prendersi cura non si traduca in premasticati per palati troppo giovani ma nell’insegnare a leggere personalmente, col genio di ciascuno e con quello comunitario, a discernere per questo nostro tempo il senso dell’evangelo. Il pulpito vuoto non sarà, allora, riempito dalla sola figura pastorale, ma si allargherà per ospitare la chiesa tutta, quella comunità per la quale il ministro della Parola è chiamato a spendersi, al fine di fornire gli strumenti e le sollecitazioni necessarie affinché tutte e tutti siano in grado di leggere.
La seconda pista di lavoro per provare a ridare autorevolezza alla Parola e alle parole è quella della solidarietà. Intendendo con essa la cura delle relazioni umane, lo sguardo e l’agire empatico. Se non ci si avvale della forza, cos’altro può differenziare la Parola dalle chiacchiere, se non l’attenzione che la pastora e il pastore rivolgono ai propri interlocutori? Il pulpito vuoto non potrà essere rimpiazzato da un altoparlante rivolto indistintamente a chi si trova a passare da quelle parti. Il pulpito dovrà far risuonare “nomi propri”, vedere visi, volgersi a volti. La Parola, costitutivamente plurale, dovrà risuonare diversamente, a seconda delle differenti casse di risonanza degli uditori.
E il ministero della Parola non potrà che spendersi lungo l’orizzonte di percorsi differenziati, tagliati sulla misura delle donne e degli uomini, con cui entra in relazione. L’esperienza marginale di una piccola comunità, di solito vissuta nel lamento per la perdita di consenso, diventa qui condizione di possibilità per la cura mirata a soggetti concreti.
Mi scuso per l’elementarietà delle considerazioni, per la mossa di rilanciare domande, lasciando aperte possibili risposte. Ma i nodi, se si vogliono sciogliere troppo in fretta, si stringono ancora di più. Conviene avere pazienza, lavorare su tempi lunghi, provando e riprovando, con modestia e senso del limite. Senza perdere fiducia in quella Parola che, agli umani sommersi da un mare di guai, a volte toglie le acque, altre volte insegna a camminarci sopra.