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Il filo del dialogo tra i due popoli

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intervista a Brunetto Salvarani a cura di Eletta Cucuzza
in “Adista” - documenti – n. 40 del 25 novembre 2017

Il sottotitolo, Israeliani e palestinesi insieme sulla stessa terra, giustifica pienamente il titolo: Il folle sogno di Neve Shalom Wahat al-Salam.
Il libro fresco di stampa (Edizioni Terra Santa), a cura di Brunetto Salvarani, presidente dell’Associazione italiana degli Amici di NSWAS nonché docente di teologia del dialogo alla Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna, raccoglie contributi originali di alcuni fra i maggiori specialisti italiani e stranieri di diverse discipline, dall’ebraistica al dialogo interreligioso, dalla spiritualità alla scienza della politica. Wahat al-Salam - Neve Shalom è un villaggio cooperativo di ebrei e arabi palestinesi (musulmani e cristiani), tutti cittadini di Israele. Il suo nome deriva da uno dei libri di Isaia (32,18): «Il mio popolo abiterà in un’Oasi di Pace» (Neve Shalom in ebraico, Wahat al-Salam in arabo). Il nome del villaggio è stato scelto, nel 1966, dal suo fondatore, il domenicano p. Bruno Hussar, ebreo di origine, cittadino di Israele, scomparso 20 anni fa. Dell’esperienza e dei sorprendenti frutti di questo villaggio-comunità, di come si inserisca nell’intricata e conflittuale situazione che si vive nella terra dei “due popoli”, della difficoltà che incontrano in Israele i cittadini che aspirano al “sogno”, la pacifica convivenza, abbiamo parlato con Brunetto Salvarani. Di seguito l’intervista che ci ha rilasciato.

Perché questo libro, e perché oggi?

Il volume è stato pensato in occasione di due ricorrenze concomitanti: i venticinque anni dalla nascita dell’Associazione italiana degli Amici di Neve Shalom Wahat al Salam (NSWAS), fortemente voluta da una delle figure chiave del dialogo ebraico-cristiano in Italia, Renzo Fabris, e i vent’anni dalla scomparsa di padre Bruno Hussar che ha ideato e poi realizzato il Villaggio della pace.
Al di là del dato occasionale, peraltro, questo libro ha l’ambizione di colmare un duplice vuoto nell’editoria italiana: da una parte, in relazione alla vicenda straordinaria di Hussar, davvero un signore dei sogni (ba’al chazon), fra l’altro personaggio centrale nella rinascita di una chiesa cattolica in lingua ebraica, la Kehillà (oggi Vicariato di San Giacomo) e tra gli esperti che contribuirono a redigere il quarto paragrafo della dichiarazione conciliare Nostra aetate; e dall’altra, riguardo al villaggio di NSWAS, su cui esiste una vasta pubblicistica ma non un testo completo recente cui poter fare riferimento (l’ultimo pubblicato in italiano è ormai fuori commercio e risale a venticinque anni or sono).
Per questo, nella consapevolezza della complessità dell’impresa, ho deciso di convocare alcuni fra i maggiori specialisti di diverse discipline (ebraistica, dialogo interreligioso, spiritualità, scienza della politica, pedagogia interculturale, e così via), italiani e stranieri, che hanno firmato contributi originali, spesso appassionati, aggiornati a oggi, che non posso che ringraziare di cuore. Ne emerge, direi, uno sguardo articolato e ricco di spunti utili fra l’altro per riflettere approfonditamente sulla situazione attuale e futura del conflitto israelopalestinese e del – complicato ma e necessario – trialogo fra ebrei, cristiani e musulmani.

In sintesi, cos’è Neve Shalom Wahat al-Salam?

Il suo nome è tratto da Isaia 32,18, è in ebraico e in arabo e significa, nelle due lingue, Oasi di pace. È un vero e proprio villaggio, appunto, situato a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv, in cui ebrei e palestinesi, tutti di cittadinanza israeliana, hanno scelto di vivere insieme in equità e giustizia, egualmente suddivisi dal punto di vista numerico. Gli abitanti di NSWAS intendono rappresentare la possibilità concreta di coesistenza e costruzione di una comunità fondata sulla reciproca legittimazione, il bilinguismo, il dialogo culturale e interreligioso, il rispetto e la cooperazione. Il Villaggio fu fondato nel 1970 – su un terreno del vicino monastero di Latrun – proprio da Hussar, ebreo divenuto cristiano, costruttore di ponti tra religioni, culture e tradizioni diverse, e da Anne Le Meignen. Oggi è abitato da circa settanta famiglie, e prossimamente crescerà fino a ospitarne centocinquanta: molte sono le famiglie in lista d’attesa. NSWAS esprime praticamente la sua visione di una società equa attraverso il suo pionieristico sistema educativo binazionale e bilingue, che comprende un asilo nido, una scuola materna e una scuola primaria. Ogni classe è divisa in ugual numero tra bambini ebrei e arabi. C’è poi la Scuola per la pace, nata nel 1979, che organizza programmi di formazione e laboratori di gestione del conflitto aperti a gruppi misti di ebrei e palestinesi. Ricordo, fra le diverse istituzioni presenti, almeno anche il Centro spirituale pluralistico di comunità, creato in memoria di Hussar, uno spazio per la riflessione personale e di gruppo, un luogo di studio e incontro. Esso organizza momenti di studio su temi trasversali alle differenti esperienze religiose, giornate di approfondimento sulle feste nazionali e religiose, riflessioni relative a varie tematiche che facilitino la discussione e la comprensione del conflitto. Cuore del Centro è Dumia- Sakinah (Casa del silenzio), cupola circolare priva di simboli religiosi, spazio di riflessione, meditazione e preghiera dedicato al linguaggio universale del silenzio e perciò aperto a tutte le fedi e sensibilità.

Qual è il rapporto fra NSWAS e le altre realtà del pacifismo israeliano?

NSWAS è certo un punto di riferimento per il Forum delle organizzazioni che in Israele si occupano di dialogo, giustizia, pace. I rapporti con tali realtà sono intense e danno spesso luogo a giornate di studio e/o a manifestazioni congiunte, come quella realizzata nel luglio del 2017 proprio sotto la collina dove si trova il villaggio, in occasione del cinquantesimo anniversario dell'occupazione. Alcuni residenti del villaggio sono poi attivi in altre realtà come Family Forum/Parents Circle, Zochrot, Combatants for peace, Archeologists for human rights... Purtroppo, però, la sensazione che ho è che i pacifisti, oggi, in Israele, fatichino assai più di ieri a farsi sentire. Cioè, a parole tutti vorrebbero la pace, ci mancherebbe, ma non c’è nessuna strategia politicamente rilevante sul tavolo che non preveda l’esercito. Qualsiasi azione, anche di semplice offesa, viene presentata con successo come difensiva e necessaria per la sicurezza nazionale. Le critiche a Margine Protettivo (su Gaza, 2014), ad esempio, che pure ci sono state a iosa, riguardano più l'opportunità e lo svolgimento dell’operazione in sé che la strategia politico-militare a lungo termine all’interno di cui essa s’inserisce.

Recentemente, lo scorso 4 novembre, sono state 85.000 le persone radunatesi in piazza Rabin a Tel Aviv per ricordare il ventiduesimo anniversario dall’assassinio del Primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Lei, da attento conoscitore delle cose israeliane, come valuta l’evento?

Occorre dire che, tradizionalmente, l’annuale manifestazione per ricordare Rabin è sempre stata molto politica, fortemente indirizzata contro l’occupazione e accusatoria nei confronti di chi 22 anni fa ha portato avanti l’incitement nei confronti di Rabin e ha indirettamente causato il suo omicidio. È una manifestazione quindi per sua natura polemica e divisiva, contro la destra ultrareligiosa ortodossa, in cui la sinistra si è sempre fatta portatrice dell’eredità di questa mitologica figura, facendosi forza attorno a essa e sopperendo a un anonimato politico con il suo ricordo. Quest’anno però le cose sono cambiate, il taglio è stato più neutrale, la parola assassinio è stata tolta dai manifesti, e non c’è stata nessuna critica all’occupazione negli interventi dal palco, da cui ha parlato anche il sindaco di una colonia. Meretz e HaAvodah erano sì presenti con propri stand, ma più di circostanza che per reale collaborazione all’evento.
La mia lettura è che – forse per la prima volta, essendo cambiati gli organizzatori – l’intento dell'evento sia stato quello di unire, di riappacificare e di neutralizzare tensioni latenti nella società israeliana che vivono in seno a essa dal ’95. Negli interventi, in genere nazional-popolari, si è sottolineata l’importanza di sentirsi parte di un unico Stato ebraico. Tale unificazione rischia però di essere il segno concreto di una scomparsa dell’opposizione alla linea Netanyahu, per nulla indebolito dall’attività della magistratura nei suoi confronti. A una soluzione del conflitto à la Rabin mi pare non creda più nessuno, sono ormai solo fantasie: Israele ha definitivamente completato il processo di disincanto, l’unica realtà è quella di un conflitto perenne in cui può variare solo l’intensità retorica e operativa, ma non la sua sostanza. Ripeto: i margini per un pacifismo di qualsiasi natura sono davvero pochi. L’accordo tra Hamas e Anp per il governo israeliano non è stata una notizia positiva, quindi è difficile vedere come possa portare a nuovi colloqui di pace che non siano solo di facciata. Non va dimenticata, poi, un’altra partita attuale e interessante, quella libanese. Le recentissime dimissioni di Hariri da Ryhad, unite all’ormai prossima resa dei conti siriana, potrebbero intensificare lo scontro Hezbollah/Iran - Sauditi/Sunniti, con Israele in ormai conclamato appoggio (per strategia geopolitica) di questi ultimi ai danni dei primi.

Come legge, dunque, il momento del conflitto israelopalestinese oggi, in un momento particolarmente bloccato come quello attuale?

Fatto salvo quanto già detto, forse l’ipotesi interpretativa su cui lavorare per riprendere il filo di un ragionamento razionale sul futuro di israeliani e palestinesi, potrebbe essere quello dello scenario a corto raggio, che provi a distinguere il destino dei due popoli dallo scenario macroregionale drammatico che abbiamo tutti sotto gli occhi da diversi anni. Il fondamento di questa ipotesi è nella storia degli ultimi quarant’anni e soprattutto nel fossato che, al di là della trita retorica panarabista, si è scavato tra il destino dei palestinesi e quello dei fratelli arabi. In oltre mezzo secolo di conflitto israeliani e palestinesi si sono conosciuti come pochi altri popoli: insieme hanno vissuto drammi e speranze speculari e proprio per questo perfettamente comprensibili sia agli uni che agli altri. Luoghi simbolici e profetici come NSWAS sono e sono stati un eccezionale laboratorio nel quale generazioni di studenti hanno imparato un vocabolario comune e hanno condiviso interpretazioni. se non univoche. quanto meno compatibili della storia dei loro popoli. Ma l’Oasi della pace non è un’isola ed è circondata da molte altre realtà che, con pochi mezzi, tanta tenacia e altrettanta fatica, come dicevo, tessono il filo del dialogo tra i due popoli. Penso alle donne che hanno aderito a Women Wage Peace, e che nell’autunno del 2016 ma anche in seguito hanno dato vita a una mobilitazione durata due settimane marciando insieme tra villaggi e città sia israeliane sia palestinesi: «Sono qua con donne che hanno scelto coraggiosamente di intraprendere una strada che non è ancora percorsa – ha dichiarato rivolta a un pubblico israeliano Huda Abuarqoub, una donna palestinese nata a Gerusalemme e cresciuta a Hebron, direttrice regionale dell’Alleanza per la pace in Medio Oriente –. Una strada di speranza, amore, luce, dignità, inclusione e riconoscimento reciproco. E sono anche qui per dirvi, sì, avete un partner, lo avete visto!».
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