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Lidia Maggi Dalla visita alla visitazione

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DALLA VISITA ALLA VISITAZIONE: LE DONNE PORTATRICI DI SENSO

di Lidia Maggi
dal sito francescomacri



Il visitare non comporta solo il gesto dell’uscire, del camminare e dell’entrare, di cui Maria è espressione. È necessario anche accogliere, come fa Elisabetta: scelta impegnativa e faticosa. Accogliere corpi che invadono lo spazio intimo della casa. E con essi, le storie di cui sono portatori.

Visitare è più leggero di abitare. Almeno in apparenza. Non ha la pretesa di legare per la vita, di imporre una presenza per un tempo prolungato. La visita ha un tempo prestabilito. Inizia e finisce. Per una cultura militante, che si nutre di scelte radicali, il visitare, rispetto all’abitare, al dimorare, può suonare come un passo indietro, il rimando a un’appartenenza parziale, post-moderna, ovvero incapace di totalità. Al di là del tono nostalgico di una siffatta obiezione, la critica ha una sua pertinenza. Conosciamo tutti la tentazione del non coinvolgimento, del credere «fino a un certo punto» che, come ha mostrato Kierkegaard, equivale al sottrarsi all’esperienza della fede. Eppure, i conti vanno fatti a partita doppia, denunciando le perdite ma, insieme, non tacendo i vantaggi. Di questo sguardo dialettico, anticorpo alla semplificazione, è maestra la narrazione biblica, non a caso plurale e portatrice di tensioni da mantenere, più che di idee a tinta unica. E così, proprio il portale d’ingresso al racconto di un Dio che si fa carne, che viene ad abitare la storia, mette in scena il gesto della visitazione. Se una lettura che contrappone l’Antico e il Nuovo Testamento rischia di opporre le visite che Dio ha compiuto lungo la storia della salvezza, da Abramo a Giovanni il Battista, al dimorare stabile nel Figlio, nel tempo del compimento, un’interpretazione più attenta a rendere ragione dell’agire multiforme di Dio, differente dal gesto prevedibile e immediatamente comprensibile dell’idolo, saprà cogliere il senso del visitare anche nella pienezza dei tempi, quando la Parola fatta carne «ha posto la sua tenda tra di noi»: tenda, appunto, rimando a quell’abitare nomade, a quel soggiornare temporaneo, al dimorare inquieto di un Dio che si avvicina ma non si lascia possedere, che visita sottraendosi. Detto diversamente: il gesto del visitare ha una portata teologica che ci impedisce di rubricarlo sotto la voce di atti di cortesia o di denigrarlo come scelta rinunciataria, per chi proprio non se la sente di fare il grande passo.

Posto fin da subito l’asse verticale (teologico) del visitare, ancora una parola per esprimere l’asse orizzontale (antropologico), prima di entrare nel testo. La leggerezza della visita è portatrice di quel rispetto che non vuole riempire lo spazio dell’altro. Una folgorante battuta di Lacan esprime bene la questione: «Se lei si mette nei panni dell’altro, l’altro dove si mette?».

In fondo, in entrambe le relazioni — quella con Dio e quella con gli esseri umani — la sfida del gesto del visitare è tutta inscritta nell’etimologia del verbo. Forma intensiva di vedere, la visita pone la questione di un volgersi che incontri altri volti, di un vedere che colga visi e non oggetti privi di alterità. Volti che sperimentano il movimento del volgersi gli uni verso gli altri, senza assorbirsi; visi che vedono e si lasciano vedere, senza mangiarsi con gli occhi!
Proprio di questo ci parla il racconto lucano della visitazione.

A) LA VISITAZIONE NEL RACCONTO DI LUCA

«39Ora in quei giorni Maria si levò e si recò in fretta nella regione montuosa, in una città di Giuda».

Inizia con un movimento, la nostra narrazione. Questo inizio inatteso, quasi illogico rispetto alla scena precedente dell’annunciazione, intima e domestica, si presenta come la chiave del racconto, tutto all’insegna del movimento. Ma non è solo il nostro brano a essere improntato a un ritmo movimentato. L’intera narrazione lucana si presenta come un grande viaggio: quello di Gesù, dalla

Galilea a Gerusalemme, viaggio che l’autore qualifica come «esodo» (Lc 9,31), quello dei discepoli, testimoni del Risorto «in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra» (At 1,8). Di quanti esodi necessita la fede evangelica? Quante strade devono percorrere «quelli della Via» (At 9,2)?

Maria di Nazaret anticipa il cammino di Gesù, muovendo i propri passi dalla Galilea verso una città di Giuda. Anche per lei si tratta di un cammino in salita, verso una regione montuosa che il resto del racconto mostrerà come luogo di rivelazione. I monti verso cui cammina Maria fanno già intravvedere il monte della trasfigurazione e il Golgota.

«40ed entrò in casa di Zaccaria e salutò Elisabetta».

Visitare implica alzarsi e uscire dal proprio territorio persino quando esso è luogo del divino, come la casa di Nazaret. A dispetto di ogni immaginario statico, il Dio biblico mette in movimento, fa uscire dalla propria terra verso un altrove da lui stesso indicato (Gen 12,1). Come nell’esodo di Israele, il cammino prevede un uscire, un camminare nel deserto e un entrare. Luca sorvola sulla tappa intermedia: la fretta messianica lo spinge a rimandare più avanti una riflessione sulla fatica del cammino, sull’attraversare i deserti dell’incomprensione e della solitudine e sulla decisione di rendere duro il proprio volto (Lc 9,51) e dirigersi verso una terra che non promette ospitalità. Ora gli preme mostrarci che l’uscire è in vista di un entrare. Come il messaggero celeste dell’annunciazione (Lc 1,29), così anche Maria entra in casa altrui. Il divino e l’umano hanno gli stessi movimenti.

La scena si presenta con le normali caratteristiche patriarcali: si entra «in casa di Zaccaria». Ma subito viene meno quello scenario classico. Protagoniste sono due donne. Maria incontra Elisabetta, la parente evocata dall’angelo, per dire che «nessuna parola di Dio rimarrà inefficace» (Lc 1,36s).

«41E avvenne che, appena Elisabetta udì il saluto di Maria, il bambino le sobbalzò nel grembo, ed Elisabetta fu ripiena di Spirito Santo».

Una duplice pienezza caratterizza Elisabetta: il suo grembo vuoto, sterile, ora è riempito della presenza di un bambino; e anche lo Spirito Santo, promesso a Maria (Lc 1,35), ora riempie Elisabetta. Ma, come apparirà evidente nella seconda parte della narrazione lucana (Atti), lo Spirito è strettamente legato a quella Parola che è la vera protagonista del racconto e a cui le lettrici e i lettori sono affidati (At 20,32). «Elisabetta udì»: la fede nasce dall’ascolto. È la Parola che visita Elisabetta e che lei accoglie come un ospite. Quando, più avanti, Luca inviterà a fare attenzione a come ascoltare (Lc 8,18), il lettore ha già appreso a Nazaret, prima, e in casa di Zaccaria, poi, i rudimenti dell’arte dell’ascolto di una Parola performativa, che suscita qualcosa negli uditori: suscita la domanda di Maria (1,29) e quella di Elisabetta (1,43); fa sobbalzare l’intera esistenza. La lingua udita è «di fuoco», come nel racconto della Pentecoste (At 2), suscitatrice di passioni, capace di scaldare i cuori e far sussultare le viscere. Una primizia di quella Pentecoste avviene nella regione montuosa, dove Elisabetta sente parlare nella sua lingua di prossima madre la Parola rivoltale da Maria.

«42ed esclamò a gran voce, dicendo: Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo grembo».

Una benedizione che suona come una beatitudine, ripresa subito dopo (Lc 1,45). Elisabetta riconosce che Dio sta agendo in Maria, come ha agito in lei. Entrambe hanno sperimentato il senso primo della benedizione, ovvero quella fecondità che vince la sterilità umana e riapre una storia senza seguito. Prima ancora di evocare la singolarità della vicenda di Maria, Elisabetta inscrive la parente nella nutrita schiera di donne sterili raggiunte dalla benedizione del Dio che fa fiorire il deserto. Tutti i figli sono un dono del Signore, come dice il Salmo (127,3): sono frecce lanciate verso il futuro della storia. Ma i figli di grembi sterili indicano le forzature di cui è capace Dio, a fronte delle strade chiuse dell’umanità. Niente è impossibile a Dio. Non è mai troppo tardi o troppo presto: egli è colui che riapre una storia chiusa quando ormai è troppo tardi, ma è anche capace di anticipare i tempi e creare novità da una storia ancora acerba.

«43E perché mi accade questo, che la madre del mio Signore venga a me?».

Benedizione discendente dell’agire di Dio. Benedizione ascendente della riconoscenza umana. E, subito dopo, la domanda. Come per la sapienza greca, lo stupore fa sorgere l’interrogazione. Non c’è opposizione tra il lodare e il domandare. E lo stesso movimento di ri-conoscenza: riconoscimento del dono e inizio di una nuova conoscenza, all’insegna della ricerca.

La Parola performativa, che fa sobbalzare i grembi, mette in agitazione anche le teste. Così che la fede («mio Signore») si declina in modo interrogativo. E la domanda sul perché non distoglie il cuore dalla singolarità del proprio vissuto, con la scusa di affrontare i massimi sistemi. «Perché mi accade questo […] a me?». Il partire da sé, posto a tema dal pensiero delle donne, trova nel racconto lucano una felice espressione.

«44Poiché, ecco, appena la voce del tuo saluto mi è giunta agli orecchi, il bambino è sobbalzato di gioia nel mio grembo».

Quanto il narratore ci ha precedentemente detto (v. 41), ora viene espresso da Elisabetta, che si fa ermeneuta di quanto avviene, interpretando i fatti in chiave messianica. Legge, infatti, il sobbalzare in grembo del bambino come espressione della gioia messianica. Orecchi e grembo indicano un’antropologia dell’ascolto della Parola e dell’interpretazione che ne sviscera il senso.

«45Ora, beata è colei che ha creduto, perché le cose a lei dette da parte del Signore avranno compimento».

La prima beatitudine del racconto è rivolta a Maria. Una beatitudine non in forza della sua condizione di madre del Signore, ma in quanto «ha creduto». E la fede è fede in una Parola creduta efficace, del cui compimento si è convinti, anche «sperando contro ogni speranza», come dice l’apostolo Paolo (Rm 4,18). Credere è riconoscere che Dio agisce nella storia, che porta a compimento le sue promesse. Di nuovo, il racconto apre alla riconoscenza, nel duplice senso del termine sopra ricordato, che trova nuova espressione nel Magnificat di Maria (Lc 1,46-55). Cantico di lode, ma anche di nuova conoscenza della storia, capovolta dall’agire inedito di Dio, di cui le due donne sono le prime testimoni.
Sguardo poetico, capace di sentire in grande (magnificare) una quotidianità visitata da Dio, la cui Parola colloca in un orizzonte più ampio, in grado di abbracciare le generazioni, di dare forma alle speranza, nel movimento della promessa e del compimento.
Alcuni manoscritti attribuiscono a Elisabetta il cantico. Una felice ambiguità testuale, che non è necessario sciogliere. Anche perché è Elisabetta a mettere in moto la riconoscenza, quale risposta umana alla Parola ascoltata e interpretata. Elisabetta riconosce l’agire divino in Maria e conferma quest’ultima nella vocazione ricevuta. Embrione di dinamica comunitaria, che Luca narrerà più distesamente nel libro degli Atti. Insieme allo stupore e al nuovo sguardo sulla realtà, il gesto del riconoscere dice anche la relazionalità di una fede, che non potrà mai essere autarchica, pena il tramutarsi nel suo contrario, espresso efficacemente da Lutero con l’immagine del cor curvum.
Il cantico di Maria è la risposta gioiosa alle parole di Elisabetta: testimonianza di una predicazione femminile all’interno di una Chiesa domestica, dove la parola che feconda e trasforma trova piena accoglienza.
Elisabetta, oggetto della visita di Maria, viene descritta da Luca come soggetto, protagonista della scena, capace di dare voce alla sapienza dello Spirito, di cui è ripiena, insieme alla sapienza del corpo, che riconosce sobbalzando l’agire divino.

Ma il visitare non comporta solo il gesto dell’uscire, del camminare e dell’entrare, di cui Maria è espressione. È necessario anche accogliere, come fa Elisabetta: scelta impegnativa e faticosa. Accogliere corpi che invadono lo spazio intimo della casa. E con essi, le storie di cui sono portatori. Aprire porte di case, senza neppure avere l’autorità di farlo (la casa di Zaccaria!); e aprire menti e cuori, orecchie e grembi per leggere e interpretare il vissuto e la parola di chi ci visita. Se la visita è — alla lettera! — incinta di Dio, l’accoglienza è la levatrice necessaria per mettere al mondo l’inedito di Dio.

CONCLUSIONE

La nostra scena si conclude così:

«56E Maria rimase con Elisabetta circa tre mesi, poi se ne tornò a casa sua. 57Ora giunse per Elisabetta il tempo di partorire, e diede alla luce un figlio.

58I suoi vicini e i parenti, udendo che il Signore le aveva usato grande misericordia, si rallegrarono con lei».

Veniamo a sapere che la visita di Maria a Elisabetta è durata circa tre mesi: non certo una visita di cortesia. Quanto Luca ci ha narrato in una manciata di versetti si è svolto nei tempi lunghi della vita e non negli attimi fuggenti delle emozioni travolgenti. Chi legge le Scritture, sa bene che nei racconti di vocazione viene concentrato in poche righe quanto ha avuto luogo in una vita intera. Tempo prolungato, ma non infinito. Maria torna a casa sua (non di Giuseppe!), senza, probabilmente, assistere alla nascita di Giovanni. Il tempo del visitare è diverso dal tempo del partorire. La sapienza della visita non occupa l’intero spazio, non presume di esserci, come presenza indispensabile. La dinamica della presunzione, magistralmente presa di mira da Luca nel suo racconto, viene fin da subito rintuzzata dall’agire discreto di due donne che, prima ancora dei vicini e dei parenti accorsi per la nascita di Giovanni, sanno scorgere l’agire misericordioso di Dio nelle vicende umane e non pretendono di tenerlo in pugno; al contrario, si lasciano mettere in movimento dalla sua Parola, ascoltata insieme e accolta con riconoscenza.

Di questo, almeno, ci parla il gesto della visita e dell’accoglienza. Della sapienza dell’incontro, capace di non perdere l’alterità, senza per questo cadere nell’incomunicabilità e nell’isolamento. Luca, che all’inizio del suo racconto ha messo in scena al femminile questa sapienza del visitare, ne plasmerà l’intera sua narrazione, ricorrendo alla syncrisis, ovvero all’arte di accostare e mettere in parallelo figure differenti — da Maria ed Elisabetta ai due malfattori crocifissi con Gesù. Un meccanismo del tutto analogo alla visita: dove l’incontro e il confronto di due personaggi apre il senso della storia narrata e le vite messe in parallelo evidenziano punti di contatto, senza cadere in quell’immedesimazione che toglie l’alterità, senza quella sovrapposizione che crea fusione e non visitazione. Gli esseri umani e anche Dio sono fatti per visitarsi e accogliersi, guidati da una sapienza relazionale, oggi più che mai necessaria, che insegna a riconoscere Dio, al di là dell’idolo, e i volti delle donne e degli uomini, oltre la strumentalità.

in “parola spirito e vita” n. 73- semestrale del luglio-dicembre 2015
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