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Donatella Scaiola Una legge di misericordia

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Il giubileo straordinario che stiamo vivendo, dedicato alla misericordia, non fa che aggiungere attualità a un tema di fondamentale importanza nel testo biblico e nella fede cristiana (cfr Costa G., «Giubileo della misericordia: alle radici della solidarietà», in Aggiornamenti Sociali , 4 [2015] 277-283, e Teani M., «Giubileo», in Aggiornamenti Sociali, 11 [2015] 792-796).
A riguardo, non è purtroppo infrequente imbattersi in semplificazioni superficiali, che oppongono la misericordia alla giustizia, identificando con la prima il Nuovo Testamento e con la seconda l’Antico, spesso presentato da questo punto di vista come obsoleto. Si tratta di una impostazione estremamente problematica in quanto non corrispondente al dato biblico, che invece articola con ricchezza e profondità il rapporto tra giustizia e misericordia. Nelle pagine qui a disposizione non è possibile affrontare in modo esaustivo una tematica di tale spessore; ci limiteremo perciò a offrire un esempio di questa articolazione, a partire da una norma veterotestamentaria che a molti può apparire un retaggio di tipo culturale sostanzialmente obsoleto, ma che a un più attento esame si rivela invece assai significativa per la comprensione del rapporto tra giustizia e misericordia e quindi di insospettata attualità.

Il testo e il suo contesto

Per tre volte nel Pentateuco incontriamo questa prescrizione: Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre (Esodo 23,19b; 34,26b; Deuteronomio 14,21b; la versione italiana della CEI introduce lievi variazioni nella traduzione dell’identico testo originale ebraico). A partire da questa norma, in epoca post-biblica, fu elaborata una serie di prescrizioni che proibiscono agli ebrei di cuocere o consumare insieme carne e latticini.

Ma qual è il senso del testo biblico e come spiegare la sua triplice menzione? In un’epoca in cui non era possibile dare enfasi a un elemento del testo attraverso strumenti tipografici (neretti, sottolineature, uso di caratteri diversi) riteniamo che la ripetizione sia l’equivalente dell’odierno uso dell’evidenziatore: ciò che è ripetuto è messo in risalto. Vale dunque la pena prestarvi particolare attenzione e indagare il contesto in cui appare, alla ricerca delle ragioni della sua importanza.

Nelle due occorrenze del libro dell’ Esodo il comando che stiamo esaminando appare come una sorta di appendice a un elenco di prescrizioni relative al modo di osservare le feste (Esodo 23,14-19; 34,23-26). Si tratta di due passi strettamente legati: Esodo 34 è spesso considerato un testo composito che rielabora materiale precedente, tra cui Esodo 23 (Bar-On S., «The Festival Calendars in Exodus XXIII 14-19 and XXXIV 18-26», in Vetus Testamentum, 2 [1998] 161-193). Il cuore della questione è il monito contro ogni forma di coinvolgimento con gli abitanti della terra (Esodo 34,11-16; cfr anche 23,23-24), che conduca Israele ad assumerne le usanze e i culti, rinnegando così l’alleanza con il Signore. Il calendario delle feste, allora come in fondo anche oggi, è un elemento identitario e le norme sulla loro celebrazione rappresentano un baluardo della differenza di Israele contro l’assimilazione. È significativo che, in questo contesto, entrambi i passi menzionino esplicitamente la Pasqua, la festa che più di ogni altra definisce l’identità ebraica, enfatizzando la differenza che intercorre tra Israele e i popoli in mezzo a cui vive. Anche il divieto di cui ci stiamo occupando risponde alla stessa logica: «Studi documentari e archeologici hanno infatti consentito di scoprire come cibarsi di carni di agnelli o vitelli cotte nel latte delle loro madri facesse parte dei rituali dei culti della fertilità nelle aree mesopotamiche di Ras Shamra e Ugarit, da cui evidentemente la Bibbia intende prendere le distanze» (Bittasi S., «Cibi vietati», in Aggiornamenti Sociali, 11 [2013] 782-785, qui 784).

In Deuteronomio 14, invece, la prescrizione relativa al capretto segue immediatamente la lista di animali che possono e non possono essere mangiati (che appare anche in Levitico 11). Anche in questo caso, dunque, ci troviamo nel contesto dell’affermazione della differenza israelitica, espressa attraverso il ricorso alle categorie di puro e impuro, a loro volta connesse al concetto di sacro inteso come separazione.

La legge di cui parliamo, dunque, non è un’appendice secondaria, ma rappresenta in qualche misura il punto di arrivo del discorso precedentemente fatto. In maniera gnomica, proverbiale, essa esprime un valore, indica un modo di essere costitutivo del popolo, rappresentativo della sua identità altra rispetto alle nazioni, radicata nell’esperienza della liberazione dall’Egitto e nel suo significato teologico in termini di elezione e alleanza (cfr Sasson J., «Ritual Wisdom? On ‘Seething a Kid in its Mother’s Milk’», in Hübner U. – Knauf E.A. [edd.], Kein Land für sich allein. Studien zum Kulturkontakt in Kanaan, Israel/Palästina und Ebirnâri für Manfred Weippert zum 65. Geburtstag, Universitätsverlag Freiburg Schweiz – Vandenhoeck & Ruprecht, Freiburg – Göttingen 2002, 294-308).

In questo contesto acquista significato anche un altro riferimento presente in tutti e tre i brani biblici, anche se in maniera leggermente differente, quello alla legge delle primizie: Il meglio delle primizie del tuo suolo lo porterai alla casa del Signore, tuo Dio. Nei due passi di Esodo essa è immediatamente precedente alla normativa relativa al capretto (Esodo 23,19a; 34,26a), mentre in Deuteronomio, il quale parla di decima, è collocata dopo ed è molto ampliata (14,22-28). Le primizie offerte a Dio sono i primi frutti che la terra produce, i doni lungamente attesi quando probabilmente non è rimasto più nulla da mangiare, in un tempo in cui l’esito del successivo raccolto è ancora incerto, e vengono offerte a Dio come celebrazione dell’alleanza, che implica il dono incondizionato della propria esistenza al Signore.

Un altro brano del Deuteronomio (26,1-11) ci consente di comprenderne più profondamente il significato. L’atto liturgico dell’offerta delle primizie è l’occasione di fare memoria della identità di chi lo compie e di tutto il popolo attraverso il racconto dell’esperienza originaria della liberazione dall’Egitto: non a caso Deuteronomio 26,5-8 è il testo utilizzato nella liturgia della Pasqua ebraica. Dal riconoscimento della propria origine e identità di immigrato ridotto in schiavitù e liberato dal Signore, si passa all’offerta delle primizie, che poi vengono condivise con chi nella comunità vive una situazione di maggiore precarietà e dipendenza, concretamente il levita e il forestiero. Dunque anche la legge sulle primizie riveste un grande valore simbolico e di nuovo rimanda all’identità del popolo, comunità liberata dall’amore del Signore e divenuta a sua volta strumento di misericordia, cioè di liberazione per chi ancora sperimenta oppressione e dipendenza.

Il significato della legge

In tutte le occorrenze, il comando Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre appare dunque in un contesto di profonda valenza simbolica e teologica: su questo punto intendiamo soffermarci senza entrare nel merito delle diverse spiegazioni che ne sono state proposte. Seguendo l’interpretazione già formulata da molti autori antichi e moderni (Filone, Clemente Alessandrino, Agostino, Tommaso, Lutero, Calvino; tra gli ebrei, ad esempio, R. Samuel ben Meir [comunemente noto come Rashbam], Bekhor Shor, A. Ibn Ezra, Abrabanel, A. J. Heschel), ci sembra che questa legge esprima un’attenzione per la cura della vita ricevuta come dono da Dio anche nella concretezza dei mezzi per il suo sostentamento. Per questo il nutrimento di un animale (il latte della madre) non può essere utilizzato nel processo in cui trova la morte. È il riferimento a Dio che fonda al tempo stesso la differenza di Israele e l’atteggiamento di rispetto, cura e tenerezza verso tutto ciò che è suo dono.

Per questo, il comando Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre è stato avvicinato ad altre prescrizioni simili, tra cui Quando, cammin facendo, troverai sopra un albero o per terra un nido d’uccelli con uccelli o uova e la madre che sta covando gli uccellini o le uova, non prenderai la madre che è con i figli. Lascia andar via la madre e prendi per te i figli, perché tu sia felice e goda lunga vita (Deuteronomio 22,6-7). Anche questa sarebbe espressione del medesimo principio di rispetto della trasmissione della vita e quindi concretamente della relazione tra la madre e la sua discendenza, che si traduce nella prescrizione di un comportamento ispirato alla compassione e alla mitezza (cfr Haran M., «Seething a Kid in Its Mother’s Milk», in Journal of Jewish Studies, 1 [1979] 23-35, e Id., «Das Böcklein in der Milch seiner Mutter und das säugende Muttertier», in Theologische Zeitschrift, 41 [1985] 153-157). Inoltre, quest’ultima prescrizione potrebbe contenere un monito a guardarsi dall’avidità che consisterebbe nel voler approfittare dei beni con ingordigia. Accontentarsi di prendere le uova, risparmiando l’uccello madre esprimerebbe il limite cui l’uomo acconsente, concedendo in tal modo spazio alla nascita di altre vite e salvaguardando il proprio ruolo di custode del creato e non di suo dispotico padrone. In fin dei conti, ogni atto di crudeltà è sintomo di una mentalità padronale che recide i legami che uniscono tutte le creature.

La legge, anche nelle sue prescrizioni più minute e a prima vista di difficile comprensione, ha sempre di mira la custodia dell’identità profonda dell’essere umano nella rete delle relazioni che lo uniscono a Dio e alle altre creature. È proprio nella consapevolezza del dono ricevuto e nel legame con il donatore che trovano radice gli atteggiamenti di compassione, tenerezza e misericordia che il comando Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre prescrive. Siamo soliti definire “giusto” ciò che è conforme alla legge, ma nella Bibbia “giusto” è definito innanzitutto colui che sa mantenere il proprio posto nella trama delle relazioni – con Dio, con il prossimo e con il creato – in cui è inserito. Per questo la legge che abbiamo studiato non solo non oppone giustizia e misericordia, ma ne opera una efficace sintesi.

È questa un’esigenza che non riguarda solo l’antico Israele, ma l’umanità di ogni tempo, anche nel concreto dei rapporti con la natura e l’ambiente. L’esame di una legge a prima vista obsoleta, ma, in realtà, di profondo valore teologico, ci invita a individuare in quali contesti della nostra esistenza personale e comunitaria si può applicare il principio della cura della vita che sta al cuore della prescrizione e ci aiuta a individuare quali atteggiamenti devono essere modificati.

Se la prescrizione di non cuocere un capretto nel latte di sua madre è legata alla presa di distanza dai culti della fertilità dell’antico Oriente, va ricordato che, in un universo permeato da una religiosità magica, il loro scopo era cercare di controllare a proprio vantaggio quelle forze della natura da cui dipendono anche la sopravvivenza e il benessere degli esseri umani. Nel nostro mondo secolarizzato questa intenzionalità, che la Bibbia da sempre condanna come idolatrica, si esprime in altro modo, attraverso una manipolazione della natura e dell’ambiente che li priva di ogni valore e li abbandona all’arbitrio dell’essere umano: è la logica del paradigma tecnocratico contro cui oggi papa Francesco ci mette in guardia nella Laudato si’. La misericordia di cui celebriamo il giubileo investe anche l’atteggiamento verso tutte le creature insieme alle quali «formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge ad un rispetto sacro, amorevole e umile» (LS, n. 89).


14Tre volte all’anno farai festa in mio onore: 15Osserverai la festa degli azzimi: mangerai azzimi durante sette giorni, come ti ho ordinato, nella ricorrenza del mese di Abib, perché in esso sei uscito dall’Egitto. Non si dovrà comparire davanti a me a mani vuote. 16Osserverai la festa della mietitura, delle primizie dei tuoi lavori, di ciò che semini nel campo; la festa del raccolto, al termine dell’anno, quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi. 17Tre volte all’anno ogni tuo maschio comparirà alla presenza del Signore Dio. 18Non offrirai con pane lievitato il sangue del sacrificio in mio onore e il grasso della vittima per la mia festa non starà fino al mattino. 19Il meglio delle primizie del tuo suolo lo porterai alla casa del Signore, tuo Dio. Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre.


23Tre volte all’anno ogni tuo maschio compaia alla presenza del Signore Dio, Dio d’Israele. 24Perché io scaccerò le nazioni davanti a te e allargherò i tuoi confini; così quando tu, tre volte all’anno, salirai per comparire alla presenza del Signore tuo Dio, nessuno potrà desiderare di invadere il tuo paese. 25Non sacrificherai con pane lievitato il sangue della mia vittima sacrificale; la vittima sacrificale della festa di pasqua non dovrà rimanere fino alla mattina. 26Porterai alla casa del Signore, tuo Dio, la primizia dei primi prodotti della tua terra. Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre.
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