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Mercoledì delle Ceneri (Enzo Bianchi)

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Bose, 22 febbraio 2012
Mercoledì delle Ceneri
Omelia di ENZO BIANCHI  Matteo 6,1-6.16-18      


Abbiamo ascoltato il vangelo di questo giorno, inizio del nostro cammino quaresimale. Nel «discorso della montagna» Gesù chiede che il comportamento, le azioni del cristiano non cerchino nessuna ricompensa presso gli uomini, ma la attendano soltanto da Dio. Dio è un Padre che vede nel segreto, che legge i nostri cuori, è colui al quale nulla di noi e delle nostre profondità è nascosto. Testimoni dell’operare del cristiano sono dunque Dio e gli altri.

Ma da chi noi vogliamo la ricompensa? Questa è la vera domanda a cui ci obbliga il vangelo di oggi. Che noi facciamo condivisione dei nostri beni, cioè che ci impegniamo in atti di carità e di amore; che noi viviamo nella giustizia e obbedendo alla volontà di Dio; che noi digiuniamo e ci dedichiamo anche a una disciplina vissuta con sacrificio e a caro prezzo, da chi vogliamo essere visti e ricompensati? Da chi vogliamo essere riconosciuti? Questa è una domanda decisiva, forse non nella vita degli uomini, per i quali non si pone, non fosse altro perché nella nostra società si respira la legge del contratto («Io ti do e dunque tu mi darai»). Ma a livello cristiano le cose non stanno così. Possiamo tradurre le parole di Gesù in questo modo: che senso ha, che bontà contiene l’atto di fare del bene a un altro per ottenerne il contraccambio? Che senso ha fare delle azioni molto buone per l’altro, se con quelle azioni vogliamo sedurlo, farcelo amico, averlo dalla nostra parte? Che senso ha che un cristiano preghi o digiuni, se poi misura queste azioni sul risultato che potrebbero avere presso gli altri e non in se stesse, davanti a Dio?
Una cartina di tornasole che ci aiuta a discernere se il nostro atteggiamento è evangelico o mondano è il nostro rapporto con la correzione fraterna. Nel suo messaggio per la Quaresima di quest’anno Benedetto XVI richiama alla correzione fraterna, chiede che in questa Quaresima la chiesa si eserciti nella correzione fraterna come necessità all’interno della comunità cristiana per un vero, autentico ed evangelico rapporto gli uni con gli altri. Il papa commenta un versetto della Lettera agli Ebrei: «Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (Eb 10,24). Ecco l’impegno quaresimale, che anche noi accogliamo quest’anno: si tratta di pensare, di meditare, di esercitarci alla correzione fraterna in questo «tempo favorevole» (2Cor 6,2) alla conversione.
Questo in primo luogo perché c’è una responsabilità verso il fratello che richiede di fare attenzione a lui: il verbo usato è katanoeîn, che significa guardare con consapevolezza l’altro e gli altri, non per spiarli ma perché si sente nei loro confronti la responsabilità. Non c’è fraternità senza responsabilità, e siccome oggi siamo carenti di responsabilità, di conseguenza siamo carenti di vera fraternità: scambiamo la fraternità con le emozioni, con il sedurci a vicenda, con atteggiamenti in cui vogliamo l’altro dalla nostra parte, sulle nostre posizioni. Guardare l’altro è un’operazione decisiva nella vita comunitaria cristiana, e non a caso il verbo katanoeîn ricorre più volte nelle esortazioni apostoliche; è addirittura applicato al guardare con attenzione e consapevolezza Gesù Cristo (cf. Eb 3,1). È un atteggiamento che deve essere assolutamente inciso nella nostra postura cristiana. Certo, si può guardare l’altro con occhio malvagio, avverte Gesù (cf. Mt 6,23; 20,15); ci sono persone che quando guardano un altro mettono – per così dire – gli occhiali da sole, per vedere in lui tutto oscuro o per non vedere affatto; ci sono poi quelli che guardano l’altro già da lui sedotti…
Guardare l’altro nel modo in cui ci esorta a farlo l’autore della Lettera agli Ebrei deve condurre all’operazione conseguente: elénchein (cf. Mt 18,15; Ef 5,11), correggere, ammonire. La correzione deve avvenire come frutto della responsabilità che ognuno di noi ha dell’altro, perché l’edificazione di un corpo, di una comunità può avvenire solo se c’è la responsabilità l’uno verso l’altro; perché l’edificazione di qualsiasi costruzione, che sia la società, che sia una comunità, che sia la chiesa, è possibile se c’è una correzione degli errori che sono ineliminabili nella vita umana. La correzione è un vero servizio di amore. Quando però parliamo di correzione dobbiamo stare attenti, perché è un’operazione che richiede molta intelligenza, che esige un ricorso alla ragione, non ai sentimenti o alle emozioni.
Innanzitutto ciò che dice la qualità di una correzione è la sua intenzione: perché noi correggiamo l’altro? Lo correggiamo perché lo amiamo oppure per umiliarlo, per deprimerlo, o semplicemente perché ci abitano degli antichi risentimenti che prima o poi nella vita fraterna dobbiamo scaricare contro il malcapitato di turno, magari incolpevole? Molto, molto prima di correggere dobbiamo stare attenti alla causa che ci spinge a farlo: perché vogliamo correggere l’altro? Senza una risposta evangelica a questa domanda è meglio tacere.
Dal perché si corregge si deve poi passare al contenuto di quello che si dice correggendo l’altro. Correggere l’altro, infatti, non significa dire tutto quello che si vuole. A volte nelle nostre vite sembra che esista solo una polarizzazione tra due estremi: da una parte il mutismo, dall’altra il parlare senza limiti. No, c’è il parlare sapendo ciò che si dice, che non deve rispondere semplicemente all’ultima nostra emozione o alla reazione suscitata dall’aver udito qualcosa che non concorda con il nostro pensiero. Le cose che si dicono hanno un peso, le parole nel loro contenuto possono essere offensive, possono essere vere e proprie armi: ma noi non possiamo correggere un altro offendendolo ancora di più, anche se è il meccanismo forse più naturale. Non si può dire tutto, non è vero che c’è la libertà di dire tutto: bisogna dire ciò che è conforme a una correzione e a un’edificazione dell’altro, non ciò che lo mortifica ancora di più!
Questo è il secondo livello della correzione. Infine, e solo in ultimo luogo, conta anche il modo in cui si fa una correzione. Questo è di ordine molto inferiore, perché dipende molto dal carattere delle singole persone: ci sono persone che hanno un contenuto cattivo della correzione piangendo, altre che hanno un contenuto buono urlando… Non che il modo non debba essere conforme alla correzione, ma è l’ultima cosa: prima vengono il suo perché e il suo contenuto. Altrimenti noi non facciamo un lavoro di correzione e dunque di costruzione di un corpo, bensì un lavoro di disgregazione.
Lo scopo della correzione – conclude Benedetto XVI – è camminare insieme nella carità, è apprestare tutto per diventare il corpo di Cristo. Se sappiamo correggerci a vicenda, sapremo anche fare le cose attendendo la ricompensa da Dio. Se invece attendiamo una ricompensa oggi dagli altri, non faremo correzione: faremo sempre, in ogni caso, mormorazione, il più grande peccato secondo l’Esodo e secondo tutti i processi con cui si forma e cresce una comunità. Così ci avverte il cammino quaresimale di Israele nel deserto.
  ENZO BIANCHI

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