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Il realismo di nascere nella storia (Gianfranco Ravasi - IlSole24Ore)

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Una decina d'anni dopo la pubblicazione, avvenuta nel 1982, lo scrittore lombardo Giovanni Testori – a seguito di un incontro pubblico milanese, dedicato a un libro su Maria Maddalena a cui entrambi avevamo collaborato – mi inviò una sua opera poco nota intitolata La maestà della vita. Di lì a poco egli sarebbe morto (nel 1993). Ora, sfogliando di nuovo quelle pagine, m'imbatto in questo paragrafo: «Il Natale è la nascita assoluta che riflette e assume, illumina e redime, benedice e consacra tutte le nascite di prima e tutte le nascite di poi.
Ogni uomo che venga alla luce ripete il miracolo del Natale di Cristo; perché è Dio che decide quella nascita; è Lui che vuole quella vita. È proprio ciascuna di quelle nascite, ciascuna di quelle vite, nessuna esclusa, che l'ha spinto da sempre a incarnarsi». Sono parole che invitano spontaneamente a riflettere proprio su quel verbo finale così tipico del cristianesimo, l'«incarnarsi» di Dio. Non per nulla si ripete spesso che l'«incarnazione» è nel cuore stesso dell'annuncio cristiano, ne è – assieme alla risurrezione – quasi il vessillo tematico.


La definizione immediata, spoglia di tecnicismi teologici, potrebbe essere così formulata sulla scia delle righe di Testori: il Figlio di Dio è nato, ha voluto avere un inizio nel tempo lui che era e che rimane eterno, proprio per condividere realmente con noi la storia, la "carne". Come tutti noi, ha anche avuto una fine nel tempo, una morte. Con questo ingresso nella sequenza temporale ha deposto in tutte le nascite e in tutte le morti un seme divino, trascendente il tempo stesso. Come scrive Testori, il Natale del Figlio di Dio, «riflette e assume, illumina e redime, benedice e consacra tutte le nascite», tutte le vite.

L'«incarnazione» è incisa nella memoria di tutti, anche di chi è agnostico, con una frase lapidaria del celebre prologo del Vangelo di Giovanni, un testo che è stato definito «una parabola teandrica», proprio per l'intreccio inestricabile che propone tra divinità e umanità. Da un lato, infatti, c'è il Logos che è «in principio» – come si dice del Creatore nell'incipit stesso della Bibbia (Genesi 1,1: «In principio Dio creò il cielo e la terra...») –, egli è «presso Dio» ed è Dio. D'altro lato, però, questo Logos divino, perfetto, creatore, assoluto – che è Wort, Parola, Kraft, Potenza, Sinn, Significato, Tat, Atto, per usare la famosa resa semantica offerta da Goethe nel suo Faust – si insedia nell'orizzonte contingente e mutevole del tempo e dello spazio: «Il Logos divenne carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14).

Il Verbo eterno e divino assume la sarx, ossia la caducità temporale, divenendo ospite nomadico del nostro spazio: come è noto, il testo originario giovanneo usa, infatti, il verbo greco eskénosen che è il termine dell'«attendarsi», dell'accamparsi tra gli uomini che migrano di luogo in luogo. Naturalmente, l'allusività di Giovanni non ignora il valore simbolico della "tenda" che era il santuario mobile dell'Israele pellegrino nel Sinai, «tenda dell'incontro» tra Dio e Israele, ma al tempo stesso tenda della "presenza" divina: in ebraico "presenza" è shekinah, vocabolo curiosamente fondato sulle stesse tre consonanti (s-k-n-) dell'«attendarsi» greco (skenoun).

Resta, comunque, grandioso il paradosso. Non è più di scena un telo o un edificio simbolico: questa nuova residenza divina è "carnale". Tenendo conto che la sarx, "carne", è la resa ideale dell'ebraico basar, l'ambito in cui Dio si insedia e di cui diventa pienamente partecipe è la condizione umana, terrestre, carica di caducità e finitudine. Essa è assunta senza riserve, ha nella nascita il suo emblema, ma presuppone anche l'intero arco dell'esistere, fatto di un impasto di riso e lacrime, speranza e delusione, salute e malattia, sentimenti e umori, atti e parole, affetti e tradimenti, esperienze e silenzi.
In questa luce è suggestiva la ripresa del tema che Jorge Luis Borges ha proposto nella sua poesia emblematicamente intitolata Giovanni 1,14, presente nella raccolta Elogio dell'ombra (1969): «Io che sono l'È, il Fu e il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo... / Vissi stregato, prigioniero di un corpo / e di un'umile anima... / Appresi la veglia, il sonno, i sogni, / l'ignoranza, la carne, / i tardi labirinti della mente, / l'amicizia degli uomini / e la misteriosa dedizione dei cani. / Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce».

A lungo si potrebbe riflettere attorno a questo nodo d'oro nel quale «anche il soprannaturale è carnale», come affermava Charles Péguy nel suo poema Eva (1913). Là il Figlio di Dio diventa «frutto di un ventre carnale», assumendo e riassumendo in sé tutta l'umanità fatta di carne e di sangue. Si potrebbe, inoltre, individuare il tessuto delle allusioni e dei rimandi evocati da Giovanni nel suo testo: egli attinge alle categorie "Parola" e "Sapienza", care all'Antico Testamento, senza però escludere del tutto ammiccamenti al Logos greco, che si era infiltrato nello stesso giudaismo di Filone d'Alessandria d'Egitto, celebre pensatore giudeo-ellenistico del I secolo.
Così, sarebbe pure possibile ritrovare una sottile ma efficace punta polemica contro l'affacciarsi, nella cristianità delle origini, di tentazioni gnostiche o docetiche. Esse – come ben si evince dagli stessi termini di matrice greca che evocano la "gnosi", la conoscenza alta e pura, e l'"apparenza", il dokéin – rifiutavano la "pesantezza" della "incarnazione", di quel «diventare carne». Al massimo l'accettavano come metafora dell'epifania del Logos nel suo mostrarsi esteriore, del suo "apparire", oppure come espressione mitica dell'agire atemporale di Dio, mero rivestimento simbolico dell'Essere trascendente.

L'evangelista Giovanni non cesserà di contrastare questa visione che estenua la presenza storica di Dio e che rende esangue il volto di Cristo, e lo farà soprattutto nelle sue Lettere, ribadendo che è possibile un'esperienza uditiva, visiva e tattile del «Verbo della vita» (1 Giovanni 1, 1-3), per cui la discriminante dell'autentica teologia cristiana è netta: «Ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio e ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Anzi, questo è lo spirito dell'Anticristo» (4,2-3). «Sono, infatti, apparsi nel mondo molti seduttori che non riconoscono Gesù venuto nella carne» (2 Giovanni 7).
Il realismo dell'"incarnazione" diventa, quindi, una sorta di carta di tornasole dell'autenticità della stessa professione di fede cristiana, anche se il termine greco specifico sárkosis, "incarnazione", non appare direttamente nel Nuovo Testamento e sarà adottato per la prima volta nel II secolo dal Padre della Chiesa Ireneo nella sua opera Contro le eresie (3, 18,3; 19, 1-2) e diverrà comune a partire solo dal IV secolo, quando si accentueranno le discussioni e le diatribe cristologiche. Noi ora vorremmo accennare brevemente solo a due questioni contestuali, simili a cerchi che si aprono attorno a questo tema teologico giovanneo.

Il primo cerchio che isoliamo è il più ristretto, ed è quello che rimanda al resto del Nuovo Testamento, antecedente al quarto Vangelo a livello cronologico. Certo, non vi possiamo identificare l'esplicitazione che Giovanni fa del tema, ma i prodromi sono del tutto evidenti. Per quanto riguarda gli altri Vangeli, cioè i Sinottici, la loro stessa impostazione narrativa, che parte dalla genealogia e dal racconto della nascita di Gesù (Matteo e Luca) e si sviluppa secondo una trama storica di eventi per approdare a una morte, è l'attestazione più limpida del legame intimo di Cristo con la "carne" fatta appunto di avvenimenti, tempo, spazio, esistenza. Egli è per eccellenza l'Emmanuele, Dio-con-noi, che procede spalla a spalla con l'umanità, rimanendo «con noi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (si vedano Matteo 1,23 e 28,20). Interessante, a livello più teorico, risulta – sempre in questo cerchio – il pensiero di san Paolo.

Non possiamo, ovviamente, approfondire i percorsi tematici che al riguardo egli ci offre e che sono sempre uno specchio della complessità e della ricchezza del suo pensiero. È, comunque, facile reperire nel suo corpus epistolare alcune dichiarazioni indirette: «Dio ha mandato il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato» (Romani 8,3); «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Galati 4,4); «uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Gesù Cristo...; egli fu manifestato nella carne umana» (1 Timoteo 2,5; 3,16); «in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Colossesi 2,9); «il Figlio di Dio è nato dal seme di Davide secondo la carne... e dagli Israeliti proviene Cristo secondo la carne» (Romani 1,3; 9,5). Questa sequenza testuale parla da sola. Riserviamo, però, un cenno specifico all'inno – forse prepaolino – che l'Apostolo incastona nella sua Lettera agli amati cristiani della città greca di Filippi.

In quel testo, l'elemento capitale per il nostro discorso è in un contrasto tratteggiato dall'Apostolo. Da un lato, c'è la discesa umiliante del Figlio di Dio quando s'incarna: egli precipita fino allo "svuotamento" (in greco kénosis) di tutta la sua gloria divina nella morte di croce, il supplizio dello schiavo, cioè l'ultimo degli uomini per poter essere, in tal modo, vicino e fratello dell'intera umanità. D'altro lato, ecco l'ascesa trionfale che si compie nella Pasqua quando Cristo si ripresenta nello sfolgorare della sua divinità, nell'"esaltazione" gloriosa celebrata da tutto il cosmo e da tutta la storia ormai redenti.
Questa visione grandiosa presenta innicamente sia l'umanità sia la divinità di Cristo, ed «enfatizza con solenne immediatezza – come scrive il teologo Giuseppe Mazza della Pontificia Università Gregoriana – lo scandaloso movimento dello svuotamento che si fa spoliazione, abbassamento e autoumiliazione» così che il Figlio di Dio possa «partecipare della natura umana, dissimile da quella divina». Citiamo, comunque, le parole della descrizione paolina del movimento "discensionale" dell'Incarnazione: «Cristo, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Filippesi 2,6-8).

C'è, tuttavia, un eventuale secondo cerchio contestuale più ampio e fluido che sarebbe quello anticotestamentario, legato a categorie rilevanti come le citate Parola e Sapienza di Dio, le quali sono realtà trascendenti che entrano e operano nelle coordinate della storia e del cosmo. Noi, però, vorremmo anche accennare al cerchio ancor più largo e dai contorni vaghi, quello delle culture religiose dell'antico Vicino Oriente e della classicità greca. L'epifania della divinità sotto forme o apparenze umane è nota anche a esse, ma ignoto rimane il concetto esplicito di "incarnazione". Detto in altri termini, nessuna divinità greca diventa "un uomo" nel senso vero della parola. Adone, Tammuz, Osiride discendono nell'oltretomba e vi riemergono senza, però, assumere la natura e la condizione umana, ma solo per rappresentare miticamente il cielo naturistico stagionale.
L'"incarnazione" resta, perciò, un unicum cristiano, lontana anche da un parallelo remoto, talora evocato, quello induista degli avatara che sono l'assunzione di una forma corporea umana o animale da parte della divinità, assunzione varia e molteplice, ritmica e ciclica secondo il succedersi delle ere. Manca, quindi, in questa visione ogni puntuale e diretta immissione nella trama del tempo e nella realtà di una persona umana, propria dell'evento Gesù Cristo. Scriveva significativamente nel suo Diario il filosofo Ludwig Wittgenstein: «Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell'anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell'uomo».

Fonte: ilsole24ore
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