Don Massimo Maffioletti in dialogo con Luciano Manicardi: Quando l’amore è più forte della morte
|
|
|
|
|
|
|
Vacanza con le famiglie a Sauze d’Oulx, Piemonte
17 - 24 agosto 2024
L'umanità sovversiva di Gesù
Don Massimo Maffioletti in dialogo con Luciano Manicardi, monaco di Bose
Sommario
9. Quando l’amore è più forte della morte
10. Il silenzio e il mistero
11. La Legge e la Parola. E la differenza cristiana
Quando l’amore è più forte della morte
Massimo Maffioletti. Quando parliamo dell’umanità di Gesù di Nazareth parliamo dell’umanità crocifissa, ma anche di un’umanità risorta. Parliamo di un corpo risorto, del fatto che Gesù nella sua esistenza abbia messo in pratica questa terapia risorgente che vuol dire liberazione dal maligno, toccare il corpo malato, lasciarsi toccare da una donna, liberarla dai sensi di colpa… Il problema è che la maggior parte delle persone non riesce a sciogliere l’enigma del corpo risorto, della resurrezione che, per altro, sarebbe la verità più preziosa della fede cristiana..
Luciano Manicardi. La mia impressione è che questa dimensione di resurrezione non agisca, non abbia effetto sulla nostra vita quotidiana. Nella liturgia professiamo verità come “vita eterna”, “per sempre” ma che impatto ha tutto questo sulla nostra vita? Hanno ragione coloro che dicono che all’ipotesi, ormai un po’ culturalmente svalutata, della vita eterna, della resurrezione, sia stata sostituita la religione del benessere, della salute qui e ora (la salute come religione), e il prolungamento della vita più che si può nell’unica vita di cui possiamo essere certi.
Dunque, che dire: della mia vita io ho la responsabilità – evangelica e di fede così come etica nei confronti degli altri – soltanto fino alla morte. Dopo la morte no. Credo che l’amore, o meglio la vita abitata dall’amore, nelle mille sfaccettature e sfumature che la parola “amore” può rivestire, è una vita che non solo vale la pena di essere vissuta, ma che riesce anche a oltrepassare la cortina della morte. Mi colpisce molto che nella narrazione della morte di Gesù nel quarto vangelo, dove per Giovanni la croce è già la gloria, l’evento intransitivo della morte, la cesura inaggirabile che è la morte, diventa un evento transitivo: “Chinato il capo, consegnò lo spirito” (Gv 19,30).
Nel chinare il capo, condizione passiva di morte, c’è già l’atto di un vivente che consegna lo spirito (“παρέδωκεν τὸ πνεῦμα”).
Cosa significa?
Che non è la croce in sé a salvarci, ma è la vita che ci è stata stesa sopra. È la vita innervata dall’amore, la vita che di fronte alla persona malata vede la sofferenza e interviene per aiutarla, è la persona che di fronte al peccatore perdona e gli restituisce un futuro. Tutta la prassi umana che Gesù ha vissuto è stata tesa a dare vita, a far crescere la vita, a ritrovare la verità laddove c’era solo menzogna, a garantire giustizia là dove c’era unicamente ingiustizia. Questa è la radice della resurrezione: credo che l’amore non sia soltanto forte come la morte (Ct 8,6), ma l’amore è più forte della morte. Dicendo credo, metto l’affermazione nello spazio della fede. Non è una ricetta razionale perché la morte pare assolutamente invincibile: da quando in qua riusciamo a vincerla? Il cristianesimo, però, non ci dice che non moriremo più, non ci parla dell’immortalità dell’anima, ma della resurrezione del corpo, che è la persona stessa con tutta la sua capacità relazionale.
Siamo al cuore del discorso cristiano.
Sì, la potenza dell’agape, che però occorrerebbe declinare in tutte le varie sfumature, traluce dai comportamenti di di Gesù. Noi non siamo chiamati solo a ripetere, ma a inventare creativamente, perché oggi viviamo in situazioni che Gesù non viveva; dobbiamo cercare, nei differenti contesti in cui ci troviamo, forme per dare concretezza all’agape, alla carità, all’amore, che va personalizzato a seconda delle relazioni e persone che si incontrano. Non credere nella risurrezione significa cedere al cinismo del “tutto mi è indifferente”, darla vinta alla banalità e alla scontatezza della morte, mentre dal vangelo sono chiamato ad assumere una posizione nuova, sovversiva. La resurrezione non è semplicemente una rosea visione di futuro, ma un’impegnativa visione dell’oggi che mi invita a decidermi: l’accoglienza invece del respingimento, l’abbraccio invece del pugno, il ricono88 scimento invece dell’indifferenza. La resurrezione è qualcosa che si decide nell’adesso, nel qui e ora. E che interviene nel modo di vivere interpersonale, sociale, politico.
Qualcuno interpreta la resurrezione dicendo: siccome qui le cose sono andate male, ho sempre un piano B che è la resurrezione. La resurrezione come piano B, il paradiso come piano B?
Direi proprio che questa prospettiva non funziona. La trovo meschina e vile. Chiediamoci: chi è il battezzato? Le catechesi paoline sono molto chiare: egli parla dei battezzati come dei con-sepolti con Cristo e con-risorti con Lui (“Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova”: Rm 6,3-4). Questo significa che io partecipo già da ora, fin dal battesimo, delle possibilità che abitano nel credente e, quindi, sono chiamato, in quanto cristiano, a vivere da con-risorto, a mettere in atto tutte le risorse della resurrezione. Mi piace riprendere l’idea di risorsa del già citato Jullien, perché la parola risorsa non dice una ricchezza o un valore: la parola viene dal latino resurgere, cioè risorgere. Dunque il vocabolo allude alla ripresa di vita, alla rinascita, anche a partire da una situazione critica, di lutto, di morte. E rinvia anche al francese ressource, fonte, sorgente di acqua che sgorga. La resurrezione o trova nell’oggi zone di realtà e forme di concretizzazione o non è più credibile. Il cristianesimo è ancora una risorsa attuale per la vita di tanti proprio per la vitalità e il dinamismo interno di cui lo dota la resurrezione.
Immagino che Gesù – se si potesse ovviamente entrare nel suo cuore, cosa che per certi versi han provato a fare proprio gli evangelisti e le loro comunità – avesse l’intenzione, con la testimonianza della sua vita, la predicazione, il suo stile umano, di farci intuire che una vita vissuta in piena umanità custodisce già la promessa di una resurrezione, di una beatitudine eterna che ci attenderà, certo senza mai scappare dalla prova e dallo scarto della morte.
Il cristianesimo ha fatto una cosa che tante altre ideologie, tante altre fedi, non hanno fatto: prendere sul serio la tragicità della morte e tentare una risposta non evasiva. Il cristianesimo ha osato assumere la morte come il caso serio della vita. Per questo ha saputo dare una direzione credibile alla vita che esso intende ispirare. Il cristianesimo ci dice che la morte può essere vivificata dall’interno. C’è una vita mortale, che è la nostra, che può essere vivificata da una morte vivificante (l’amore, in tutte le sue forme e declinazioni). La morte vivificante è questa: io che vivo per l’altro, io nell’agape, io nell’amore, io che mi spendo per altri e che lo faccio non per dovere, ma perché questo mi dà pienezza di gioia, perché la mia dignità si espande solo così, perché la mia creatività diventa ancora più generativa, fiorente.
La resurrezione come filo rosso dei vangeli?
Certamente. I vangeli l’hanno capito: quanti racconti, disseminati lungo la vita di Gesù, sono già redatti nella prospettiva della resurrezione! Anche sul piano narrativo e lessicale tanti racconti che narrano episodi della vita di Gesù, del suo ministero storico, alludono già alla resurrezione. È così, per esempio, nell’episodio del padre che porta il figlio epilettico ai discepoli che non riescono a guarirlo (Mc 9,14-27). A un certo punto Gesù giunge sul luogo, guarisce il ragazzo che cade a terra come morto. Ma Gesù lo rialza e il guarito sta in piedi davanti a lui. Osserviamo i quattro verbi greci: ἐγένετο ὡσεὶ νεκρὸς, ἀπέθανεν, ἀνέστη, ἤγειρεν (“Diventò come morto.
Ma Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi”): sono i verbi dell’annuncio della morte e resurrezione, e la narrazione ci dice che nelle azioni di Gesù vivente – nell’umano Gesù – è già presente una forza di amore che è forza di risurrezione.
E come si è manifestata la forza di resurrezione?
Nel caso del vangelo citato si è manifestata nell’ascoltare la sofferenza di un povero padre che non sapeva più come fronteggiare la situazione disperata. Ora può darsi che noi non riusciremo a far risorgere nessuno, però possiamo curare, aiutare, possiamo spendere la nostra vita per altri. In questo c’è il nucleo della resurrezione che consiste nel far vincere, già nell’oggi, l’amore sulle potenze della morte.
Far vincere le ragioni del bene su quelle del male.
Direi proprio di sì. Le ragioni e le pratiche, le dinamiche del bene.
Che cosa potremmo rispondere a quella cultura radicalmente scientista che con la sua predicazione (e paradossalmente la sua fede) è febbrilmente convinta che la vita non sia altro che un assemblaggio casuistico di atomi e molecole che dopo la morte si disperderà in un indistinto universo? Tutto finisce qui oppure si può sperare di traghettare l’umanità in una sorta di post umanesimo?
Ciò che è umano è limitato. Dovremmo imparare la lezione del limite, che non è soltanto la morte: il limite, e il limite di tutti i limiti, cioè la morte, è perfino “magistero” (la morte come magistra vitae).
A dispetto di tutti gli sforzi della società post-mortale e del transumanesimo, tutto sommato la morte continua a rimanere “ben viva, in piena salute e operativa, anzi instancabile”. Si fa beffe di tutti gli sforzi della contemporaneità per superarla e vincerla, considerandola come l’ultimo accidente che ostacola il pieno dispiegamento della potenza dell’uomo. La vita segnata dal limite della morte ci insegna e ricorda che esistono dei limiti invalicabili – e che tali dovrebbero rimanere – anche nelle relazioni umane. Per esempio: l’abuso non è forse un varcare indebitamente delle soglie che non si devono attraversare? La violenza non è forse un oltrepassare dei confini a cui ci si deve attenere? Confine, soglia, limite è ciò che dà una forma, una sensatezza al vivere relazionale. Un quadro ha bisogno di una cornice per poter essere un quadro. Il rischio è cadere nella confusione e nel caos. Che cosa è stata l’azione creatrice se non mettere limiti, disegnare confini, perché solo attraverso limiti e confini noi possiamo vivere una vita umana? Disumana è la vita protratta all’infinito. Gli antichi greci percepivano bene che il superamento del limite portava con sé una maledizione. Borges ha espresso lo stesso concetto in modo efficace in un suo racconto [57]. Chi sono gli immortali, secondo Borges? Sono quelli che non hanno più né pietà né compassione, non sanno più apprezzare l’unicità di una persona e dunque la sua preziosità, perché se tutto dura in eterno, tutto perde anche di valore, mentre so che ciò che è prezioso è anche ciò che posso perdere dall’oggi al domani. Spesso noi impariamo la preziosità delle cose, delle persone, il giorno in cui ci vengono sottratte: siamo un po’ stolti, abbiamo bisogno dell’esperienza della perdita, del lutto, per capire il valore della vita. Il limite è, dunque, ciò che rende umana e vivibile la vita, l’esistenza. Detto altrimenti: una vita è tale se io ne riconosco i limiti. Nonostante tutti i tentativi del post-umanesimo, come ho pure ricordato in un mio lavoro [58]. Personalmente sono chiamato a riconoscere i concreti limiti affettivi, fisici, spirituali, morali, intellettuali che mi abitano: posso essere bravissimo a fare una cosa ed essere un perfetto inetto in mille altre; nelle relazioni – vedi il matrimonio – se sono incapace di riconoscere i limiti creo un inferno; la vita relazionale ha un valore sacramentale perché fa emergere i limiti di tutti.
Il limite è la condizione di possibilità della vita.
Se non riconosci i limiti non vivi rapporti onesti, sinceri, autentici con gli altri, pretenderai soltanto di avere il potere e creerai un inferno sulla terra. Accettare i limiti è l’unica via per una vita umana e umanizzata. Il limite è la condizione di possibilità di relazioni nella verità. Poi, è altrettanto vero che l’umano quando si trova di fronte a dei limiti cerca di superarli. Remo Bodei ha scritto un bel libro sul tema del limite [59]. Ci sono tanti limiti che ci accompagnano, a partire da quelli fisici o intellettuali. Io certamente non sono mille cose: se però comincio a fare l’elenco di tutto quel che non sono, addio vita.
Se entri nella logica di questa accettazione dei limiti, potrai vivere una vita piena. La nostra esperienza è vivere tutto nel frammento e il frammento è il luogo, l’insieme delle condizioni di possibilità nelle quali ciascuno di noi vive. Ecco: si tratta di vivere il tutto dell’amore all’interno del frammento che viviamo e scegliamo. Non abbiamo altra via, siamo limitati e, però, questo limite ci salva dalla ubris, dal delirio di onnipotenza e dai danni catastrofici che avvengono invece quando ci sentiamo dèi in terra: noi non siamo Dio, ma uomini. Pietro dice a Cornelio che si era inginocchiato davanti a lui per adorarlo: “Anch’io sono un uomo” (At 10,25-26). Si potrebbero facilmente trovare applicazioni nell’attualità: penso per esempio a una persona investita di poteri esorbitanti che può comandare a piacere una nazione o schiacciare il fatidico bottone nucleare.
Abbiamo guadagnato due principi fondamentali in questo dialogo: la lotta contro la tirannia dell’io e l’accettazione del limite. Viaggiano insieme. L’umano è spogliarsi del narcisismo del sé e riconciliarsi con la strutturale natura del limite.
Solo nella misura in cui progressivamente mi libero dall’auto-idolatria e dalla tirannia dell’io, scopro che io esisto con l’altro e il mio limite è superato non tanto da un mio ergermi sempre più in alto, ma dall’aprirmi al tu accanto a me. La filosofia dialogica di Martin Buber ha molto da insegnare ancora: divento io dicendo tu [60]. Mentre mi apro al tu – all’altro che nell’ascolto e nella parola diventa un tu – io mi umanizzo. Accetto il mio limite e scopro che il limite esiste per fare spazio a un altro. Non è la cosa più bella del mondo? Emmanuel Lévinas interpreta la circoncisione, il taglio del prepuzio, come una sorta di rinuncia all’onnipotenza maschile e come apertura all’alterità femminile [61]. Geniale. La circoncisione, segno dell’appartenenza al popolo di Israele e all’alleanza, viene letta all’interno del rapporto uomo-donna come rinuncia all’onnipotenza maschile: un taglio, una ferita che mi apre in modo benevolo, rispettoso, all’alterità femminile.
Nuovamente: il limite è ciò che mi può liberare dalla tirannia dell’io, scoprendo che il mio limite è apertura all’altro.
L’incipit de Le intermittenze della morte di José Saramago è fulminante: “Il giorno seguente non morì nessuno” [62]. Il che nel romanzo dello scrittore portoghese pone in crisi la chiesa che non avendo più il dominio sull’aldilà è svuotata di senso. La predicazione sulla risurrezione cade nel vuoto. Cosa percepisce l’uomo contemporaneo, credente o meno, della predicazione ecclesiale sulla resurrezione?
La credibilità del messaggio cristiano è legata al fatto che noi tentiamo di mostrare che le parole della fede, del vangelo, della chiesa hanno una rilevanza antropologica: parlano, in quanto tali, all’uomo e alla sua vita. Possiamo narrare la risurrezione testimoniandola, perché la narrazione non è mai solo a parole, è sempre anche una vita spesa, donata per, tempo dedicato a… Mi piace utilizzare questa espressione: dare tempo, dare ascolto, dare parola, dare presenza… Quando io dò vita a una persona per ascoltarla, per entrare nella sua situazione e offrirle una parola che illumina, di per sé sto “perdendo” la mia vita, ma nella mia fede, però, nella mia convinzione profonda, io non sto perdendo nulla, ma sto vivendo qualche cosa che mi sembra abbia vissuto Cristo stesso quando ha dato la sua vita per altri e mi sembra che la mia sia una “morte” da cui scaturisce vita. Non è persa una vita che cerca di aiutare un’altra vita. Certo, c’è chi si butta nel mare per salvare chi sta affogando e muore annegato insieme con chi voleva recuperare: quel gesto è stato uno spreco, una sciocchezza inutile, oppure aveva così tanto valore in sé da illuminare il senso della vita anche per tanti altri? Sì, io affermo che ci sono delle cose che hanno un valore in sé e per sé indipendentemente dal fatto che riescano a raggiungere un determinato obiettivo. La risurrezione è credibile quando io la accompagno con una morte che dà senso alla vita. Ho già usato l’espressione “morte vivificante che dà senso alla vita mortale”. La nostra vita è mortale, e noi mortali abbiamo il compito di dare un senso alla vita: questo senso l’abbiamo quando abbiamo anche un motivo per cui morire. Chiediamoci: per chi, o per che cosa, per quale ideale, saremmo disposti a dare la vita? Siamo pronti a morire per qualcuno? Io me lo chiedo spesso…
“Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,25; Mc 8,35; Lc 9,24): forse anche in questa prospettiva si può leggere la resurrezione: chi trattiene la propria vita esclusivamente per sé di sicuro è destinato a perderla; chi invece mette in gioco la propria esistenza per l’altro, apparentemente gli sembrerà di perderla, ma in realtà la guadagna. Non si risorge se non si mette in gioco l’esistenza fino alla fine, fino alla fine dell’amore. E, poi, parla da sé la metafora geniale del chicco di grano: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Insomma, la risurrezione è iscritta già nel cuore della vita.
Direi proprio di sì, la credibilità stessa della resurrezione di Gesù è inscritta nel fatto che la sua morte sembra essere una sconfitta totale su tutti i fronti. Come direbbe Charles de Foucauld, “Nostro Signore ha talmente occupato l’ultimo posto che mai nessuno è riuscito a sottrarglielo”. La vicenda umana di Gesù si è conclusa in quello che può apparire come uno scacco straordinario nel quale lui ha mantenuto la fede: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Parafrasando: tu sei e resti – comunque e sempre – il mio Dio, proprio nell’ora più buia in cui percepisco il tuo abbandono.
Splendida lettura quella offerta da Teodoreto di Cirro a proposito del Salmo 22 pronunciato da Gesù sulla croce. Va ricordato che, secondo la tradizione, la lettura dell’incipit di un Salmo (qui: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”: Sal 22,2) indica la proclamazione dell’intero salmo. Inoltre, nella prima parte del Salmo 22 s’innesta il ricordo della nascita: “Sei proprio tu che mi hai tratto dal grembo, mi hai affidato al seno di mia madre. Al mio nascere, a te fui consegnato” (Sal 22,10-11). Gesù nella preghiera sulla croce, nel momento supremo della morte, recitando il salmo, sta facendo il riepilogo di tutta la sua vita. Entra nella morte con tutta la sua vita. La morte assume allora una risonanza universale. Proprio nel momento della maggiore sconfitta Gesù non perde la fiducia in Dio: tu sei il mio Dio; come lo eri, Dio, quando sono nato, così lo sei ora mentre sto morendo. Nell’accomunare l’immagine della nascita, quella della morte e la sintesi dell’intera vita, c’è già il germe della resurrezione.
A proposito dell’incipit del salmo 22 Christian Bobin commenta: “È l’espressione più amorosa che ci sia. Ognuno ne conosce la vibrazione intima. Nessuna vita può fare a meno di questo grido. Queste parole che Cristo rivolge al suo invisibile padre sono il cuore segreto dell’amore, il suo centro tremante, la sua fiamma che vacilla, s’inclina e non si spegne.
Esse sono pure la sola prova dell’esistenza di Dio: non ci si rivolge così al nulla. Non si lanciano rimproveri al niente. C’è qualcuno dietro questo grido, c’è un viso dietro l’abisso. Dopo questo grido, zero rumori: lo strazio del respiro, l’energia che diserta ciò che di colpo diventa carne morta” [63]. Parliamo del rapporto che Gesù aveva con suo padre, che tra l’altro ci invita a chiamare “papà”.
La prima cosa da dire è che Gesù aveva fede, era un uomo che pregava e sempre la preghiera è eloquenza della fede. È un ebreo che impara anche lui a credere. Luca mostra un Gesù impegnato nell’apprendimento della Torah mentre al tempio discute con i maestri della legge: “Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava” (Lc 2,46). Ci sono, quindi, esplicite allusioni a una educazione che Gesù ha ricevuto dalla famiglia. La sua famiglia poi è una famiglia credente, fedele alle tradizioni religiose del proprio popolo: “Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore” (Lc 2,22-24). Gesù frequentava l’ambiente sinagogale, ha imparato ad ascoltare la Scrittura, ha appreso i caposaldi della fede, la preghiera, ha nutrito la sua conoscenza di Dio attraverso il sistema religioso di Israele. Il Dio di Gesù è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, è il Dio di Israele, è il Dio a cui lui si riferisce. Certo, mi verrebbe da dire che Gesù ci presenta un volto di Dio. Avrebbe potuto scegliere altre immagini di Dio, perché l’Antico Testamento ne fornisce di molto variegate: il guerriero, il giudice… ma Gesù non attinge a questo tipo di immaginario. Gesù ci presenta il cuore di Dio, un volto decisamente connotato come quello del padre. Parla di lui usando il termine utilizzato dal bambino nei confronti del papà, a dire di una fiducia semplice e immediata. Ma c’è anche il lato tragico della sua fede quando nel momento della croce – ritorna il Salmo “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” – Gesù resta fedele a quel Dio-padre che sembra abbandonarlo, accettando perfino il tradimento del padre.
Il volto di Dio narrato da Gesù è quello del creatore che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti: “Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45). È il Dio amico degli uomini – philantropos –, il Dio dell’amore universalistico e umanistico, vicino alla scuola farisaica di Hillel. Il Dio narrato da Gesù pronuncia la regola d’oro – “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12) – che per altro si trova in quasi tutte le religioni, culture, sapienze. Il Dio di Gesù è il Dio dei figli di Israele e il Dio degli ebrei, ma certamente connotato in lui da un rapporto fiduciale, quasi ingenuo, di abbandono…
Proprio come dice il Salmo “Io resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia” (Sal 131,2).
Sì, per altro, negli anni trenta una certa esegesi voleva presentare Gesù in continua antitesi con il Dio della tradizione giudaica – vendicativo, cattivo, giustizialista – mentre quello di Gesù era finalmente il Dio buono. Non è così. Il Dio di Gesù è il Dio di Israele, di Abramo, Isacco e Giacobbe. Gesù sottolinea alcuni elementi di Dio senza cancellarne altri, come per esempio quello narrato dai profeti, il Dio che si adira per le ingiustizie del mondo. Perché, ricordiamocelo, anche Gesù si adira e va in collera. E se leggiamo attentamente i vangeli fa effetto incrociare espressioni verbali di una certa violenza.
Come quando rivolgendosi ai discepoli li apostrofa: “‘Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate, quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via?’. Gli dissero: ‘Dodici’.
‘E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via?’. Gli dissero: ‘Sette’. E disse loro: ‘Non comprendete ancora?’” (Mc 8,17-21). Si sente nelle sue parole l’eco del linguaggio profetico: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti…” (Mt 23,13-33).
NOTE
57 Jorge Luis Borges, «L’immortale», in Idem, Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, volume primo, Mondadori, Milano 199813, pp.773-788.
58 Luciano Manicardi, Memoria del limite. La condizione umana nella società postmortale, ed. Vita e Pensiero 2011.
59 Remo Bodei, Limite, il Mulino, Bologna 2018.
60 Cf. Martin Buber, «L’io e il tu», in Idem, Il principio dialogico, ed. di Comunità, Milano 1959: “L’uomo si fa Io nel Tu” (p. 30).
61 Il riferimento è in Jean-Marc Chouraqui, «Un esprit saint dans un corps saint: alliance, corps et sexualité dans le Judaïsme», in Revue d’étique et de théologie morale, Le supplément, 217 (2001), pp. 55-70.
62 José Saramago, Le intermittenze della morte, ed. Einaudi 2005.
63 Christian Bobin, «La frase più bella: Dio mio perché mi hai abbandonato?» in Avvenire 12 febbraio 2012.






