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Rosella De Leonibus "La paura di essere abbandonati"

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rubrica Psicologia

Volenti o nolenti l’abbandono ci introduce, dal primo momento in cui lo subiamo, in una terra desolata che non conoscevamo, ci fa ascoltare un timbro inedito della disperazione e della fatica dell’esistere e del desiderare.
(Emanuele Trevi)

Quale è la paura più grande che un essere umano può sperimentare, oltre alla paura della morte? Stiamo dando per scontato che l’idea di morire sia la più spaventosa che un essere umano possa provare, ma non è detto… spesso è un’idea molto lontana dalla nostra quotidiana percezione, si affaccia alla coscienza solo in certe occasioni, a meno che non stiamo vivendo un momento molto difficile. Non ci sorprende quindi scoprire che per gli esseri umani la più tremenda sia la paura di perdere l’amore, e con esso le cure e la protezione delle persone che ci danno sicurezza e appoggio. Se una persona ormai adulta è attraversata da una paura di questo tipo, se il suo cuore trema ed è pieno di sospetti circa la possibilità di perdere l’amore, potremo osservare alcune tipiche caratteristiche del suo comportamento, che rappresentano degli adattamenti volti ad evitare di doversi confrontare col proprio fantasma principale. Ci si accorge di una marcata difficoltà a pronunciare dei no, del timore di scontentare le persone, c’è titubanza nell’esprimere la propria opinione, si sostengono con grande pena i momenti di solitudine, si è preda del sospetto di poter essere oggetto di abbandono o dimenticanza, e nello stesso tempo ci si lamenterà che gli altri non sono in grado di comprendere le proprie emozioni, che non colgono i bisogni, e che sono egoisti e superficiali nei propri confronti. L’ansia e la paura sono le bandiere che fanno da avanguardia ad ogni movimento di questa esistenza, se non arrivano a bloccarne ogni sviluppo. Ogni incontro può essere sovrainvestito di aspettative, e il tempo trascorso in compagnia degli altri esseri umani è vissuto con poca spontaneità, se non con grande tensione: da ogni dove può provenire un rifiuto, con la conseguenza di immaginare di poter ritrovarsi a provare vergogna, senso di inadeguatezza e di sconfitta.
alla ricerca di rassicurazioni

Se si supera il pesante blocco che queste ansie possono comportare, allora, di fronte al timore di essere respinti e rifiutati, a farla da padrona sarà una costante e ansiosa (fastidiosa quanto mai per i destinatari) ricerca di rassicurazioni. La maggior parte delle interazioni sociali e dei comportamenti saranno avvelenati dal dubbio su cosa davvero gli altri pensino, anche al di là delle conferme verbali positive, e sulla urgenza di indagare e interpretare ogni parola, ogni gesto, che potrebbero nascondere svalutazioni, come critiche e rifiuti. Ci sarà per me un po’ di affetto, potrò ricevere quelle attenzioni che per me sono importanti indizi di considerazione e accoglienza? Vulnerabile come un cucciolo, fragile come un cristallo, col peso dell’inadeguatezza anche rispetto alle cose più semplici della vita, perfino la proposta di una vacanza mi rende tremante, per non parlare di cambiamenti e imprevisti, o decisioni da assumere, problemi da affrontare. Il sostegno di cui avevo bisogno per crescere forte non lo ho ricevuto in modo adeguato, e mi è rimasta addosso questa tremenda sensazione di fermo-immagine sulla mia condizione di infante inerme, uno stop perenne sul mio sentirmi senza protezione, in una condizione di bisogno e di dipendenza. Mi serve molto tempo per riuscire a permettermi l’esperienza di un legame affettivo reale, preferisco per anni sognarlo e idealizzarlo, e quando finalmente riesco a slanciarmi verso quello che per me è un salto nell’abisso, investo questo legame con tutte le mie aspettative di ricevere protezione e garanzie di sicurezza, e certamente sarò preda della peggiore disperazione e angoscia se il legame dovesse fallire. Esattamente all’opposto, potrei anche invece slanciarmi alla cieca tra le braccia di chi mi sembra potrebbe offrire questa protezione, e pur di raggiungere questa possibilità posso fare di tutto, fino a rinunciare alla mia dignità.
la ferita del rifiuto diventa rabbia

E di tutto questo rimango solo io, un povero bambino abbandonato, che nessun Amore ha voluto come figlio adottivo e nessuna Amicizia come compagno di giochi. (Fernando Pessoa)
L’ansia diventa invece incontenibile quando queste personalità percepiscono di essere sole. Può essere un lutto, una perdita affettiva, come dicevamo prima, un trasferimento geografico, il compimento di un percorso di studi o di lavoro dove ci si era appoggiati ad una persona significativa, o la minaccia stessa che si possa verificare un evento di perdita di questo tipo. Siamo molto oltre il normale dolore che accompagna ogni lutto, ogni distacco, ogni trasformazione delle basi su cui poggiamo. C’è la sensazione di non farcela a vivere, e la tonalità emozionale non sarà incentrata sul dolore, ma sulla paura e su una rabbia sorda, devastante e imperiosa. Entra in scena qui la determinante culturale. Immaginiamo che al sesso biologico a cui io appartengo non sia riconosciuta una immagine identitaria che contenga anche emozioni umanissime come paura e insicurezza. Facciamo mente locale sugli stereotipi di genere a cui questo soggetto è stato esposto, su cui è stato formato durante il suo percorso educativo, non solo a livello familiare, ma dalla scuola, dai media, e implicitamente da ogni messaggio di rinforzo del mondo circostante che lo incita a lottare per ottenere ciò che vuole, che lo premia solo se vince e lo applaude di più se mostra cinismo e durezza di cuore. Immaginate la tensione, la contraddizione che si crea tra la parte del sé che si percepisce così vulnerabile, così in pericolo davanti all’impossibilità di esercitare un pieno controllo sulla partner, coì fuori centro davanti alla fine di una relazione affettiva, e l’altra parte, quella costruita dai contesti socio-culturali, che invece dovrebbe essere sfidante, abbastanza anaffettiva, un po’ sprezzante e ovviamente dominante. Come risolve la contraddizione questa psiche, già resa fragile da una ferita antica da mancanza di sicurezza e adeguato accudimento emotivo? Entrare in quella che viene definita «dissonanza cognitiva» comporta una tensione emotiva molto forte, che impone di essere risolta. E se la determinante culturale è forte e univoca, io avrò bisogno di non perdere almeno la mia immagine sociale, nello stesso istante in cui sto perdendo anche la mia relazione. Allora mi oppongo con tutte le mie forze a questo evento, non riesco a vederlo come una scelta libera della partner, ma come una insanabile ferita di abbandono che mi viene inferta, rispetto alla quale non posso neppure concepire di lasciare semplicemente il campo, di sentire il dolore e accettarlo, di imparare a far senza e lasciar guarire la mia ferita. Non c’è, non si è mai costruito un «me stesso» in cui mi posso rifugiare e sentire veramente al sicuro, e allora, se l’ambiente intorno mi propone fino alla nausea l’immagine di te, la mia partner, come un oggetto, come una proprietà che ho conquistato, allora la mia frustrazione, quando tu non ti comporti da oggetto, ma da persona che sceglie, diventerà rabbia feroce che si scaglia su di te fino al limite estremo, fino ad annientarti. Sarò io così a decidere che posso fare a meno di te, e rovesciando il gioco mi illudo di non dover registrare la perdita. La mia immagine, quella che aderisce allo stereotipo previsto per il mio genere, è salva. E almeno questa mi resta, almeno questa la posso controllare.
strategie di fuga dalla paura

Quando non si arriva alla rabbia estrema, a quella che «elimina il problema», si osserva una anaffettività generalizzata di marca difensiva: e si trova un’altra via d’uscita, nel caso in cui l’inquietudine, l’ansia e l’insofferenza siano collegate ai legami. La soluzione sarà quella di barricarsi dietro una maschera di presunto distacco e padronanza, e lo sviluppo consisterà nel differenziare gli investimenti. Non tutte mi lasceranno nello stesso tempo, forse orchestrando insieme tanti legami, avrò la possibilità di sentirmi di tutte e di nessuna, con meno rischio e più potere nelle mie mani. Oppure sceglierò di percorrere la linea di minore resistenza, la strada della limitazione del coinvolgimento. Ci sono dentro nel legame, ma in realtà non ci abito, lo vivo part time, senza implicazioni emotive troppo pesanti, senza progetti, per così dire «a consumo». In questo modo, con il plurale indifferenziato e con il minor possibile livello di coinvolgimento, mi illuderò di mantenere ben saldo il controllo. Sta diventando chiaro ormai che, se sono necessarie così tante strategie di protezione, sotto c’è un pacco bomba caricato a paura e angoscia abbandonica. Bisogna avere il coraggio di scartare il pacco e fare contatto con questa paura che c’è dentro. Bisogna disincrostare il sé dagli strati di stereotipi che lo soffocano, occorre imparare ad accogliere e contenere e sostenere le emozioni collegate alla fragilità e alla vulnerabilità. Occorre ridefinire in senso molto più ricco di sfumature, molto più ampio, l’immagine sociale del maschile, e ripartire dai legami familiari, dal poter accettare che qualcosa di importante sia mancato, e che nessuna partner potrà mai colmare questo vuoto.
Forse scopriremo che dietro la paura dell’abbandono ci sono cose non dette, cose indicibili, sentimenti feriti, esperienze di dolore che non vorremmo mai ripetere. E allora diventerà più chiaro che l’amore adulto non si può esigere, non si può pretendere, non si può imporre, si può solo offrire, e rischiare che quella specifica persona lo possa anche rifiutare. È una follia odiare tutte le rose perché una spina ti ha punto, abbandonare tutti i sogni perché uno di loro non si è realizzato, rinunciare a tutti i tentativi perché uno è fallito. (Antoine de Saint-Exupéry)









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