Matteo Ferrari “Non sprecate le parole”
Appunti sull’omelia
L’ammonimento di Gesù riguardante la preghiera, «non sprecate le parole» (Mt 6,7), potrebbe essere applicato con profitto anche all’omelia.
Certamente questo elemento della celebrazione liturgica, riscoperto dal Vaticano II (cf. SC 52. 35), ha avuto ed ha una grande importanza, tuttavia si ha spesso l’impressione che la sua natura non sia stata compresa fino in fondo. Rimangono sullo sfondo certe predicazioni del passato, per contenuto e per stile, che con l’omelia in realtà hanno poco a che fare.
Certamente questo elemento della celebrazione liturgica, riscoperto dal Vaticano II (cf. SC 52. 35), ha avuto ed ha una grande importanza, tuttavia si ha spesso l’impressione che la sua natura non sia stata compresa fino in fondo. Rimangono sullo sfondo certe predicazioni del passato, per contenuto e per stile, che con l’omelia in realtà hanno poco a che fare.
«Parte della stessa liturgia»
In base a quanto afferma il Vaticano II, l’omelia è «parte della stessa liturgia» (SC 52) e per essa si richiede «la massima fedeltà» da parte dei ministri e «il modo adeguato» (SC 35). La sua finalità è, come del resto si può dire di tutto ciò che il Concilio dispone a riguardo della riforma liturgica, «la partecipazione pia, consapevole e attiva di tutti i fedeli» (SC 48). Ma le nostre omelie, in molti casi, sono svolte con la massima fedeltà? Si ha ben chiaro a che cosa corrisponda quel «modo adeguato» di cui parla il Vaticano II?
In quanto «parte della stessa liturgia», anche l’omelia dovrebbe avere come punto di riferimento quanto in Sacrosanctum Concilium si afferma dei riti in generale: «i riti splendano per nobile semplicità; siano chiari per brevità ed evitino inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (SC 34). Inoltre, il Concilio aggiunge, a proposito della celebrazione eucaristica: «l’ordinamento rituale della messa sia riveduto in modo che appaia più chiaramente la natura specifica delle singole parti e la loro mutua connessione, e sia resa più facile la partecipazione pia e attiva dei fedeli. Per questo i riti, conservata fedelmente la loro sostanza, siano semplificati; si sopprimano quegli elementi che, col passare dei secoli, furono duplicati o aggiunti senza grande utilità; alcuni elementi invece, che col tempo andarono perduti, siano ristabiliti, secondo la tradizione dei Padri, nella misura che sembrerà opportuna o necessaria» (SC 50). Tutto questo può essere applicato anche all’omelia.
L’omelia dovrebbe risplendere per «nobile semplicità». C’è una bellezza da ricercare, naturalmente tenendo conto delle capacità e delle doti di ognuno, che non può essere ritenuta secondaria. Occorre fare attenzione alla «bellezza» delle parole, perché anche questo veicola un messaggio. Inoltre, l’omelia dovrebbe essere «chiara per brevità». In una celebrazione di un’ora circa, l’omelia non può durare venti minuti. Occorre saper distinguere anche i contesti: l’omelia di un parroco in una parrocchia, non ha la medesima funzione di quella di un vescovo in una celebrazione diocesana. Per essere realmente «parte della liturgia» l’omelia, anche nella durata, deve essere in armonia con il resto della celebrazione. L’Ordinamento Generale del Messale Romano afferma che «parte principale» della liturgia della Parola sono le letture bibliche (cf. OGMR 55), non l‘omelia. Questa centralità della proclamazione delle Sacre Scritture deve essere evidente anche nella proporzione del tempo e nell’importanza data a come si proclamano le letture. Purtroppo, a volte, si ha l’impressione che la modalità di proclamare le letture, anche il Vangelo, sia affrettata e approssimativa, come se il vero culmine della liturgia della Parola fosse l’omelia. Non è così! Al centro ci sta la Parola di Dio «contenuta» nelle Scritture: l’omelia è un atto di servizio alla Parola proclamata. Non è la Scrittura in funzione dell’omelia, ma, al contrario, l’omelia in funzione della Parola.
Occorre un linguaggio rinnovato: «si sopprimano quegli elementi che, col passare dei secoli, furono duplicati o aggiunti senza grande utilità». Questo non vale solo per gli elementi rituali e per le formule liturgiche. È un’indicazione indispensabile anche per l’omelia! Occorrono parole «nuove», un linguaggio capace di parlare agli uomini e alle donne del nostro tempo. Il Concilio addita paradossalmente «i Padri» come esempio. Non si tratta di riproporre ciò che dicevano «i santi Padri», ma di percorrere le loro tracce, nel mettere al centro da una parte la Scrittura, dall’altra le persone concrete che compongono l’assemblea liturgica. A volte si ha l’impressione di parole vecchie che puzzano di «aria viziata». Ma il Vangelo ha bisogno di «parole nuove», non perché diverse da quelle della Tradizione, ma perché capaci di parlare concretamente agli uomini e alle donne di oggi. Qui sta la vera Tradizione: trasmettere una parola viva.
«Oggi si è compita questa Scrittura»
Se si volesse un modello per l’omelia, non si potrebbe fare a meno di guardare a quella pronunciata da Gesù nella sinagoga di Nazareth (cf. Lc 4,16-21). Nel testo viene dato grande rilievo al rotolo di Isaia, che viene letto da Gesù stesso: «Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto» (Lc 4,17). C’è nel testo un’attenzione ai gesti e agli «oggetti» – il rotolo, l’inserviente… – che indica la centralità dell’atto di proclamazione della Scrittura. Di fronte alla parola di Dio proclamata Gesù pronuncia una parola fondamentale: «oggi». Questo dovrebbe essere il fine di ogni omelia: arrivare a dire «oggi».
Lo scopo dell’omelia non è unicamente, né principalmente, quello di insegnare, di esortare ad un certo comportamento morale, ma quello di promuovere un incontro, un dialogo, tra Dio e il suo popolo. È quello di dire: «oggi» ciò che avete ascoltato si copie «per voi». Una cosa grandissima! Annunciare che la storia della salvezza continua nella nostra vita! Nell’omelia non bisogna dire principalmente ciò che noi dobbiamo fare per Dio, ma annunciare – ed è un «evangelo», un «buon annuncio» – ciò che Dio ha fatto e continua a fare per noi.
Il linguaggio umano può avere tante e differenti funzioni, che non si escludono a vicenda, ma, anzi, che sono tra loro strettamente unite e inseparabili. Innanzitutto, il linguaggio può avere la funzione di «informare». La comunicazione attraverso la parola in alcuni contesti ha principalmente lo scopo di trasmettere dei contenuti precisi, di fornire delle informazioni. Pensiamo alla funzione di un insegnante. Certo il suo lavoro non si può limitare a fornire semplicemente delle informazioni, tuttavia non sarebbe un buon insegnante, se non lo facesse. La parola umana inoltre puoi avere una funzione «espressiva». Quando noi parliamo con qualcuno inevitabilmente trasmettiamo qualche cosa di noi, della nostra identità. In alcune situazioni questa funzione del linguaggio può essere principale. Infine, la parola umana è «appello». Ci sono dei contesti infatti nei quali la parola si rivolge ad una o più persone ben precise, non in generale a tutti: «la parola umana, per sua natura, cerca l’altro, possiede la passione dell’altro, perché l’uomo è relazione» (V. Mannuncci). In questa terza funzione l’elemento principale è la relazione tra l’io e il tu.
Se creiamo un confronto tra le tre funzioni della parola umana e l’omelia, potremmo dire che in essa ciò che è prevalente è la funzione di «appello». L’omelia non ha principalmente il senso di dare delle informazioni – certo le può trasmettere –, nemmeno ha lo scopo di fornire primariamente delle indicazioni sul comportamento morale – anche se può contenerle – ma ha lo scopo di fare incontrare l’assemblea che celebra con l’evento della Parola nell’«oggi», l’hodie del mistero celebrato. È l’incontro dell’«io/noi» celebrante con il «Tu» divino, che vuole parlare agli uomini e alle donne come ad amici, rivelando se stesso. Nell’omelia si realizza quell’evento di cui parla Dei Verbum a proposito della rivelazione: «Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 2).
Certo, nell’incontro con la Parola ci sarà anche la comunicazione di contenuti e di conoscenze riguardo a Dio e alla interpretazione della Scrittura; ci sarà una nuova vita che nasce dall’esperienza dell’amore di Dio e del suo perdono, come esigenza di corrispondere alla vocazione alla santità. Tuttavia, queste non sono le funzioni «immediate» dell’omelia, bensì sua conseguenza.
Alcune attenzioni concrete
Dal fatto che l’omelia sia «parte integrante della liturgia» e comunicazione che mette al primo posto l’incontro tra il soggetto ecclesiale e il «Tu» di Dio, nascono alcune indicazioni pratiche che possono aiutare a pensare concretamente l’omelia. Tutto si potrebbe sintetizzare in tre passaggi.
Pochi «io», molti «noi». La prima attenzione da avere nell’omelia da parte di chi la tiene riguarda l’uso della prima persona plurale al posto della prima persona singolare. L’omelia è parte dell’azione liturgica e quindi, come accade in tutta la celebrazione eucaristica, non si dovrebbe usare mai – o quasi mai – l’«io», ma sempre il «noi» dell’assemblea celebrante. Questo dice che l’omelia non è il momento nel quale chi preside può «spadroneggiare» sull’assemblea, bensì un atto ecclesiale di ascolto ed esperienza della Parola. L’omelia è annuncio dell’opera di Dio nella vita dell’assemblea liturgica e dei singoli credenti. La predicazione liturgica non è il luogo nel quale chi parla espone delle sue personali teorie esegetiche, più o meno fondate, né il momento per comunicare proprie sensazioni o sentimenti personali. Al centro dell’omelia ci stanno Dio, la sua Parola e l’assemblea, nessun altro. Non si tratta di eliminare ogni elemento personale, né di rendere fredda e asettica la comunicazione, ma di avere ben chiaro qual è il fine di ciò che si sta facendo.
Pochi imperativi/esortativi, molti indicativi. In secondo luogo l’omelia richiede l’utilizzo di pochi imperativi e di molti indicativi. In fondo è lo stile evangelico. Abbiamo detto che il fine dell’omelia non è quello informativo, nemmeno riguardo a come debba essere il comportamento cristiano. L’utilizzo di troppi imperativi o esortativi rende «inascoltabile» un’omelia, che finisce per ottenere l’effetto contrario. Questo è vero soprattutto per gli uomini e le donne di oggi. Per seguire Dio e la sua Parola, per percorrere le vie del Vangelo, non occorre che ci venga incessantemente detto che cosa bisogna fare. Nella stragrande maggioranza dei casi lo sappiamo bene. Anche Paolo afferma: «io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,19). Bisogna invece indicare la bellezza del Vangelo, perché ci possa essere una risposta adeguata. Questo corrisponde alla logica delle beatitudini e del discorso della montagna: Gesù non ha mai messo al primo posto le esigenze morali, ma sempre l’annuncio del Regno; Gesù come prima cosa non ha chiesto alle persone di cambiare vita, ma di seguirlo. Il cambiamento di vita avviene di conseguenza. L’omelia deve portare a gustare la bellezza dell’incontro con Dio e della sua chiamata, che è la condizione per ogni sequela e ogni conversione autentica.
Poche «parole», molta «Parola». Infine, l’omelia deve essere «di poche parole» e di «molta Parola». Gesù nella sua omelia a Nazareth utilizza pochissime parole per mettere al centro la Parola di Dio, che è stata proclamata nelle orecchie di chi ascolta, dell’assemblea liturgica radunata. Questo vuol dire due cose principalmente. In primo luogo, l’omelia, come già abbiamo detto deve essere breve per durata ed equilibrata in riferimento all’intera celebrazione. In secondo luogo, l’omelia deve rinviare alla Parola. Chi tiene l’omelia non deve attirare l’attenzione sulle sue parole, ma unicamente sulla Parola di Dio, contenuta nelle Scritture. Infatti, è la Parola di Dio ad essere efficace, non le nostre parole, pur belle. Come afferma la Lettera agli Ebrei: «la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). L’omelia deve essere una professione di fede nella potenza della Parola creatrice di Dio, l’unica capace di far vivere e di edificare la comunità. La Chiesa infatti non è un auto-raduno di persone, ma un popolo convocato dalla Parola.
«Entra nella tua stanza!»
Per chi presiede, l’omelia è un’opera ascetica. Occorre una grande ascesi per porte passare dall’«io» al «noi», dall’«imperativo» all’«indicativo», dalle «molte parole» alla «sola Parola». È un’ascesi che fa bene al ministero in senso lato, perché ci ricorda costantemente che non siamo padroni, ma servi.
Per vivere questa ascesi occorre che chi è chiamato, per ministero, ad esercitare il servizio dell’omelia e della predicazione liturgica sia lui per primo uditore della Parola, come la Chiesa che si definisce «in religioso ascolto della Parola» (DV 1). Per poter annunciare la Parola e non solo le nostre parole, occorre prima seguire l’invito di Gesù a «entrare nella nostra camera»: «quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,6). Senza una sosta nella nostra stanza, senza quella «porta chiusa», se non riceveremo da Dio «la ricompensa» della sua Parola, non potremo condividere nulla con gli altri.
L’omelia richiede questa ascesi «ascesi» non facile: ci domanda di eliminare ciò che non serve, di tralasciare delle parole nostre, che magari possono sembrarci anche belle, perché l’unica Parola di Dio possa risuonare, cadere in un terreno fertile e portare i frutti che desidera. Poiché «come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11).