Post-teismo: un nuovo paradigma oltre dio, la religione e il cristianesimo
Tratto da: Adista Documenti n° 26 del 13/07/2024
Qui l'introduzione a questo testo.
Stiamo assistendo a un cambiamento culturale senza precedenti. (…). Rispetto ad altri periodi della storia che hanno vissuto cambiamenti epocali, come il passaggio dal medioevo all’epoca moderna, con la rivoluzione copernicana e tutto quello che ne è seguito, ciò che colpisce nel nostro caso è la velocità con cui i cambiamenti stanno avvenendo. (…). Lo sgretolamento dei valori occidentali che da tempo viene analizzato dai filosofi della postmodernità mostra come questa crisi epocale caratterizzi soprattutto la cultura occidentale. Non è un caso che uno dei principali elementi coinvolti nella crisi e oggetto di analisi critica sia la religione e, in modo particolare, il cristianesimo. Questo aspetto non deve scandalizzare perché l’intreccio tra cultura occidentale e cristianesimo è storicamente evidente. (…).
In ogni caso, la crisi epocale e senza precedenti dell’Occidente cristiano sta provocando riletture dai toni fortemente negativi, accanto a visioni del futuro aperte alla novità. Per quanto riguarda le reinterpretazioni del cristianesimo, assistiamo a un duplice movimento. Da una parte, si cerca di salvare il salvabile, prendendo le distanze da quelli che vengono definiti gli errori commessi lungo il cammino, come ad esempio il rinnovamento prodotto dal Concilio Vaticano II, considerato dai suoi detrattori un’operazione nefasta. Questo percorso conduce quasi sempre a un ripiegamento nelle forme cristiane del passato, come se dell’oggi non ci fosse da salvare nulla. È la proposta di un ritorno alle origini spesso acritico, che cela la difficoltà a confrontarsi con la complessità del tempo presente.
Dall’altra parte, si assiste allo stesso tipo di fenomeno ma al contrario. Il cammino cristiano viene accantonato per proporre (…) cammini religiosi nuovi, anche se, a ben guardare, tanto nuovi non sono. Ciò che caratterizza questa nuova fase di ricerca religiosa è la proposizione di nuovi paradigmi che tengono conto del modo in cui si è strutturato il cristianesimo in Occidente (…).
1. Abbiamo sempre avuto bisogno di Dio? Nascita e sviluppo del teismo
(…) La riflessione sulla proposta di un nuovo paradigma, che sostituisca quello precedente, ha dato vita a un percorso di ricerca sull’origine del paradigma teista. La domanda che sta alla base di diversi studi apparsi nell’ultimo decennio, soprattutto in Italia e in America Latina, è la seguente: è sorto prima Dio o l’essere umano? In altre parole: da quando l’essere umano ha sentito la necessità di Dio?
Secondo il teologo latinoamericano di origine spagnola José Maria Vigil, da anni uno dei più attivi in questo campo di ricerca, «il teismo è semplicemente una tappa dell’evoluzione del nostro sviluppo cognitivo e dell’ampliamento permanente della nostra conoscenza». Per molti secoli, dunque, l’essere umano ha vissuto senza Dio. Secondo gli studi riportati da Vigil in uno dei suoi numerosi saggi sull’argomento (“Rivisitando la questione Dio”, in Oltre Dio, Gabrielli, Verona 2022), gli ominidi risalgono a sei milioni di anni fa ed è solo da pochi millenni che è stato elaborato il theos. Poiché le stesse religioni hanno appena 4.500 anni, Vigil conclude che «abbiamo vissuto moltissimo tempo in più senza Dio che con Dio, senza religioni che con esse». All’inizio, sostiene sempre l’autore, nulla era designato come sacro, perché tutto lo era, nulla era religioso, non esisteva neppure il concetto, che è potuto sorgere per contrapposizione solo quando qualcosa, molto più tardi, sarebbe stato considerato profano, non sacro. Il sorprendente senso di sacralità dei nostri antenati può essere considerato una risorsa dell’evoluzione biologica per far sopravvivere l’umanità minacciata dalla natura. Ciò significa che tale sacralità non è caduta dall’alto, ma è stata elaborata dagli esseri umani.
Questo è un punto fondamentale dell’analisi post-teista che ritorna in vari autori, vale a dire che il sacro è frutto dell’elaborazione umana, uno sforzo d’immaginazione che ha permesso agli uomini e alle donne di offrire alcune risposte ai fenomeni che incontravano e ai quali non sapevano dare soluzione. Il sacro, la religione e lo stesso Dio sono, dunque, costruzioni umane e, di conseguenza, di rivelato dall’alto non c’è nulla. Prosegue Vigil: «Fino a circa 6.000 anni fa, non è apparso tra noi alcun theos, con questo o con qualunque altro nome. Sono invece stati elaborati concetti o idee per rispondere alla realtà. La misteriosa vita dell’essere umano, per esempio, il cui principio è stato identificato per primo con il sangue, ha condotto a pensare a un’anima, un’entità indefinita ma più sottile che terrebbe in vita il corpo umano, gli esseri umani avrebbero un’anima. E sono apparsi anche altri elementi ugualmente sfuggenti, tra il misterioso e il magico, come gnomi, folletti, demiurghi, elfi, fate, e tutta un’interminabile serie di realtà misteriose di cui ci siamo serviti spesso per far finta di saper spiegare quello che non sapevamo».
Se il sacro sorge a un certo punto della storia, presentando una cesura radicale con il periodo antecedente, ciò significa che siamo dinanzi a un cambiamento di paradigma che segnerà in modo definitivo l’epoca successiva. È all’interno di questo nuovo paradigma sacrale che viene elaborato il theos e, di conseguenza, il teismo. Secondo gli studiosi che stiamo esaminando, verso la fine del Calcolitico, l’evoluzione umana sperimenta una profonda trasformazione, simile a quella che Karl Jaspers, parlando di tempo assiale, aveva individuato, tra l’800 e il 200 a.C., nelle principali società umane. La rivoluzione assiale, il cui culmine è stato raggiunto tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C., avviene, infatti, «quasi contemporaneamente in Cina, in India e nell’Occidente, senza che alcuna di queste regioni del mondo sapesse di quanto avveniva nelle altre». La rivoluzione assiale è un evento spirituale, all’interno del quale, secondo Jaspers, si elaborarono quelle concezioni da cui presero il via il pensiero filosofico, la fine dei racconti mitici – sostituiti dai principi morali e dalle dottrine religiose e spirituali –, la ricerca delle cause naturali dei fenomeni fisici.
Gli studiosi del post-teismo considerano che, prima di questa rivoluzione assiale, ve ne sia stata un’altra ancora più profonda che ha modificato radicalmente il modo di vedere e di percepire gli eventi storici. Non si può descrivere nei dettagli questo cambiamento, né è possibile individuarne le cause. Ciò che è possibile, invece, è mettere insieme alcuni eventi che si riscontrano in un particolare periodo storico che risale a cinque-seimila anni a.C. e che hanno determinato un cambiamento così profondo da condizionare la cultura per circa duemila anni.
C’è chi pone come indicatore del cambiamento la rivoluzione agraria: si è passati dal condurre una vita basata prevalentemente su caccia e spostamenti periodici per raccogliere piante da frutta, all’imparare a coltivare la terra, con la conseguente creazione di insediamenti, vale a dire con la permanenza prolungata in un territorio. Altri segnalano una specie di progresso naturale nello sviluppo cognitivo e nella capacità di astrazione.
Una delle tesi più significative riportate da questi autori sostiene che il periodo che stiamo esaminando è stato caratterizzato dall’invasione dei Kurgan, un popolo proveniente dall’Asia centrale e dalla Siberia, che sembra aver trasmesso la propria visione dualista della realtà. Si sarebbe trattato di tre ondate differenziate di invasioni dei popoli Kurgan nella vecchia Europa, alla ricerca di terre da conquistare per il proprio bestiame, da cui sarebbe derivata (…) una nuova visione religiosa: quella di «un dio guerriero, un dio spirituale, maschile, conquistatore violento, sempre schierato a favore del suo popolo, un dio tribale». Queste annotazioni conducono Vigil ad affermare come dalla fine del ventesimo secolo sia convinzione comune tra gli antropologi, i paleontologi e gli archeologi che tutta la regione dell’Europa e del Medio Oriente costituisca un continuum culturale in virtù del quale le elaborazioni religiose, i testi, le scritture, i riti, le divinità appartengono a un universo religioso comune.
Secondo questa impostazione ci sarebbe stato un processo di contaminazione culturale così profondo e intenso da determinare un universo religioso comune che avrebbe generato divinità con caratteristiche molto simili nei popoli vicini. L’idea del theos sarebbe, dunque, sorta in questo periodo come prodotto di questo intreccio culturale, e avrebbe generato un paradigma religioso di così grande portata da influenzare i millenni successivi. (…). In questa prospettiva di tipo storico-culturale, il theos sarebbe una creazione culturale e costituirebbe «l’elemento centrale di un modello di rappresentazione del mondo originato millenni fa», tale da aprire «una nuova tappa storica per il nostro sviluppo della coscienza, cognitivo, materiale, entrato oggi in crisi ma senza essere interamente soppiantato».
Secondo José Arregi, il paradigma teista manifesta anche una valenza politica. Nello sviluppo della complessità delle società primitive serviva un elemento culturale che desse loro coesione. Niente di meglio, allora, che una forza divina, che dall’esterno fonda e impone le sue leggi. (…). Mentre i ruoli si specializzano e la società si fa più complessa nell’età dei metalli e dello sviluppo dell’agricoltura, c’è bisogno di miti, di narrazioni che diano ragione di ciò che sta avvenendo, di una classe sacerdotale in grado di gestire e, allo stesso tempo, garantire la stabilità del sistema teocratico. L’invenzione del theos ha prodotto una struttura religiosa capace di elaborare un sistema di leggi e norme in grado di giustificare il potere politico ed economico del tempo.
In questa trasformazione paradigmatica e assiale, l’elemento centrale in cui tutto converge e che diviene la chiave ermeneutica di tutto è dio, theos. (…). Dio diviene la spiegazione di qualsiasi fenomeno e la causa prima di tutto. (…). «In tutte le religioni – sostiene Vigil – constatiamo lo stesso procedimento: sono gli dei creati da noi che ci dettano il messaggio che noi mettiamo loro in bocca […] Non è una caratteristica di qualche religione, è un meccanismo universale».
Come notavo sopra, nell’analisi post-teista viene condotta una critica radicale al concetto di rivelazione, che è la base delle religioni del libro. Tutto ciò che viene indicato come “rivelato” non è nient’altro che una proiezione umana. Se infatti il theos è un’invenzione umana, lo sono anche le parole che gli vengono attribuite. (…).
Negli studi del post-teismo che stiamo analizzando, il paradigma teista si è imposto in modo così profondo e radicale non solo da riuscire a plasmare la cultura, ma anche da far dimenticare il periodo precedente, dominato da un paradigma di pensiero non-teista. (…).
2. Il post-teismo non è ateismo
(…) Come ha sostenuto il gesuita Paolo Gamberini nel suo ponderoso e affascinante studio sul tema, «com’è stato per il passaggio dalla visione tolemaica a quella copernicana della terra, così anche in teologia è necessario tener presente il passaggio da una visione antropomorfica-mitica di Dio a una in cui diventiamo coscienti che tutto ciò che ascriviamo a Dio fa riferimento alla nostra percezione di Dio: al nostro punto di vista (Deus due punto zero. Ripensare la fede nel post-teismo, Gabrielli, Verona 2022).
Il punto di vista dell’epoca che stiamo vivendo è segnato profondamente dal paradigma scientifico. La domanda che un credente del ventunesimo secolo e che lo stesso Gamberini si pone è la seguente: come si può continuare a credere in Dio all’interno di una visione del mondo che ha cambiato radicalmente i suoi punti di riferimento cosmologici e mitologici? Non è più possibile vivere in un ambiente culturale che ha assorbito il paradigma scientifico in tutte le sue forme e risponde ai grandi enigmi della vita richiamandosi alle discipline della fisica, delle neuroscienze, della microbiologia e delle altre discipline scientifiche e poi, di domenica, aderire a forme mitiche, a narrazioni che non corrispondono più alla vita quotidiana degli stessi fedeli. Il post-teismo, dunque, come sostiene Claudia Fanti, «è fortemente debitore delle scienze biologiche e cosmologiche rispetto alla nuova visione, a cui si richiama, della materia». (…). Lo sviluppo delle scienze ha messo a nudo i limiti della proposta religiosa, ne ha relativizzato i contenuti e, soprattutto, l’attendibilità. D’ora in poi è difficile pensare a un’entità personale che interviene dall’esterno a modificare le sorti del mondo. Come sostiene sempre Claudia Fanti, «è impossibile negare che sia in atto in molti luoghi un’evoluzione verso una laicizzazione di dimensioni inedite e che la comprensione della religione […] ne risulti profondamente trasformata». (…). È vero che anche in Occidente si riscontra una specie di ritorno del sacro, ma in ogni modo la religione non è più il punto di riferimento per le decisioni sui grandi problemi del mondo attuale.
Accompagnando le riflessioni degli autori presi in esame, potrebbe sembrare che l’analisi post-teista conduca all’ateismo: in realtà non è così. (…). Il non teismo non conduce all’ateismo di tipo materialista, come è emerso nell’Ottocento o nelle tendenze nichilistiche e nell’esistenzialismo ateo del Novecento. Come sostiene Vigil, «il non teismo non è in sé né ateo, né nichilista, né materialista riduzionista, né chiuso al mistero, alla sacralità o alla divinità. Semplicemente, si sbarazza criticamente e consapevolmente di un prodotto evolutivo creato dall’essere umano, una fantasia utile di cui si è servito in un momento dato dello sviluppo della sua cultura e della sua infrastruttura materiale, un elemento la cui origine e il cui statuto siamo riusciti a conoscere solo ultimamente e che si rivela ora chiaramente ingiustificato, obsoleto e responsabile di conseguenze nocive anche per il pianeta».
A questo punto diviene chiaro che il problema è il theos, non la divinità. Scoprire la genesi mitologica del theos, come pure l’evidenza della sua impraticabilità in una società adulta, scientifica e post-mitica, non porta all’ateismo, ma semplicemente al post-teismo, al non teismo. L’affermazione del paradigma scientifico conduce all’abbandono definitivo del paradigma teista che per secoli ha influenzato nel bene e nel male il cammino dell’umanità. La difficoltà più grande, a questo punto, consiste nel rileggere i dati della realtà e della spiritualità alla luce del nuovo paradigma post-teista. Che cosa rimane della lettura della realtà da parte del cristianesimo a partire dal paradigma teista? Se è vero che il post-teismo non imbocca il cammino dell’ateismo, che tipo di spiritualità si profila all’orizzonte? (…).
3. Quale cristianesimo nel post-teismo?
Nelle pagine degli autori del post-teismo è iniziata una lettura critica del cristianesimo che, in sintesi, può essere ricondotta a tre filoni principali. In primo luogo, vi è un’ala radicale che sta mettendo in soffitta tutto l’apparato concettuale del cristianesimo, considerandolo superato e improponibile. Ci sono, in secondo luogo, autori che stanno elaborando una proposta alternativa al post-teismo recuperando in modo critico alcuni elementi del cristianesimo. Per ultimo, vi sono coloro che interpretano il cristianesimo nell’epoca del post-teismo rileggendo i dati del cristianesimo senza stravolgerli, ma compiendo un’operazione ermeneutica in grado di portare avanti il cammino sui contenuti della Tradizione.
In primo luogo, dunque, c’è una riflessione che sta prendendo le distanze, in modo radicale e senza continuità, dai contenuti del cristianesimo che sono stati elaborati nei primi secoli e che hanno influenzato tutto il cammino. Tra questi autori si distinguono le analisi iniziali del vescovo episcopaliano statunitense John Shelby Spong e del gesuita belga Roger Lenaers, e le analisi più recenti del teologo latinoamericano José Maria Vigil e del teologo spagnolo José Arregui. Basta sfogliare le dodici tesi di Spong per rendersi conto che del cristianesimo così com’è stato elaborato nella cristianità rimane ben poco, per non dire nulla. Si passa, infatti, dall’affermazione dell’assurdità di «cercare di credere in Gesù come incarnazione di una divinità teistica» alla negazione della verginità intesa in senso biologico (…). In un contesto culturale post-newtoniano, non c’è più spazio per la narrazione dei miracoli di Gesù, i quali possono essere spiegati come «versioni ampliate di storie di Mosè, Elia e di Eliseo, o come applicazioni alla vita di Gesù, in senso messianico, dei segni del Regno di Dio in Isaia». Lo stesso vale per la resurrezione, che «non può consistere in un risuscitare fisico all’interno della storia umana». La chiave ermeneutica di questa presa di posizione così radicale nei confronti dei contenuti della Tradizione è proprio quel teismo che stiamo analizzando e che, secondo Spong, è stato utilizzato dalla prima comunità cristiana per leggere il contenuto del messaggio evangelico. Poiché il teismo come modo di definire Dio è morto e la maggior parte di ciò che si dice di Dio non ha più senso, «dobbiamo trovare un nuovo modo di concettualizzare Dio e parlarne».
Dello stesso parere è il gesuita Roger Lenaers. (…). Invece di parlare di teismo e post-teismo, Lenaers parla di eteronomia e teonomia. Eteronoma è la concezione dualista della realtà, in cui gli elementi della realtà terrena fanno riferimento a un mondo altro (heteros in greco), il mondo trascendente. È questo il paradigma – che Lenaers indica con il termine assioma – che è servito come chiave d’interpretazione della realtà e che il cristianesimo delle origini (…) ha utilizzato per descrivere i misteri riguardanti Gesù di Nazareth. (…). L’accettazione di questo assioma cominciò a crollare con l’emergere delle scienze esatte, che aiutarono a comprendere che «la natura segue proprie leggi interne, che possono essere calcolate, i cui effetti possono essere previsti e spesso addirittura evitati». Smantellato l’apparato concettuale che reggeva la visione del mondo eteronoma, che aveva ipotizzato l’esistenza di un Dio – il theos del teismo –, si fa strada una concezione autonoma, che prende in considerazione per le proprie analisi la sola realtà immanente. «L’autonomia non è l’affossatrice del vero Dio, ma solo dell’insoddisfacente immagine di un Dio in cielo, che è una costruzione umana, anche troppo umana e, in ogni caso, inadeguata a rappresentare per i tempi moderni il Dio che si rivela in Gesù […] La riconciliazione di autonomia e fede in Dio è chiamata teonomia».
Nel pensiero teonomo esiste solo il nostro mondo: non c’è più bisogno di alcuna trascendenza. È questa la prospettiva aperta dal post-teismo che Lenaers chiama teonomia. L’autore è consapevole che secoli di assioma eteronomo hanno plasmato in modo così profondo la dottrina cristiana da rendere difficile una lettura diversa, teonoma per l’appunto.
In ogni modo, il crollo dell’assioma eteronomo è sotto gli occhi di tutti e ciò provoca un cambiamento radicale del modo di intendere i contenuti della vita cristiana. Se, infatti, non esiste più un’istanza soprannaturale in quanto l’unica realtà è quella immanente, allora «anche il concepimento di Gesù senza un padre umano è diventato impensabile, e anche la risurrezione intesa come la rianimazione di un organismo completamente morto; e le sacre formule in base a cui fu concepito per opera dello Spirito Santo ed è nato dalla Vergine Maria e il terzo giorno è risuscitato, come pure la resurrezione della carne, diventano obsolete, perché tali dichiarazioni presuppongono l’intervento sovvertitore di Dio nell’ordine cosmico».
Il pensiero autonomo che si sviluppa e prende piede in Occidente a partire dalle scoperte scientifiche e dal paradigma scientifico che si configura nell’epoca moderna, oltre a generare il paradigma teonomo, produce la crisi della Chiesa come istituzione e come dottrina. «Come la pietra nel sogno di Nabucodonosor non ha lasciato in piedi niente della statua che si ergeva verso il cielo», così sta avvenendo per la Chiesa che si sta sgretolando a causa del paradigma teonomo, che legge il Mistero in modo nuovo, opposto a quello eteronomo. È l’Illuminismo che ha trasformato in pensiero critico le intuizioni che le scoperte scientifiche offrivano al pensiero occidentale. È a questo punto che inizia un processo di demitizzazione che porta a prendere le distanze da quelle forme mitiche che, secondo Lenaers, hanno caratterizzato il pensiero cristiano delle origini. (…). «Finché la gente – sentenzia Lenaers – accetterà queste storie come vere rappresentazioni della realtà, non si porrà mai la domanda di quale logos si nasconda dietro i miti [...]. Non possiamo più credere nel modo in cui sono state finora presentate le storie e le immagini della vecchia mitologia cristiana». Secondo Lenaers è assurdo che, nonostante i dati della scienza siano ormai alla portata di tutti, la Chiesa ancora oggi non riesca a distanziarsi dall’assioma eteronomo. Questa difficoltà è visibile nelle formulazioni del Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 in cui non appare mai la parola evoluzione, ma viene riproposto invece il concetto di peccato originale, che apre una serie di affermazioni a suo giudizio oggi improponibili.
L’ultimo aspetto che intendo sottolineare dell’analisi di Lenaers è la questione di Dio come persona, un tema al centro del dibattito promosso dalla corrente post-teista. L’autore si chiede: «Se nel pensiero teonomo Dio è la profondità ultima e l’essenza interiore del cosmo, è ancora possibile, allora, parlare di qualcuno?». In altre parole, la domanda cerca di porre il problema se sia ancora possibile indicare Dio come una persona, come un Tu. Il problema non è di poco conto, perché, com’è possibile percepire, coinvolge la dinamica della preghiera tipicamente cristiana. Anche nei vangeli Gesù si rivolge a Dio come a un Padre, anzi ci sono moltissime pagine di spiritualità e mistica cristiana secondo cui proprio Gesù ci ha mostrato il volto paterno di Dio come persona. La risposta di Lenaers è in linea con il pensiero post-teista ed è coerente con quanto lui stesso ha affermato a proposito dell’impostazione teonoma. In una prospettiva teonoma, esiste solo la realtà immanente e quindi anche nella preghiera non ci rivolgiamo più a un Tu presente in un aldilà che non esiste e che è pura invenzione umana. Infatti, «molte formulazioni tradizionali sul Tu divino sono incomprensibili per i moderni fedeli pensanti, specialmente quelle che proiettano questo Mistero in un mondo separato».
L’unico posto dove possiamo trovare Dio è in questo mondo, ma ciò non ci impedisce di avvicinarci a Dio come a un Tu. (…).
Anche José Arregi e José Maria Vigil sono su questa stessa linea di un cristianesimo post-teista che non può più sostenere le costruzioni dogmatiche realizzate dalla Chiesa utilizzando il paradigma teista. Cosciente che, come le altre religioni, anche il cristianesimo si dissolverà in quanto «sistema obsoleto di credenze», Arregi s’interroga sull’eredità della figura di Gesù. In primo luogo, dopo aver liberato il campo dalle costruzioni culturali e dogmatiche su Gesù, occorre guardare a lui come a un simbolo o icona dell’essere umano in comunione con tutti i viventi. Gesù, dunque, è icona dell’essere umano a favore della convivialità, della liberazione e della piena convivialità condivisa.
«E sia chiaro – sottolinea Arregi –: non guardo a Gesù in quanto figura unica o perfetta o superiore alle altre, ma perché la sua figura fa parte in maniera particolare delle mie radici, delle nostre radici culturali e spirituali, personali e collettive». Più che a guardare a Gesù come ce l’ha presentato la dogmatica cattolica che, a suo giudizio, non funziona più, occorre guardare a lui come a una fonte d’ispirazione. Possiamo lasciarci ispirare da Gesù per la sua insistenza sulla misericordia, per la sua rivoluzione dei valori, per la sua libertà interiore, per «la sua personalità di profeta carismatico itinerante e il fatto che, nel corso della vita, si facesse accompagnare da uomini e donne allo stesso modo, per lo scandalo della gente per bene». (…).
Sulla stessa linea di pensiero è José Maria Vigil, il quale pone come centro della riflessione il contesto culturale attuale, a partire dalla distanza radicale delle nuove generazioni nei confronti della religione.
(…). Nelle nuove generazioni è evidente che l’impianto dogmatico delle religioni in generale e del cristianesimo in particolare non dice nulla per il semplice fatto che non corrisponde al paradigma scientifico che legge i dati della realtà non più in modo mitico, ma con i criteri offerti dalle discipline scientifiche. (…). In questo nuovo contesto culturale che sta avanzando, la stessa figura di Gesù appare liberata dalla struttura dogmatica che l’ha ingabbiata per secoli e «sottratta a ogni monopolio e a ogni pretesa di possesso», perché Gesù, afferma sempre Vigil, non può essere patrimonio delle Chiese né del cristianesimo, ma appartiene a tutta l’umanità.
4. Verso un nuovo cristianesimo post-teista: la prospettiva di Paolo Gamberini
Se nelle pagine dei quattro autori analizzati appare dominante la pars destruens (…), diverso e più costruttivo è il tentativo del gesuita Paolo Gamberini, con la sua proposta del modello teologico del panenteismo. (…).
Facendo riferimento agli studi di Salvatore Natoli, Gianni Vattimo e Jean Luc Nancy, Gamberini mostra come, diversamente da quanto solitamente si immagina, la secolarizzazione non determina la fine del cristianesimo, ma è una sua produzione. (…). È il cristianesimo che ha generato il fenomeno della secolarizzazione e non il contrario. Come afferma Nancy, attraverso l’incarnazione «Dio si svuota e depone la sua divinità, per entrare nello stato umano». La novità dell’incarnazione sta nel fatto che il divino negli esseri umani si dà nella dimensione del suo ritirarsi, nell’assenza. In questa prospettiva, l’immanenza è il segno dello svuotamento radicale della divinità. Il fatto che l’uomo e la donna sono a immagine di Dio, il suo ritratto, rivela il ritirarsi di Dio. «Gesù è il Dio – riflette Gamberini – dal volto umano che guarda gli umani non come servi ma come amici (Gv 15,15). Dio è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. È il Dio di Gesù di Nazareth». La fine di quella concezione religiosa che vede il sacro separato dal profano, inizia con l’avvento del cristianesimo, con la sua lettura kenotica della storia (…).
In questa prospettiva, l’identità di Dio sta nella sua relatività e, proprio in questo suo ritirarsi, sta la sua assolutezza. Nel passaggio dal monoteismo a ciò che Gamberini chiama monismo relativo si dà il compimento della fede cristiana. La ricerca di modelli teologici che esprimano ciò che sin qui si è venuto a comprendere conduce Gamberini verso il modello panenteista e monista, in cui Dio è compreso, presente dovunque e in tutte le cose. «Il monismo panenteista indica sia un’unità tra la totalità del creato e Dio, che una differenza tra i due, poiché Dio precede, abbraccia e costituisce l’unità-nelladifferenza. La distinzione tra Dio e mondo, presente nel modello teista, si integra con la comprensione panteista dell’identità tra essere di Dio e gli enti creati». In questa prospettiva post-teista si comprende la relazione tra Dio e la creazione non esterna, com’era nella visione del paradigma teista strutturato sul dualismo cosmologico, ma interna ed essenziale. Il mondo, dunque, non è al di fuori di Dio, ma è dentro l’essere di Dio e la relazione tra Dio e mondo definisce l’essenza creatrice di Dio. Il mondo e Dio sono intesi come due facce di una stessa moneta, che non sono uguali, ma sono la stessa moneta: unità nella differenza. In questo modo, «Dio s’identifica con la Sua relazione con il creato, in virtù del suo essere creatività originaria». Il post-teismo considera Dio e la sua relazione con il creato come “essenziale”, in quanto fondata sulla libertà di Dio di autodeterminarsi come amore creativo. «Dio e creazione, infatti, devono essere compresi in una forma superiore di unità ontologica, il cui fondamento originale è la libertà creatrice di Dio, Atto puro di amore». È possibile intuire come la proposta di Gamberini aiuti a superare la concezione della trascendenza assoluta e, di conseguenza, la concezione interventista di Dio.
Queste considerazioni conducono Gamberini a sostenere che, per ripensare la teologia cristiana da un punto di vista post-teistico, dobbiamo innanzitutto:
«1. sostenere un concetto di essere divino che di per sé includa il creato fin dalla sua iniziale definizione. L’agire creativo è l’espressione più intima dell’essere di Dio in quanto dice della Sua identità creatrice;
2. superare una visione interventistica e sopra-naturalistica della presenza attiva di Dio nell’universo e in particolare nella storia umana, poiché tale visione contraddice l’odierna comprensione scientifica dell’universo e comprende Dio come un essere mondano, ovvero come “una porzione” del mondo».
(…). È possibile comprendere i due misteri perno del cristianesimo, vale a dire l’incarnazione e la resurrezione di Gesù, alla luce delle considerazioni fatte. In primo luogo, l’incarnazione parla della progressiva presenza di Dio nel mondo e questo processo raggiunge il suo apice in Gesù. Secondo Gamberini, (…) si può sostenere che l’incarnazione non sia un evento isolato riferito solo a Gesù, ma «è un processo continuo che iniziò con la creazione, raggiunse l’apice in Cristo e ancora oggi continua». In questa prospettiva, possiamo comprendere la resurrezione come il momento più alto del dono di un essere umano all’amore di Dio, e non un nuovo atto divino che si aggiunge alla creazione. «La risurrezione di Gesù è il risultato, invece, della decisione di Gesù di consegnarsi a Dio nella morte».
5. Conclusione: tra perplessità e nuovi cammini
Sfogliando le pagine degli autori che stanno studiando il nuovo paradigma post-teista, si ha la sensazione (…) che, da lontano, s’intravede una luce che ci permette di pensare il Mistero e sperimentarlo in modo totalmente nuovo. (…). Emergono, comunque, alcune perplessità assieme ad alcune note positive che desidero condividere.
A causa della scarsità del materiale documentario a disposizione, la ricerca storica e antropologica non può che procedere per supposizioni. Questa analisi storica altamente suggestiva della nascita del teismo, proprio per questi motivi, presta il fianco a numerose critiche. La più importante è quella relativa al livello di contaminazione profondo ed esteso generato dal paradigma dualista, la cui origine è tutta da dimostrare, presentando, a mio avviso, molte difficoltà dal punto di vista storico ed epistemologico. Con gli scarsissimi mezzi di comunicazione presenti al tempo del Calcolitico, è molto improbabile un livello di contaminazione così radicale ed esteso da giungere a strutturare un paradigma. (…).
In secondo luogo, la concezione dualista della realtà che ha poi condizionato il pensiero occidentale non deriva dai popoli Kurgan, ma sorge in Grecia nel V secolo a.C., molto dopo quindi l’epoca calcolitica, per opera di Platone. (…).
Riportare ordine nell’analisi storica proposta da pensatori post-teisti è di fondamentale importanza, perché permette di vedere il problema delle origini del teismo in modo diverso e, offrire, in questo modo, risposte diverse. Il dualismo di tipo astronomico che condizionerà tutto il pensiero occidentale non è infatti quello emerso dalle incursioni dei popoli Kurgan, bensì quello elaborato da Aristotele, discepolo di Platone (…).
Altro dato sul quale mi sembra importante suscitare una riflessione riguarda la conclusione che i teologi del post-teismo arrivano a formulare dopo aver tolto di mezzo il dualismo astronomico. Togliendo il cielo come dimora del theos, perché dovrebbe sparire anche l’idea di rivelazione? Ammettere che lo Spirito del mondo, la realtà, il Mistero è immanente, all’interno della storia, non significa che non possa portare e manifestare contenuti qualitativamente diversi dai dati materiali. (…).
Ultimo passaggio critico. Se è vero che la riflessione dei Padri della Chiesa e dei primi concili ecumenici (…) era dominata dal pensiero metafisico di tipo sia platonico sia neoplatonico, e che oggi siamo convinti che si possano narrare le novità del Mistero manifestato da Gesù in modi diversi e facendo riferimento a griglie concettuali diverse, è altrettanto vero che non tutto il materiale prodotto in questa prima fase della storia del cristianesimo debba essere gettato nel cestino della spazzatura come fanno Spong, Lenaers, Vigil e Arregi. Ridire in modo nuovo i contenuti del Mistero manifestato da Gesù Cristo non può voler dire fare tabula rasa dei contenuti elaborati in venti secoli (…).
Ci sono alcuni aspetti positivi che il paradigma post-teista sta provocando nel dibattitto sulla religione e, tra i vari che stanno emergendo, desidero sottolinearne alcuni.
La critica radicale al pensiero dogmatico e alle forme rigide di religione apre un nuovo spazio al pluralismo religioso, spesso bloccato proprio da questioni teologiche considerate inalienabili. Lo scenario post-teistico ci permette di vedere il mondo religioso dal punto di vista non di chi deve difendere una fortezza, ma di chi vuole camminare insieme. In questa nuova prospettiva, i contenuti specifici delle religioni, prima di essere patrimonio esclusivo e identitario di un gruppo di persone, diventano occasione di confronto e di crescita con le altre comunità religiose. Il paradigma post-teistico permette di considerare i contenuti specifici di ciascuna religione come percorsi aperti a tutti gli incontri possibili. C’è un clima di libertà religiosa che aiuta a vedere la religione dell’altro non come una rivale o una nemica, ma come un’alleata. Le religioni acquisiscono, così, la possibilità di realizzare uno degli aspetti fondamentali della loro esistenza, cioè quello di essere costruttrici di ponti di pace. (...).
Riportando Dio sulla terra, il paradigma post-teistico può considerare la scienza non come un ostacolo alla realizzazione del bene, ma come un’alleata. (…). Le religioni possono ora collaborare con la scienza per contribuire a proteggere la terra, attraverso un misticismo che considera la terra come madre, come propongono da secoli le religioni indigene. In questo modo, le religioni partecipano al progetto di salvare l’ecosistema, minacciato da una visione strumentale della realtà dominata da saperi separati (…). La visione olistica della realtà riesce a recuperare la percezione che tutto è interconnesso e che, quindi, siamo tutti coinvolti nel progetto di salvezza del cosmo. In questo modo, il paradigma post-teista consente alle religioni di pensare percorsi spirituali fedeli alla terra, in armonia con il cosmo, per la salvezza del creato.
Inoltre, la prospettiva post-teista apre la strada a tutti i tipi di contaminazione. Se è vero che, nonostante le rigide osservanze dogmatiche (…), le contaminazioni si sono sempre verificate, ancor più ciò sarà possibile nel nuovo paradigma post-teista. (…) La fine della religione dogmatica, così come viene oggi pensata all’interno del paradigma post-teista, consente a ciascuna religione di vivere pienamente un aspetto della propria identità, che consiste nell’essere uno spazio aperto a tutti. La contaminazione religiosa, anziché un problema, è una necessità interna, perché rivela la bontà della stessa fonte religiosa, l’identità pacifica del Mistero che percepiamo presente nella storia.
Infine, il pluralismo religioso stimolato dalla prospettiva post-teista crea un nuovo spazio per la politica. Sappiamo come le religioni abbiano spesso fornito le motivazioni per forme autoritarie e violente di mantenimento del potere politico. L’Occidente moderno è stato caratterizzato da numerose guerre di religione. Ancora oggi, in alcune regioni del mondo, le guerre hanno origini religiose. Il paradigma postteista può aiutare a neutralizzare le forme di violenza incoraggiate dalle religioni tradizionali, quando queste si sentono minacciate nel cuore della loro identità. (…).
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