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Massimo Recalcati "Il vero dono è la cancellazione del nostro ego"

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 23 Dicembre 2025 

Non aspettarsi nulla in cambio. Tanto meno la gratitudine In questo risiede l’essenza stessa dell’atto del “regalare”.

Esiste una concezione ovvia del dono che le festività natalizie portano fatalmente alla ribalta: dare qualcosa a qualcuno gratuitamente. Ma davvero l’esperienza della donazione sarebbe sempre una manifestazione di pura gratuità, un dare che viene prima di ogni ricevere? Jacques Derrida ha interrogato a lungo l’esperienza del donare sottolineando il rischio di una sua corruzione. È quello che accade quando il dono viene assorbito nel circuito ordinario dello scambio economico regolato dal do ut des nel quale l’offerta prevederebbe un ritorno necessario, una sorta di contropartita commerciale, un rimborso. In questo caso dare, ricevere e ricambiare il dono diventano comportamenti obbligati, imposti o routinari, privi in ogni caso di libertà. Dunque il contrario del libero atto del donare. Se questo atto viene sottomesso al regime dello scambio, può, infatti, incatenare chi riceve il dono a un legame di dipendenza se non persino di indebitamento. Succede soprattutto quando il donatore si manifesta nella dimensione sovrana della sua prodigalità. 

Lo si vede bene, per esempio, nel dono dell’anello di fidanzamento nel bel film di Paola Cortellesi C’è ancora domani, che manifesta l’intenzione del giovane borghese di inchiodare con questo atto la sua umile ragazza in una posizione di chiara sudditanza. 
Per questo Derrida ricorda che in ogni dono degno di questo nome il donatore dovrebbe coltivare il proprio oblio, nascondere il suo nome, cancellarsi nell’atto stesso del suo dono. Perché il dono non deve alimentare, ma interrompere il circuito ordinario dello scambio. Come dire che il dono, sottratto alla logica simmetrica della reciprocità, dovrebbe auto-cancellarsi proprio laddove si manifesta. Per questo nel magistero di Gesù si ricorda che «la mano sinistra non deve sapere quello che fa la destra». Il dono più puro è, infatti, un dono che cancella l’ego di chi lo compie. In questo senso, la gratitudine di chi riceve il dono non dovrebbe mai risultare essenziale all’atto del donatore. È la stretta analogia che, sempre secondo Derrida, unisce l’esperienza del dono a quella del perdono che porta, non a caso, nel suo stesso nome la figura del dono. Come non è il pentimento di chi ha commesso l’ingiustizia a causare il perdono poiché, come scrive in modo volutamente iperbolico Derrida, «il perdono è sempre perdono dell’imperdonabile», allo stesso modo nel donare non è la riconoscenza di chi riceve il dono a dare valore al dono. Questo significa che sia nel dono che nel perdono in primo piano troviamo l’esperienza di una rinuncia di sovranità. 

Il perdono non scaturisce, infatti, dalla restituzione (impossibile) della giustizia poiché non c’è mai pareggio dei conti, non c’è mai un rimborso adeguato. Allo stesso modo non perdono perché ho dimenticato l’offesa (in quanto sanzionata dalla giustizia), ma è solo grazie al perdono che posso davvero dimenticarla. Lo stesso accade nel dono: l’atto della donazione si realizza solo in se stesso e non nell’essere ricambiato. 

Altrimenti, l’obbligazione della restituzione prenderebbe il sopravvento restaurando il regime economico del do ut des. Non si dona per ricevere qualcosa come non si perdona perché si è ricevuto il pentimento di chi ci ha offesi. Nel donare, piuttosto, si manifesta la forma più essenziale dell’amore. Nel dono avvertiamo la necessità di farci presenti. «Ecco per te un “presente”», si dice nella nostra lingua. Donare significa infatti farsi presenti all’altro. «Basta un pensiero», si dice anche. Basta un niente, insomma, per fare un dono. In questo senso ciò che si dona è sempre surclassato dall’atto stesso del donare. L’essenza del dono non è tanto in ciò che si dona – la cosa – ma nel doppio segno che ogni dono costituisce: segno della mia volontà di essere presente per l’altro e segno della presenza dell’altro in me. 

Per questa ragione, Lacan sottolineava che il vero dono è quello della propria mancanza, è donare quello che non si ha. Nell’amore non si dona, infatti, qualcosa, ma si dona se stessi, si dona la nostra mancanza, quella mancanza che l’altro ha saputo scavare in noi stessi. Dire infatti a qualcuno/a «mi sei mancato/a» significa donare la nostra mancanza: tu non eri presente, non eri con me, non eri vicino a me, eri in un’altra città, lontano, distante, ma la mancanza di te che ho avvertito ti ha fatto essere presente, ti ha reso presente nell’assenza. In questo senso il dono non è mai qualcosa, ma un atto che trasmette il segno della mancanza come segno dell’amore. Ti dono, dunque, non quello che ho, ma quello che non ho, quello che, appunto, mi manca di te, quella mancanza che la tua distanza ha aperto in me. Per questo ogni volta che c’è dono il donatore non reclama in nessun modo una contropartita. E per questo l’amore è l’emblema della donazione: l’amante non ama per essere amato, ma per amare. Non c’è alcuna attesa di essere rimborsato. L’amore non si realizza nell’essere amati ma solo nell’amare. Allo stesso modo si tratta sempre di donare ciò che non si può possedere. Per esempio il tempo. Ecco un dono che sarebbe davvero segno dell’amore nel nostro tempo. Donare non qualcosa, ma il tempo che ci manca... Ogni vero dono implica una dissimmetria, una non prossimità, una lontananza. Quando c’è troppa familiarità i doni non sono più sorprese ma abitudini, rituali spesso anonimi. 

Il dono non diviene più il segno della mancanza, ma viene assorbito dal regime del calcolo e dell’utile. In questi casi prevale uno scambio commerciale: bisogna dare perché si è ricevuto e viceversa. Il rituale assoggetta così l’imprevedibile di cui invece il dono dovrebbe nutrirsi. Per questa ragione il dono ha nella cultura giudaico-cristiana la forma della grazia insondabile. È il dono dell’incontro imprevisto, della possibilità inaudita, dell’occasione che non attendevamo e che eccede ogni previsione ed ogni calcolo. Come quando si dice: «è stata una grazia averti incontrata, un vero dono».


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