Che bello il Monastero di Cellole! È la prima espressione che ti vien su spontanea trovandoti in quest’angolo di Toscana benedetto da Dio. Da dieci anni i monaci di Bose sono sciamati anche qui. E sin dall’inizio di questa preziosa presenza fratel Emiliano Biadene è il responsabile della comunità.
Caro Emiliano, cominciamo dal fondo, in questo periodo ne son successe di cose nel “mondo Bose”, sicché oggi la Comunità di Cellole è composta da uomini e donne monaci professi provenienti dal Monastero di Bose, come germinazione dello stesso carisma e della stessa vita e vive secondo la Regola di Bose. Ti posso chiedere come hai vissuto questi passaggi, qual è la caratteristica della vostra comunità e i rapporti con la “casa madre” e con la nuova fraternità cristiana di Casa della Madia?
Fin dai suoi inizi, la vita monastica a Bose ha voluto caratterizzarsi per una reale fraternità e per una condivisione radicale della vita quotidiana. Condivisione significa mettere certamente in comune i beni materiali, ma ben di più il proprio pensare, il proprio desiderare e sperare. Questo è possibile solo all’interno di un tentativo autentico di vivere la comunione nel rispetto delle differenze che segnano ciascuno dei membri, non tralasciando il fatto che certe differenze emergono prima di tutto in se stessi, con il crescere e il maturare.
Condivisione autentica significa giocare tutto se stessi. Questa dinamica è segnata da una ambivalenza: offrendo se stesso ciascuno offre sia le proprie forze sia le debolezze, sia i momenti di maturazione che i momenti di disorientamento, sia le aperture che le rigidità personali. Sempre la comunione è a rischio di divenire omologazione e sempre la differenza è a rischio di divisione.
Certamente le fragilità e le brutture fanno sempre molto rumore, fuori di sé e dentro di sé. Questo rumore si chiama sofferenza e non si deve avere paura di chiamarla per nome, ma nemmeno si deve pensare che la propria sofferenza abbia più legittimità di quella di chi vive accanto a te nell’immediata vicinanza o in modo più lontano.
Questa è la storia di ogni persona e anche di una comunità. Questa è la nostra storia passata e recente. Affermazione che dico con trasparenza nella consapevolezza che le fragilità non cancellano le forze e che le brutture non cancellano le bellezze.
L’odierna costituzione di quello che tu chiami “mondo Bose” è certamente molto variegata ed è semplicemente il frutto della bellezza e delle fragilità della nostra storia comune. Sempre siamo il frutto di una storia che ci precede. A noi la responsabilità di scegliere se porre l’accento su ciò che ci accomuna o ciò che ci differenzia. Cellole non nasce da altra cosa che non sia il desiderio di perseguire instancabilmente la comunione, nonostante le differenze e le incomprensioni che si sono venute a creare.
Gli strumenti di questo cammino nuovo di comunione sono quelli propri della vita cristiana: legame con il Signore e legame con i fratelli, preghiera e fraternità, vicinanza al Signore e ai fratelli e alle sorelle. Per tenere viva una relazione, l’unico strumento è la frequentazione, la relazione, la collaborazione, l’interesse reciproco e le visite reciproche.
È attraverso questa dinamica che mi piace descrivere i rapporti della nostra Comunità monastica a Cellole con il
Monastero di Bose e con la fraternità cristiana della Casa della Madia. Rapporti di apertura e sostegno.
Non ci può essere in questa multiforme diaspora bosina un elemento di fertilità, modi di sentire il comune carisma in maniera diversa, nel riconoscimento della fecondità delle origini?
Sì. Sono parole che condivido. È la speranza che portiamo nel cuore: che possa arrivare il giorno in cui si riconosca in modo unanime che la differenza venutasi a creare non è lesione alla comunione ma un elemento di ricchezza… che la distanza geografica non ha leso l’unità della stessa storia, della stessa formazione e dello stesso stile di vita… che il pluralismo emerso è segno della multiforme grazia dello stesso Spirito.
E poi qual è, a tuo giudizio, ciò che ancora è forte e vitale di quella intuizione spirituale, che portò Enzo Bianchi e i primi alla vecchia cascina di cui fece un magistrale ritratto Ernesto Balducci?
Padre Ernesto Balducci, con la sua capacità visionaria, dopo la sua visita a Bose alla fine degli anni Sessanta parlava di un “gruppo di cristiani” che spinti da una “fede paradossale”, “preparano il cristianesimo del domani”.
La fede cristiana autentica non può non essere paradossale, perché paradossale è stata la vita di Cristo che ha vissuto un amore più forte della morte, una capacità di sperare l’insperabile e una fiducia radicale nell’umanità, che affidabile non è. Fintanto che rimarremo incollati a Cristo piuttosto che alle strutture, sapremo vivere della sua stessa forza.
La forza e il coraggio di
Enzo fu quella di ancorare la vita monastica alla vita di Cristo come è narrata nei vangeli piuttosto che alle sovrastrutture che la vita monastica si è data nel corso dei secoli. E padre
Balducci lo aveva intuito bene parlando di un “gruppo di cristiani” e non parlando di “religiosi”. Il monachesimo vissuto a Bose ha voluto rimanere fedele alla sua radice battesimale, evitando ogni linguaggio e percorso di consacrazione speciale; ha voluto rimanere radicalmente laico; ha voluto appartenere al popolo di Dio presente in una chiesa locale in quanto “battezzati in Cristo” e non in quanto religiosi o consacrati: una presenza marginale in seno alla chiesa, una presenza di umile servizio attraverso la semplicità di chi nel battesimo si è impegnato a vivere l’Evangelo.
Se poi questo aspetto è una preparazione al cristianesimo di domani… lo potrà dire solo la storia.
Quanti siete oggi a Cellole, come si articola la vostra giornata, quali le iniziative a cui date vita nel corso dell’anno e qual è il vostro modo di essere parte di un territorio e delle sue comunità cristiane?
Attualmente la nostra comunità monastica è composta da cinque membri: io fratel Emiliano, fratel Valerio, fratel Dario, fratel
Adalberto e sorella Natalia. Fratel Valerio è il fratello presbitero presente tra noi, che garantisce l’eucaristia domenicale e i servizi del suo ministero per i membri della comunità e per gli ospiti.
La nostra vita è ritmata dai tre appuntamenti della preghiera monastica che apre la giornata alle 6, la sigilla alle 12,30 e la chiude alle 18,30. Le diverse ore della giornata sono segnate dal lavoro manuale (orto, marmellate, produzione di olio); dai vari servizi quotidiani (pulizie dei locali, la cucina, la spesa, l’amministrazione del monastero); dallo studio (abbiamo una collaborazione con la Casa Editrice il Portico di Bologna e fratel
Adalberto ha un impegno di ricerca negli studi ecumenici); dall’accoglienza e ascolto degli ospiti che passano e sostano da noi. Tutte queste attività per noi sono necessarie per il nostro sostentamento, perché non viviamo di offerte. Alle ore diurne fanno da controcanto le ore notturne: dopo cena ci ritiriamo nella nostra propria cella per vivere il silenzio, la solitudine, la preghiera personale, la lectio divina sul vangelo, il riposo…
Possiamo dire di essere ben inseriti nella chiesa locale di Volterra e in generale nella chiesa della Toscana: sono frequenti le lectio divine e le riflessioni che offriamo in monastero o nelle parrocchie limitrofe; le occasioni di incontro con i presbiteri e i religiosi del territorio; i confronti su temi inerenti alla fede cristiana e al nostro vivere nella compagnia degli uomini e delle donne del nostro tempo. Data la bellezza della nostra Pieve romanica di Cellole, non mancano occasioni di concerti musicali.
Penso che sia inutile girare intorno alla crisi del cristianesimo (anche se in un certo senso il cristianesimo in crisi lo è stato sempre) in tutte le sue forme storiche in gran parte dell’Occidente e soprattutto in Europa. Se si legge Esperienze pastorali di don Milani si vede come i germi di questa crisi e deformazione della pratica religiosa erano già ben presenti nei lontani anni cinquanta. Dentro questo silenzio su Dio (e spesso quando se ne parla è anche peggio!) quale può essere il sapore della parola monastica, come può essa incontrare la terra, le sue ferite e le sue speranze, fuori dalla mondanità?
La parola “sapore” che tu usi è molto suggestiva. Il monaco è chiamato a vivere “altrimenti”, a vivere un “altro” stile di vita, a vivere una marginalità di vita che porta con sé una vera carica di “controcultura”. Questo è il suo sapore. Così è stato agli albori del monachesimo antico e così è ancora oggi ogni qual volta i monaci aderiscono in modo autentico alla loro vocazione specifica.
Il monachesimo, nelle sue espressioni più genuine, è sempre stato una scelta di controcultura, di volontaria e libera marginalità: non nel senso di un’opzione elitaria o di un consesso esclusivo di puri, ma nel suo voler cercare il senso di ciò che si vive; nel desiderare di tradurre in scelte quotidiane le convinzioni più profonde che lo animano; nel non lasciarsi condizionare dai comportamenti della maggioranza quando questi si discostassero dalle esigenze evangeliche.
Oggi, in una società in cui dimensioni come il silenzio, l’interiorità, la condivisione, l’obbedienza a istanze etiche, la ricerca della pace e della solidarietà paiono ignorate se non addirittura irrise, la semplice vita quotidiana di poche persone può destare nei cuori di chi le incontra, una spontanea “simpatia”: può richiamare alla memoria desideri sopiti e aneliti a una vita più umana e pacata.
Ecco come il monachesimo, nel suo semplice restare fedele nel poco, fa sorgere una nostalgia profonda per i gesti quotidiani, il ricordo di come a volte basta uno sguardo, un tocco delicato, una parola sommessa, uno sguardo di accoglienza, un pasto preparato con cura … per farci riscoprire la grandezza delle nostre vite, l’umile bellezza di vivere non solo gli uni accanto agli altri, ma gli uni con gli altri, solidali nel condividere la comune umanità. In questa sua differenza la vita monastica può divenire gesto e parola di incontro, con gli altri e con la terra.
In Cittadella l’anno scorso e quest’anno ci siamo confrontati con il pensiero e l’opera di Pier Paolo Pasolini e di don Lorenzo Milani. Entrambi, in diverso modo, avevano intuito il mutamento antropologico che avrebbe bruciato le radici religiose, politiche ed etiche europee, che le avrebbe consumate. In questo contesto quale può essere la funzione, la vocazione e la provocazione della minoranza cristiana? Cosa è essenziale della fede cristiana al di là di tutto ciò che finisce per nasconderla?
Per esprimere ciò che reputo essere l’essenziale della vita cristiana mi faccio aiutare da una parola che l’apostolo Paolo indirizzò ai cristiani di Filippi: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5). Una cosa sola è necessaria: tentare di vivere la vita come l’ha vissuta Gesù. Le forme possono essere molte e molto diverse, ma la direzione è questa sola.
Solo in questa adesione di pelle a pelle con Cristo è possibile liberare quelle forze latenti che possono rifulgere un po’ della luce di Cristo in mezzo agli altri. Questa era la forza dei primi cristiani, che così venivano descritti dalle parole dell’antico scritto “A Diogneto”, risalente alla metà del II secolo:
«I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. […] Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. […] Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati […]».
Questa dovrebbe essere la vita cristiana, a immagine di quella vissuta da Gesù: vita liberata dagli idoli alienanti, ma liberata anche dalle comprensioni svianti delle strutture religiose, vita che porta il segno della speranza e della bellezza.
Le nostre società sono e saranno sempre più multietniche e multiculturali e multireligiose. La vocazione al dialogo e il richiamo all’unità che sta alle radici di Bose dovrebbe avere nuovo vigore. Ma quali possono essere le forme del suo esercizio?
Il dialogo e l’unità possono nascere sempre e solo in un contesto di incontro. È solo l’incontro con l’altro, guardarlo occhio contro occhio, salutarlo toccandogli la mano, ascoltare i suoni della sua voce e l’articolarsi del suo parlare che si può innescare un cambiamento duraturo nella vita di una persona. E il dialogo è per essenza la disponibilità a lasciarsi cambiare. Solo l’incontro con gli altri ci apre a quella verità fondamentale che siamo tutti fratelli e sorelle in umanità, abitati tutti da speranze, gioie, sofferenze, ricerca di felicità e pace.
È l’incontro dell’altro nella vita quotidiana che rende “comprensibili” usi e costumi apparentemente così diversi. È l’incontro che è soglia alla possibile fiducia, data e ricevuta, perché è solo nel concreto di esistenze normalissime che si può accendere un rimando forte alla fede nel Dio di Gesù Cristo, la roccia su cui edificare la propria esistenza e la comunità dei credenti.
C’è, secondo te, uno specifico monastico, in che consiste e come può aiutare il dialogo ecumenico e interreligioso?
Non è il monachesimo in astratto a svolgere questo possibile ruolo di aiuto al dialogo tra le chiese cristiane e tra le religioni diverse, bensì precise comunità monastiche, uomini e donne che hanno messo in gioco la loro vita e che cercano di vivere con coerenza e radicalità la sequela cristiana in uno sforzo quotidiano di accoglienza reciproca. Solo questo sforzo reale, quotidiano, nascosto e perseverante di purificazione del proprio cuore e di accoglienza reciproca può divenire terreno fecondo in cui potranno germogliare nuovi frutti di dialogo e comprensione capaci di dilatarsi a orizzonti più ampi.
Una domanda conclusiva. Quando e perché Emiliano Biadene ha deciso di diventare monaco? Perché questa forma di sequela? Perché monaco di Bose? E come vivi oggi la tua vocazione? Non è una curiosità frivola, è che i percorsi dei singoli e le loro motivazioni spiegano e svelano più delle teorie il senso dell’essere oggi alla sequela del Signore.
È sempre rischioso parlare di sé e delle proprie scelte. Sono più di vent’anni che sono monaco e tento di vivere questa vita. Certamente le motivazioni che mi hanno portato allora a iniziare questa strada non sono le stesse che mi confermano in questa fedeltà. Le situazioni mutano, le vicende ti cambiano e le proprie convinzioni evolvono e si purificano con il tempo. Per ciascuno, qualsiasi scelta faccia, la fedeltà è frutto di capacità di perseveranza e di creatività, capacità di saldezza e di cambiamento. È la dinamica della maturazione che ti chiede di legare insieme questi aspetti che sembrano opposti dal punto di vista logico.
Come in tutte le storie, ciò che a un certo punto prende forma di definitività nasce da incontri significativi. Ho conosciuto il
Monastero di Bose quando ero diciottenne e in quel primo soggiorno ho incontrato alcuni fratelli che nel tempo ho voluto rivedere. Se da un lato è stata la sete di ricerca personale che mi portò in quel luogo, dall’altro non posso non riconoscere il ruolo giocato dal supporto delle persone che mi stavano vicino.
In realtà fu un vero e proprio fascio di motivazioni che mi portò a chiedere di iniziare un percorso in quel monastero: quello stile di vita non solo parlava “a me” e mi dava a pensare, ma soprattutto parlava “di me”. E questo coinvolgimento personale non è cosa banale: è poter dire “questa è casa mia”. Affermazione che non avrei potuto dire nelle altre comunità monastiche che avevo conosciuto, né nelle altre realtà ecclesiali che mi avevano visto coinvolto.
Ora, nel tempo, due rimangono gli elementi fondamentali che ancora danno senso alla mia vita monastica: la centralità della Parola di Dio e la qualità delle relazioni fraterne. Tutto questo si declina in una dinamica di ricerca continua, di ricominciamento continuo e non certamente in una conquista o un possesso. Una ricerca che non ha come orizzonte una convenienza o un interesse, ma un volto: il volto del fratello e il volto di Cristo.