Siamo ciò che mangiamo: recensione di Spezzare il pane, il libro di Enzo Bianchi
Civiltà e buone maniere vanno di pari passo. Non si tratta, come potrebbe sembrare, di un'asserzione ideologica, ma del risultato di diversi studi di storia sociale e culturale – ricordiamo, per tutti, il saggio di Norbert Elias, La civiltà delle buone maniere (il Mulino 2009). Luigi XIV, detto Re Sole, inventò addirittura un sistema di governo basato su un complicatissimo e dettagliato uso delle buone maniere con l'obiettivo di controllare gli aristocratici ed evitare che ostacolassero i suoi progetti assolutistici.
Col passare del tempo, le regole dell'educazione sono diventate sempre più minuziose e fini a se stesse, finendo per essere puri segni di appartenenza a una classe sociale piuttosto che a un'altra. L'avversione popolare nei confronti di atteggiamenti pretestuosamente educati fino alla leziosità, fu trasformata rapidamente in odio dalla fame e dall'ingiustizia, giocando un ruolo significativo nel divampare delle rivoluzioni che hanno abbattuto le aristocrazie in Francia e in Russia. Oggi tendiamo a credere che ognuno possa comportarsi come vuole, entro i limiti che rendono possibile la convivenza, soprattutto in cose come lo stare a tavola, perché non pensiamo che sia corretto giudicare in base alle apparenze. Il che è giusto, ma non del tutto vero. Infatti, non è giusto valutare qualcuno per come si comporta a tavola, ma è anche vero che il modo in cui si comporta a tavola dice molto di una persona. Da questa considerazione prende spunto l'ultimo saggio di Enzo Bianchi, Spezzare il pane: Gesù a tavola e la sapienza del vivere (Einaudi 2015). Come e cosa mangiamo dice molto di noi, sia singoli che società o comunità, perché mangiare è un'azione naturale e culturale insieme, sintomatica della relazione in cui ci poniamo rispetto alle cose: è una relazione di uso o di rapina? Di rispetto o di violenza? D'ingordigia o di sobrietà? Perciò, afferma Enzo Bianchi, parafrasando Feuerbach potremmo dire che “siamo ciò che mangiamo e come lo mangiamo”. Il modo in cui ci avviciniamo al cibo, come lo portiamo alla bocca, come ci affrettiamo a servirci della porzione migliore, o, al contrario, di quella più scarsa per lasciare agli altri la scelta migliore, rivela molto di noi, del tipo di persone che siamo, della situazione che stiamo vivendo e di come la intendiamo.
In questo libro ritroviamo molti dei temi più cari e più congeniali a Enzo Bianchi: l'esegesi dei testi sacri cristiani, l'attualizzazione del loro messaggio, la passione educativa, la nostalgia per quanto c'era di buono nella civiltà contadina (anche se non tutto era buono, come lui stesso ha ammesso più volte in diverse occasioni). Nella prima parte, dedicata alla sapienza del vivere, l'autore rievoca un mondo in cui il rapporto con il cibo, la sua abbondanza e la sua scarsità – questa, soprattutto – scandiva i ritmi del tempo suggerendo un rapporto con la natura e la terra fatto di fatica, ma anche di rispetto e di solidarietà; i pasti più ricchi, ad esempio, segnalavano che era giorno di festa, mentre ai giorni ordinari si riservavano quelli più sobri o più poveri, a seconda delle condizioni economiche della famiglia. Anche nelle case più umili come la sua, ricorda Bianchi, non mancavano mai il pane, trattato con un rispetto tale da essere severamente redarguiti anche soltanto per averlo messo in tavola rovesciato, né la brocca di vino, motivo di allegria ma anche di calorie più economiche della carne. Da molte osservazioni si comprende che la nostalgia di chi scrive porta a una certa idealizzazione del mondo agricolo, semplice se non povero e ormai scomparso, della sua infanzia. Il ruolo del cibo, però, la sua valenza simbolica e il suo determinare i ritmi della vita, valgono ancora, anche se oggi il tempo scandito dal cibo è quello del panino mangiato in piedi e in fretta, dell’insalata leggera e dietetica che ti permette di mangiare e riprendere a lavorare in mezz’ora. Il cibo segna anche oggi il tempo, ma è un tempo del tutto diverso.
Naturalmente anche il rapporto con la terra, l'acqua e gli animali dipende dal cibo. Un legame la cui forza originaria Enzo Bianchi spiega ricordando che nella Genesi il primo umano è chiamato 'adam', cioè terrestre – e non Adamo né tantomeno uomo – perché da 'adamah', la terra, è stato tratto. L''adam', sia detto per inciso, comprenderà la sua specificità sessuale e chiamerà se stesso uomo, 'ish', soltanto quando vedrà di fronte a sé qualcuno di uguale eppure diverso da lui, la donna, 'issha'. Terrestre, dunque abitante di un pianeta di cui è parte e di cui, soprattutto, gli è affidata la responsabilità, dovrà prendersi cura di lui e di ogni altro essere vivente, piante e animali, considerando la terra “un organismo di co-creature che ha il suo riferimento primario negli esseri umani quali soggetti di ogni responsabilità etica”. Ecco perché, prosegue, dovremo rispondere non solo del nostro comportamento gli uni verso gli altri, ma anche di ogni sofferenza inflitta agli animali e all'ambiente. In sintonia con l'enciclica Laudato si', della quale, in Spezzare il pane, riecheggiano molte considerazioni, Enzo Bianchi ritiene che l'ecologia sia un problema etico prima ancora che politico e, per chi crede, anche religioso. Infatti, sostiene, non si può ubbidire al comando di amare Dio con tutte le forze e il prossimo come se stessi senza aggiungere un altro comando, inespresso ma implicito, che egli propone di aggiungere quale preambolo: “ama la terra come te stesso”. Che ne siamo o meno consapevoli, è stato detto, facciamo parte del cosmo intero al punto che “ogni volta che ci sentiamo spinti ad alzare lo sguardo verso il firmamento e a meditare sulla maestosa bellezza dell'universo, in realtà non siamo altro che l'universo che medita su se stesso” (Brian Swimme, Mary E.Tucher, Il viaggio dell'universo, Fazi Editore 2013).
In tutta la Bibbia si parla di cibo e banchetti, di vivande succulente e abbondanti, qualche volta, più raramente, di erbe amare e di cibi indigesti. Non solo perché la parola di Dio è cibo, ma anche perché la mensa, la tavola attorno a cui ci si raccoglie per nutrirsi e per trasformare la necessità di mangiare in una occasione di amicizia e comunione, rappresenta la gioia dello stare con Dio, situazione necessaria per l'essere umano – come lo è il pane – e sorgente di gioia e allegria, come il vino. Bianchi si sofferma ripetutamente a sottolineare questa duplice simbologia: pane/necessità, vino/gioia. E nelle sue dettagliate descrizioni dei cibi e del loro profumo, delle situazioni amicali e fraterne in cui anche le vivande più semplici sono motivo di festa e segni dell'amore con cui sono state preparate e servite, si riconosce il piacere di chi sa apprezzare il cibo, gustandolo con sobrietà e gratitudine, come frutto della terra e del lavoro dell'uomo, sotto lo sguardo buono di un Dio amante della vita (Sap 11,26). A ragione, quindi, il priore di Bose, che certo non teme la durezza delle parole, chiama barbarie il fatto che ogni famiglia italiana getti via, in media, 31 kg di cibo l'anno mentre solo poco tempo fa, e forse per qualcuno ancora oggi, il divieto di gettare via il pane aveva la forza di un tabù. O quando dice che la “spettacolarizzazione del cibo” è “una nuova forma di pornografia”.
Nella seconda parte del libro, Enzo Bianchi rilegge la vita di Gesù di Nazareth attraverso il suo rapporto con il cibo e gli incontri a tavola con amici e avversari e sottolinea come ne abbia “fatto un paradigma di aspetti decisivi della sua predicazione”. Contro l'ipocrisia e la durezza di chi ha usato anche il cibo per alzare barriere, creare divieti e separazioni, Gesù oppone la sua regola di libertà e verità, mettendo di nuovo al centro quello che già diceva il profeta Isaia:
È forse questo il digiuno che desidero, un giorno di mortificazione? Piegare come un giunco il proprio capo, usare sacco e cenere per letto, forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore? Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i gravami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo di oppressione? Non consiste forse il digiuno nello spezzare il pane con l'affamato, nell'accogliere in casa i miseri, senza tetto, nel vestire gli ignudi, senza distogliere gli occhi dai tuoi? (Is 58,5-7)
Gesù ha affidato al pane e al vino, simboli semplici e buoni, il ricordo di sé. È possibile, allora, si chiede Enzo Bianchi, escludere dal pasto comunitario qualcuno? Ponendo questa domanda a se stesso e ai suoi lettori, parla dei divorziati, ma la questione va estesa ben oltre il problema dei divorziati. Che alla mensa di Gesù i più attesi, i più benvenuti, quelli ai quali si riservano maggiori premura e riguardo siano i 'non-santi', i feriti, i sofferenti, gli affaticati e provati dalla vita – in queste categorie credo rientriamo tutti – purché lì, a quel banchetto, vadano sperando nell'aiuto di Dio e nel suo amore, lo afferma il Papa, lo ribadisce Bianchi, ne sono fermamente convinti moltissimi credenti laici e non. Ad ogni modo, Gesù la pensa così. Troppo spesso la “tavola eucaristica” è stata usata per minacciare ed escludere, dimenticando che per il Nazareno era il luogo più adatto ad accogliere i 'peccatori'. E forse non è inutile ricordare che cosa Gesù considera davvero peccato: l'ipocrisia, la falsità, l'indifferenza per gli altri, lo sfruttamento, soprattutto dei più deboli e indifesi. L'eucaristia, dice Bianchi in linea con papa Francesco, “non è un premio per i perfetti ma un alimento per i deboli”, e mi pare bello che si cominci a parlare di debolezza anziché di peccato.
Il libro: Enzo Bianchi, Spezzare il pane: Gesù a tavola e la sapienza del vivere, Einaudi 2015, pp. 120, € 17,00