Gabriella Caramore "La fratellanza di Enzo Bianchi"
Lo sappiamo. Ci sono parole diventate afone, come svuotate. Senza una accurata contestualizzazione del loro significato, senza una ridefinizione del loro uso e della loro portata non ne avvertiamo più né il suono né il senso. Spesso sono parole di cui ha abusato il linguaggio religioso, fino a renderle stanche nell’espressione ed esauste nella ricezione. Tra queste c’è anche “fraternità”, lemma dentro il quale coabita una congerie di relazioni e di sentimenti a cui il nostro mondo, per la gran parte, resta sordo e indifferente, nonostante da molte parti si affannino numerosi i tentativi di rianimarlo.
Uno dei meriti del libro di Enzo Bianchi, Fraternità (Einaudi 2024, con una bella pagina introduttiva di Papa Francesco), è proprio quello di provare a fare chiarezza nell’ insieme di significati che “fraternità” contempla e nella diversità dei contesti a cui questa parola si è dovuta adattare: quello biologico e antropologico, quello biblico e scritturistico, quello delle comunità religiose in cui ha trovato un alveo rassicurante ma anche soffocante, quello, più in generale, della socialità, che oggi si trova ad essere la cartina di tornasole attraverso cui viene vagliata la necessità o il dramma della fraternità.
Enzo Bianchi parla di una “crisi” della fraternità e della sororità nel nostro tempo. E, proprio per questo, c’è una urgenza di “ripensare la fraternità”, come “fondamento e ragione per una necessaria fiducia nella bontà del vivere insieme; come solidarietà tra membri di una convivenza ai quali è necessario riscoprire il bene comune; come incessante ricostruzione di ponti” là dove le vie attraverso le quali gli esseri si confrontano e costruiscono insieme sono drammaticamente interrotte. Ma per ripensare tutto questo occorre andare all’origine della complessità dell’essere fratelli e sorelle, uscendo innanzitutto dallo stereotipo per cui fratellanza e sorellanza costituirebbero un idilliaco microcosmo di serenità e armonia.
Essere fratelli e sorelle è sì, innanzitutto, un dato biologico che sta a indicare l’essere generati da uno stesso seme e da uno stesso grembo. Ma questo non vuol dire automaticamente il dipanarsi solidale di una prossimità. Certo, fratelli e sorelle possono condividere un caldo humus di memorie, di giocosi intrattenimenti, di più maturi interessi. Ma può accadere invece che divergano ferocemente fino a scagliarsi l’uno contro l’altro nel contendersi il bene assoluto che ciascuno ritiene gli sia stato sottratto. Questo è vero da sempre nei singoli nuclei familiari, e su più vasta scala nel macrocosmo degli appartenenti alla cosiddetta famiglia umana, la cui storia è costellata di controversie, di lotte, di selvagge incomprensioni e inimicizie, come si può constatare nelle piccole comunità delle famiglie e nelle comunità più larghe delle etnie, delle nazioni, degli Stati. Il dato biologico della consanguineità si fa da parte, per così dire, per lasciare spazio a una consanguineità simbolica, che si allarga ben oltre la portata naturale. La fraternità si estende dunque dalla famiglia nucleare a quella culturale e sociale. E anche religiosa.
La religione inventa, per così dire, un nuovo nucleo identitario, che trova sostegno e radicamento con nell’idea di Dio, padre – e talvolta madre – di tutti gli esseri viventi. “Con il sorgere dei monoteismi si è manifestata la convinzione che c’è un solo Dio, un solo Creatore, e di conseguenza tutti gli uomini sono fratelli … C’è una unità del genere umano che deve essere riconosciuta come fraternità”. Bianchi cita il profeta Malachia: “Non è forse uno solo il Padre di tutti noi? Non ci ha creati un unico Dio?” (Ml 2,10). La Bibbia ebraica dà, in un certo senso, per scontata la paternità/maternità di Dio, descrivendola per lo più in forma simbolica o metaforica. Ma è prodiga di racconti che narrano le difficoltà dell’essere fratelli e sorelle: gelosie, invidie, soprusi, aggressività – il superamento dei quali esige un lungo faticoso lavoro nelle relazioni e nella coscienza.
Nessun idillio, nessun sentimentalismo zuccheroso nell’essere fratelli e sorelle. Piuttosto, la travagliata necessità di costruire convivenza, di riparare ferite, di edificare la pace.
L’altra linea di tensione che Enzo Bianchi mette subito in evidenza è quella tra un’idea di fraternità riservata soprattutto alla comunità del popolo di Israele, chiamato il “figlio primogenito” (Es 4,22) e una estesa a tutti i popoli della terra. “L’alleanza con Israele è destinata a essere alleanza universale”. Questo è ribadito in molti passi biblici, ma al fondo c’è una contraddizione che resta, e che forse è il demone mai abbastanza messo in evidenza di ogni tradizione religiosa.
Anche, e con una deriva certo non meno radicale, pur se diversamente espressa, nel cristianesimo.
Enzo Bianchi osserva che se da un lato Gesù, in quanto ebreo, ha ereditato dalla tradizione del suo popolo una considerazione della fraternità come “legame e fondamento del popolo di Dio”, dall’altro accentua questa condizione di fratellanza tra lui stesso e i suoi discepoli, facendone soprattutto una questione di sodalizio nella fede, nei comportamenti, nelle relazioni, scartando in maniera radicale dai legami di sangue e di parentela, ma creando un vincolo di affinità elettive tra il “rabbi” e i suoi discepoli. È così che si costituisce un nucleo di “comunità” che dovrebbe rimanere ben saldo, anche perché è attraverso di esso che si può fare fraternità con il mondo, e in particolare con i piccoli, i deboli, i sofferenti, i diseredati. “Voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8) è dunque un vincolo che la piccola comunità dei discepoli stabilisce con il Padre attraverso il maestro Gesù, allargandosi poi a raggiera verso gli ultimi della terra.
Enzo Bianchi, abituato a verificare sui testi le fonti del pensiero teologico, osserva poi qualcosa su cui solitamente si sorvola. E cioè che, soprattutto nella letteratura apostolica, vi è un uso molto frequente del termine adelphós inteso non come fratello di sangue, ma come fratello spirituale.
Addirittura nella Prima lettera di Pietro la chiesa stessa viene chiamata adelphótes, cioè “fraternità”. “La chiesa è una comunità di fratelli in cui si vive la philadelphìa, l’amore fraterno”.
Questo stando ai testi. E alle intenzioni. Ma la chiesa, nella sua storia, ha più e più volte smentito questo sogno di fraternità, intessendolo di divisioni, separazioni, lotte, così come la storia dei popoli e dei singoli individui ha sempre contrastato e avversato e combattuto quell’idea di communitas che sola può rendere possibile l’intera società umana. Ma questa è la vera grande contraddizione. Oggi più che mai è visibile e palpabile come far vivere e prosperare la vita comune e pacifica di popoli e nazioni e di singoli agglomerati umani sia la cosa più necessaria e insieme più difficile da realizzare. Ma non c’è soluzione. Se non provare e provare e provare ancora, con l’intelligenza e con il cuore. Con la disperazione e con la speranza.
Le comunità monastiche, piccole e grandi, sono un buon banco di prova della tenuta – positiva o manchevole – della “fraternità”. Enzo Bianchi, che nel 1965 ha fondato la Comunità di Bose, a Magnano, tra Biella e Ivrea, rimanendone priore fino al 2017, ha potuto sperimentare – fino alla lacerazione del 2020 – l’entusiasmo e la fiducia degli inizi e le difficoltà insormontabili che sotterraneamente si insinuano nella quotidianità di ciascuno dei membri della “famiglia”. Come in ogni famiglia, piccola o grande, gli ostacoli sono, di volta in volta, l’“accettazione incondizionata del fratello e della sorella” al loro apparire nella comunità; l’“assunzione di responsabilità gli uni verso gli altri” che cede volentieri il passo a una negligenza nei confronti dell’altro; il sentimento di una “solidarietà, cioè della cura e della custodia reciproca” che implica, mi pare sottinteso, la fedeltà a un’idea comune di fratellanza e di condivisione. Infine, la ferita maggiore consiste nel “tradimento”, che può insinuarsi ovunque, covato da pensieri molesti, dal consumarsi di una solidarietà morale e ideale, dal deteriorarsi di un sentimento di vicinanza e di prossimità a chi è nel bisogno e nella debolezza. È così, nel complicato magma del cuore umano, che nascono le inimicizie nei piccoli e grandi nuclei della famiglia umana.
Viene anche da chiedersi fino a che punto le parole delle grandi tradizioni religiose siano in grado, oggi (ma forse anche ieri) di arginare le derive che stanno assediando la nostra idea di communitas. Trasversalmente, mi sembra che se lo chieda anche Enzo Bianchi, quando affronta, quasi a conclusione dei suoi pensieri, l’enciclica di Papa Francesco dedicata al tema della fraternità e dell’amicizia sociale: Fratres omnes, che riprende nell’intestazione l’appellativo usato da Francesco d’Assisi nel rivolgersi ai fratelli e alle sorelle per dare loro delle “ammonizioni”. È una enciclica bella e importante, come sottolinea Bianchi, perché coglie esattamente, entrando nei dettagli della convulsa e contorta società contemporanea, le fonti della disuguaglianza, della rottura di ogni solidarietà, delle inimicizie, dell’odio e della violenza. E mostra come l’unico riparo alla bestialità non possa essere altro che ricucire gli strappi, provare a riparare le ingiustizie, rianimare quel senso della communitas che così raramente si affaccia sulle soglie delle case e delle nazioni.
Qui viene citato Seneca:
“La terra è un solo paese
Siamo onde dello stesso mare
Foglie dello stesso albero
Fiori dello stesso giardino”.
Ma all’intelligenza di Enzo Bianchi non sfugge l’ambiguità insita anche nella buona volontà di un papa come Bergoglio, di cui non si può mettere in dubbio la sollecitudine nei confronti dei poveri e dei derelitti di questo mondo. Tuttavia, quando cita le parole di Giovanni Paolo II che dice “Se non esiste una volontà trascendente obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua prima identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini”, ecco che il principio di uguaglianza si ritrae per lasciare il posto a un primato morale dei religiosi sui non religiosi. Letto tra le righe: dei cattolici sui non cattolici. Basta guardare alla storia della cristianità, per non dire di altre tradizioni, per inorridire degli sfregi alla fraternità che sono stati compiuti. “Io non ho mai amato – sottolinea Enzo Bianchi – questa visione dominante degli addetti al dialogo interreligioso che vedono la chiesa cattolica al centro e in cerchi concentrici sempre più lontani” prima gli altri cristiani, poi le altre religioni, e infine il vasto popolo degli areligiosi.
Così, in questa critica alla autoreferenzialità della chiesa cattolica Enzo Bianchi – Fratel Enzo – mi sembra di vedere uno dei volti della enorme difficoltà a costruire insieme la fraternitas.
E chiude con le domande di Immanuel Kant:
“Ogni interesse della mia ragione si concentra nelle tre domande seguenti:
Che cosa posso sapere?
Che cosa devo fare?
Che cosa posso sperare?”.
Domande che rimangono aperte oggi più che mai.
Fonte: DoppioZero