Una lettura del nuovo libro di Corrado Augias
Qualche tempo fa, in un momento nostalgico, sono incappata nei video di un cartone animato molto popolare negli anni ‘80, “Candy Candy”, tratto dall’omonimo manga giapponese ora disponibile on line.
Ho scoperto così che esisteva un romanzo di formazione alla base, ripubblicato, ampliato e giunto in Italia nel 2014, che trattava molte questioni importanti per una ragazzina, anche se forse apprezzato più dalle bambine di allora che da quelle attuali. Si è aperto così un mondo inedito, quello delle
fanfiction, quelle opere cioè di finzione amatoriale in cui si espandono a dismisura storie o personaggi di un’opera originaria, sfruttando la popolarità del soggetto di partenza, per esprimere personali fantasie, colmare dei non-detti, esercitare velleità letterarie con un possibile pubblico già presente. Il fenomeno in sé è certamente antico, ma le possibilità di internet hanno connesso più facilmente gli appassionati del genere con la nascita di relative
community, archivi di storie e dibattiti anche molto accesi.
A questo mondo mi ha fatto pensare il libro di C. Augias su Paolo, edito da Rai Libri, dal sottotitolo volutamente intrigante che si riferisce a colui che inventò, tesi dell’autore, il cristianesimo come esperienza religiosa, ma soprattutto come sistema dottrinale, con una nemmeno troppo velata contrapposizione alla figura di Gesù.
A chi è utile?
Il valore scientifico è davvero scarso e le imprecisioni senza numero: si apre con il grossolano errore di associare a Paolo 12 lettere invece delle 13 contenute nell’epistolario paolino; si attribuiscono a Maria di Nazareth tre frasi nei vangeli, quando sono sei e in quattro diverse circostanze; si riporta un lungo passo dell’apocrifo del II secolo Atti di Paolo, «pieno di leggende edificanti», a proposito di un certo Patroclo, ma è del tutto evidente la dipendenza letteraria (non citata) dall’episodio su Eutico narrato in At 20. Il ragionare procede senza metodo, né criterio, in un affastellarsi di citazioni rivisitate, affermazioni spesso senza fondamenti argomentativi, trattando alla pari e volutamente schiacciando sul genere leggendario elementi tratti dalle fonti più varie e riprendendo approcci esegetici decisamente datati e superati. Vengono riferite parole di storici dell’800, ma non vengono citati né nominati R. Penna o A. Pitta, E.P. Sanders o J. Dunn, R. Fabris o G. Boccaccini, solo per fare alcuni fra i moltissimi nomi che hanno contribuito negli ultimi decenni a interpretare Paolo nel contesto biblico e in quello storico-culturale del giudaismo del primo secolo. Dal punto di vista letterario è estremamente discontinuo: a continue digressioni si alternano spiegazioni di tipo enciclopedico su situazioni, città, usanze o personaggi, per poi passare a narrazioni romanzesche e dettagliate che sembrano epigone del citato Jérôme Carcopino, oppure tratte da riviste scandalistiche, come quando costruisce tutta un’immaginaria storia d’amore fra Paolo e Lidia di Tiatira (la prima di cui si ha notizia che sia stata battezzata con la sua famiglia nella città di Filippi e quindi nel continente europeo, cfr. At 16), partendo dall’espressione (inesistente nel NT) «la mia vera sposa» attribuita ad una (ovviamente non citata) lettera di Paolo.
Dal punto di vista divulgativo, più che conoscere meglio Paolo conosciamo di più l’autore e il suo pensiero, non è difficile notare infatti che c’è una tesi di fondo: identificando il proprio approccio come “laico e razionale”, cioè libero da condizionamenti e frutto solo della propria riflessione, procede con una modalità piuttosto paternalistica verso il lettore, per affermare – come dato scontato – l’impossibilità della resurrezione di Cristo e le apparizioni come frutto evidente di allucinazioni e isteria, in sostanza un’invenzione di Paolo per dare speranza ai suoi seguaci: ma poiché è esattamente l’opposto di quanto Paolo afferma in 1Cor 15,14 resta solo la possibilità di un autoconvincimento. Infatti Paolo è descritto, direi “costruito”, come un esaltato narcisista; un represso sessuale; un epilettico che ha frainteso una crisi affetto da zoppìa; un uomo collerico e incapace di sorridere, che alla fine della vita rimpiange di non aver vissuto. Un Paolo molto distante da quello che emerge dal commento divulgativo e recente alle lettere di Paolo curato da Rosanna Virgili.
Un Paolo irreale
Con l’espediente retorico di un ipotetico testamento o altri analoghi in cui dà voce a Paolo stesso, Augias mescola frasi tratte dalle lettere paoline o dagli Atti degli apostoli (che sono le uniche fonti attendibili anche se da interpretare adeguatamente), con elementi tratti da testi apocrifi di secoli successivi, fino ad espressioni che sono proiezioni personali introdotte spesso con un aggettivo o un avverbio non esistente nei testi di riferimento, ma che ne orientano la lettura. Anche se la considerazione è fatta a proposito di Maria Maddalena si intuisce che la convinzione non discussa né argomentata applicata in generale sia che «le fonti sono frammentarie e… manipolate più volte» e che «fantasia e intuito» non siano meno attendibili dei racconti del primo cristianesimo e che tali testimonianze non siano più vicine alla realtà di quelle che definisce (cito non alla lettera): «ricostruzioni verosimili sulla base di indizi», dimenticando che esistono ormai studi internazionali che applicano criteri scientifici a quelle testimonianze scritte e che prescindono dalle posizioni confessionali (si pensi alla ricerca sul Gesù storico, all’opera monumentale di J.P. Meier o all’Enoch Seminar).
Verso la fine, restando serio, riesce a scrivere a distanza di poche righe: «Preferisco unirmi al pudico silenzio di Luca [riguardo la fine di Paolo]», per poi aggiungere «un finale suggerito da una rispettosa immaginazione che completi il racconto». L’autore può contare sulla scarsa conoscenza biblica di molti lettori, un po’ come anni fa fece Dan Brown per il suo romanzo Il Codice Da Vinci, citato anch’esso, per poter procedere a dare una versione dei fatti che di rispettoso ha ben poco.
Uomo solo al comando…
Fra le questioni maggiori che vengono toccate, la prima è la costruzione di un Paolo come un ambizioso solitario e mentalmente instabile.
parliamo certamente di una personalità e di una figura di primo piano nella seconda metà del primo secolo, ma isolarlo pare funzionale ad una delegittimazione sua e indirettamente del cristianesimo. Lui solo avrebbe scritto lettere entrate nel Nuovo Testamento, ma ce ne sono altre 8; sarebbe il primo che ha proclamato esplicitamente la divinità di Gesù, ma si trascura la ricchissima tradizione giovannea; egli è colui che si sarebbe appropriato del messaggio del profeta Gesù e del primo culto per diffonderlo fuori d’Israele, ma si dimentica che l’apertura universale del cristianesimo ha radici nei vangeli e nelle tradizioni sottostanti e che negli stessi testi paolini o negli Atti degli apostoli, quanto realizza in modo straordinario Paolo attraverso i famosi viaggi missionari è anticipato e condiviso da altri. Nel racconto della vocazione di Saulo (ripetuto tre volte negli Atti e accennato nelle lettere) c’è sempre un incontro mediato da una comunità (si pensi alla figura di Anania in At 9). Paolo presenta sé stesso come qualcuno che apprende da altri, che riceve e trasmette e poi, certo, che è capace di riflettere e difendere quanto ha compreso. Nei viaggi è sempre accompagnato da Barnaba, Timoteo, Silvano o altri, nelle lettere nomina altri come co-autori o co-mittenti; i capitoli finali di varie lettere (si pensi a Rm 16 o 1Cor 16) presentano una folla di soci nel ministero, uomini e donne, persone a cui Paolo deve la vita e ai quali riconosce, nella diversità dei carismi, un’autorità e un impegno per la diffusione del vangelo pari ai suoi.
… verso il mondo pagano?
Un altro aspetto proposto insistentemente è la decisione unilaterale di portare il cristianesimo ai pagani e di rompere con l’ebraismo. Paolo invece rivendica sistematicamente la sua appartenenza al popolo ebraico e molte delle affermazioni riguardo la Legge non sono frutto di strategia o rivalità verso altre figure ecclesiali autorevoli, come insistentemente Augias sottintende, ma vanno comprese alla luce del contesto polemico di chi vuole difendere la novità del vangelo di cui si fa servo. Non si propone un’opposizione ma semmai una sintesi in Cristo che legge le differenze che restano non più come fonte di divisione (cfr. Gal 3,28). Paolo non porta mai sé stesso, né una dottrina, ma la condivisione di un incontro vitale: «per me vivere è Cristo» (Fil 1,21); si descrive in atteggiamenti materni: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli» (1Ts 2,7); «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!» (Gal 4,19). È consapevole che la sua testimonianza, la coerenza della sua vita, la gratuità con cui esercita il suo ministero incidono sulla credibilità del messaggio.
Paolo sa che tanti altri hanno portato il vangelo alle genti, si pensi alla comunità di Roma a cui lui scrive senza averla mai visitata e dopo aver conosciuto e imparato molto da Aquila e Priscilla, provenienti proprio da Roma dopo l’editto dell’imperatore Claudio. Il libro degli Atti presenta non solo la graduale apertura di Paolo ai pagani che frequentavano in qualche modo le sinagoghe, ma soprattutto l’intuizione da parte di Pietro di un Dio che non fa preferenze di persona, ma accoglie chiunque lo cerca e pratica la giustizia (cfr. At 10). Questa testimonianza sarà determinante (cfr. At 15) per la decisione della riunione ambientata a Gerusalemme alla presenza di tutta la comunità che approva la provvisoria mediazione proposta da Giacomo, tutt’altro che astuto rivale di Paolo.
Forse il pensiero attribuito alla fine a Paolo è più autobiografico di quel che si possa pensare: «Se potesse ricominciare darebbe più spazio alla vita terrena di Gesù, all’umanità di lui e alla propria». Forse è questa la segreta speranza dell’autore quasi novantenne che ci ha raccontato di un Paolo immaginato e forse cercato come un amico con cui interloquire: che tutto non volga alla fine, ma stia per cominciare.