Sabino Chialà "Una traccia luminosa" Omelia venerdì santo 2022
15 aprile 2022
Giovanni 18,1-19,42
Abbiamo riascoltato, come ogni anno in questa preghiera del venerdì santo, l’annuncio della passione e morte di Gesù secondo Giovanni, il vangelo della gloria. Una gloria che contempliamo nel Crocifisso, prima che nel Risorto.
Dopo la scena di intimità in cui aveva mangiato con i suoi e aveva lavato loro i piedi, Gesù esce progressivamente da quello spazio familiare e affronta i vari volti della città, simbolo del mondo e della vita. Aveva iniziato con la cena: un piccolo cono di luce all’interno di una tenebra sempre più spessa; un seme affidato ai discepoli perché potessero attraversare il muro che stava per ergersi davanti a loro e alla loro vicenda di discepoli con il loro Maestro. Il germe di un Signore che si fa servo, lavando loro i piedi, perché continuino a camminare; e che chiede ai suoi di fare altrettanto, gli uni nei confronti degli altri, perché si incoraggino reciprocamente a camminare.
Ora quell’intimità si apre alla città, con tutte le sue contraddizioni. Vi si apre progressivamente: dal giardino, alla casa dei capi religiosi, al tribunale dell’autorità politica, alla strada con la sua varia umanità e disumanità, fino a uscire da quella città, verso un luogo elevato, da cui Gesù sembra guardare e attirare a sé il mondo intero.
Due i fili rossi che s’intrecciano in questa lunga narrazione: da una parte l’insensatezza del male, che qui si esprime in tante delle sue manifestazioni, non molto diverse da quelle di cui noi ancora siamo testimoni e attori; e dall’altra l’atteggiamento di Gesù, che attraversa quelle situazioni come il Signore della gloria, e come l’uomo fedele alla propria vocazione, due tratti messi particolarmente in luce dal quarto vangelo.
Il primo filo rosso è quello delle manifestazioni del male, che riascoltiamo non come una semplice rievocazione doloristica, ma perché in esse vogliamo ricordare anche le nostre, quelle del nostro mondo. Celebrare la passione di Cristo è anche un modo per deporre nel seno nella sua passione vivificante tutto il male crudele e insensato che umilia donne e uomini di ogni tempo e di ogni latitudine. Ciò è necessario perché la passione di Cristo, che non “spiega” il male né lo “giustifica”, lo renda un po’ meno insensato e disperante. Sapere che il nostro travaglio ha comunione con quello di Cristo, che è da lui conosciuto e accolto, è il primo passo verso la salvezza: è il primo bagliore della luce della Pasqua. Sapere che Cristo ha attraversato gli inferi di ogni creatura e ancora li abita è già annuncio pasquale.
Nella città, dunque, Gesù incontra il male, in tante delle sue forme. Quello che gli viene dal constatare la distanza dai suoi, i quali in due modi diversi ma non troppo, mostrano quanto sia difficile comprendere quel Maestro: Giuda che lo consegna (18,2-2-5) e Pietro che prima ricorre alla violenza per difenderlo (18,10-11) e subito dopo nega di averlo conosciuto (18,15-27). È il male che si manifesta come incomprensione, solitudine, incolmabile distanza.
Gesù conosce poi la violenza di chi usa male o abusa del proprio potere. Quello dei capi religiosi che si preoccupano non di comprendere e dunque di discernere rettamente - come ci si attende da una vera autorità - ma che cercano solo di liquidare un caso fastidioso, imbarazzante, che li scomoda nelle loro certezze e posizioni acquisite, magari facendo ricorso alla menzogna o alle mezze verità, più pericolose della menzogna (18,12-14; 19-24). O il potere di Pilato che, per non scontrarsi con i capi, sottopone Gesù a un interrogatorio sommario (18,33-40) e, pur non trovando in lui “colpa alcuna” - affermazione ripetuta due volte (18,38; 19,2) - lo fa flagellare (19,1), lo espone all’insulto della folla e lascia che sia condannato (19,6-16). È il male subìto da chi si vede tradito da quell’autorità che avrebbe dovuto proteggerlo; la violenza dell’uomo forte che, anziché prendersi cura del debole, lo opprime o lascia che altri lo opprimano, abdicando alla propria responsabilità.
Gesù conosce poi il male insensato di chi si avventa contro l’indifeso con la beffa e la violenza gratuita. Quella dei soldati che inscenano una parodia di intronizzazione regale (19,2-3); e quella di chi chiede che sia crocifisso e in fretta, abbassandosi ad affermazioni che suonano come una bestemmia all’orecchio del credente ebreo: “Non abbiamo altro re che Cesare” (19,12-15); e che poco oltre contesta l’iscrizione fatta mettere da Pilato a spiegazione di quell’esecuzione (19,21). È il male dell’accanimento contro il debole, della violenza disumana e irrazionale di chi sfoga la propria brutalità, misconoscendo così l’umanità propria e altrui.
Conosce infine il male di una morte umiliante, come lo era quella di croce (19,18); denudato (19,23-24) ed esposto agli occhi di chi più gli aveva voluto bene: alcune donne, il discepolo e la madre (19,25-27). È il male di chi si vede privato della propria vita e della propria dignità.
Gesù attraversa tutte queste manifestazioni di male, senza sottrarsi, senza fuggire via. E così facendo viene incontro alle nostre, quelle del nostro mondo, che non sono molto diverse; e le raccoglie in sé.
Importante però è anche il come Gesù attraversa la città e le sue contraddizioni: l’altro filo rosso di questa narrazione, che vorrei evocare perché costituisce un insegnamento anche per noi, oggi. Un “come” che osserviamo nelle parole che il Maestro pronuncia lungo questo attraversamento. Parole che in qualche modo ci indicano cosa salva in quel momento di sfacelo, e cosa anche noi siamo chiamati a salvare, a mettere al riparo quando anche noi siamo confrontati con il male, nostro o di altri.
Innanzitutto attraversa il male con responsabilità, rimanendo il Signore. Ce lo mostrano la prima e l’ultima parola da lui pronunciate nella passione. Quel “io sono”, ripetuto per due volte davanti a coloro che erano venuti nel giardino a catturarlo (18,5.8). E poi l’ultima parola detta dalla croce: “È compiuto” (19,30). Anche quando il suo cammino si fa doloroso, Gesù ne resta il Signore. Non è l’eroe stoico, insensibile al male, ma è il credente che sa di essere nel Padre e nelle sue mani.
Il secondo tratto è quello della cura che egli si prende di chi gli sta accanto, proprio mentre è lui ad averne bisogno. Cura per i discepoli, all’inizio quando, ai soldati venuti a prenderlo, dice: “Se cercate me, lasciate che questi se ne vadano” (18,8). Cura per la madre sotto la croce, che affida al discepolo amato (19,26-27). La sofferenza non lo ripiega su se stesso. Gesù sa continuare a vedere anche quella dell’altro, che è poi l’unico modo per non lasciarsi schiacciare dalla propria.
Altro tratto del suo modo di attraversare la contraddizione è il suo rifiuto della violenza. Lo mostrano le parole dette a Pietro quando nel giardino taglia l’orecchio del servo del sommo sacerdote: “Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato non dovrò berlo?” (18,11). Rifiuto di una violenza che resta tale in ogni frangente, che di per se stessa non è mai giustificabile.
Lo caratterizza poi la parresia di chi non ha nulla da nascondere né da temere. La parresia di Gesù che ai capi religiosi dice: “Io ho parlato al mondo apertamente … non ho mai detto nulla di nascosto … interroga quelli che hanno udito” (18,19-21). E a Pilato: “Il mio regno non è di questo mondo … Sono venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (18,36-37). La parresia di chi sa di aver agito con lealtà, di non essersi nascosto, di non aver mentito e per questo di essere libero.
E legata a questa: il coraggio di chi chiede conto del male. Quando alla guardia che lo percuote, dice: “Se ho parlato male, dimmi dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (18,23). Accogliere il male non vuol dire accettarlo incondizionatamente, né rassegnarsi. Il male va interrogato, come anche chi lo compie, perché anche quest’ultimo possa liberarsene. Gesù non sottrae la propria guancia a chi lo percuote, come egli stesso ha chiesto ai suoi di fare. Tuttavia non si sottrae alla responsabilità di rimandare lo schiaffeggiatore al proprio gesto: “Perché lo fai?”.
E infine, un ultimo tratto del modo in cui Gesù attraversa il male è la sua certezza interiore che il male non ha l’ultima parola. La sua convinzione che nessun carnefice ha un potere assoluto. È quello che obietta a Pilato quando questi afferma di poter fare di lui quello che vuole: “Tu non avresti alcun potere se non ti fosse dato dall’alto” (19,11). Un’affermazione che si presta a varie interpretazioni. Innanzitutto Gesù richiama Pilato alla sua piccolezza: in fondo non sei che un subalterno. Anche lui, che crede di essere dotato di poteri illimitati, è un essere umano. Spesso la violenza è effetto di un delirio di onnipotenza. Ricordarsi di non essere che dei poveri esseri umani, riprendere coscienza con la propria finitudine, è la via anche per arginare la propria capacità di male. Ma in quell’affermazione di Gesù possiamo anche scorgere una parola che potrà aiutare Pilato a non soccombere sotto il peso della sua responsabilità, allorché prenderà coscienza del male fatto. È come se Gesù gli dicesse: neppure tu, il carnefice, sei responsabile fino in fondo. Il male è più grande anche di te che pure te ne si fatto strumento. Appunto: strumento, non artefice!
Ecco come Gesù vive la sua passione, e le nostre nella sua, quelle del nostro mondo. Attraversando la città, prendendo su di sé il male che gli si scatena contro e reagendo a quel male con i suoi modi, Gesù lascia come una traccia luminosa, che è già pasquale. La traccia della sua presenza, che abita i nostri inferi e li salva. La traccia dei suoi modi, che ci ricordano come anche noi possiamo restare umani anche quando viviamo situazioni di male: la responsabilità, la cura degli altri, il rifiuto della violenza, la parresia, il coraggio di chi chiede conto del male, la certezza interiore che il male non ha l’ultima parola.
Dopo il cono di luce che Gesù aveva creato durante la cena, lavando i piedi dei suoi discepoli, anche il cammino della passione porta in sé il riflesso della luce pasquale: un tenue un raggio nella sofferenza e nelle tenebre che ricoprono quest’ora: l’ora della morte del Figlio in croce, segno del suo amore invincibile per l’umanità; l’ora resa tenebrosa dalle guerre e violenze che ricordiamo davanti al Crocifisso.