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Piero Stefani "Il paradosso cristiano"

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Il Regno
Parole delle Religioni
Il paradosso cristiano
«Quel che è debole Dio lo ha scelto» (1Cor 1,25-27)
Piero Stefani

I più antichi documenti scritti che attestano la fede in Gesù Cristo sono lettere, vale a dire sono forme di comunicazione «a distanza», una modalità, già in se stessa, più debole di quella che avviene «in presenza». Più volte in quelle righe è espresso il rammarico di non poter essere a tu per tu con i fratelli nella fede; nel contempo viene, non di rado, manifestato il desiderio di mettersi in viaggio al fine di giungere a un incontro diretto. 

Quella che sarà considerata «parola di Dio» è originata da una distanza che separa reciprocamente i credenti. Si cerca di superare la lontananza attraverso un mezzo esposto a vari rischi: una lettera può non giungere a destinazione o, una volta arrivata, andare smarrita. Proprio la Prima lettera ai Corinti (5,9), fa riferimento a una precedente missiva di cui nulla sappiamo. Si trattava forse di parole meno significative e autorevoli di quelle da noi tuttora lette e proclamate? 

Una prima forma di debolezza connessa alla rivelazione la si trova in questo tipo di comunicazione «a distanza» nella forma di lettera. Eppure è anche vero che se siamo a conoscenza della vita di quelle antiche comunità lo dobbiamo soprattutto alla modalità scritta, che cerca di supplire da lontano a una mancata presenza. 

Tutte le lettere autentiche di Paolo, tranne quella ai Romani, sono state scritte a comunità da lui fondate. Fondate? Nella Prima lettera ai Corinti ricorre un’espressione che ci invita alla cautela. Paolo ha gettato le fondamenta ma non è lui a essere il fondamento. L’atto compiuto dall’apostolo di per sé non basta a edificare. Il fondamento è Gesù Cristo (3,11). 

Inoltre ci sono anche altri che hanno messo mano alla costruzione. Paolo rivendica a se stesso soltanto il primato di essere stato l’iniziatore. Accanto all’immagine edilizia ne compare una, ancora più efficace, di carattere agricolo: «Io piantai, Apollo innaffiò ma Dio fece crescere, così né colui che pianta è qualcosa, né colui che annaffia ma colui che fa crescere: Dio» (3,6s). 

Qualcuno potrebbe obiettare: ma come fa il seme a crescere se non lo si pianta e non lo si annaffia? Si tratta certo di operazioni indispensabili e tuttavia non è l’atto di piantare né quello di annaffiare ad attribuire al seme la capacità di crescere, al fine di diventare quella pianta e non un’altra. Mettere in terra e dare acqua sono operazioni che accomunano tutte le coltivazioni, la varietà dei frutti dipende dalla natura del seme e non già da quelle azioni pur indispensabili. Rimane comunque vero che la potenza dei chicchi non si sviluppa fino a quando sono custoditi nei granai. 

Abbandonando l’immagine, è dato affermare che Dio opera ovunque, tuttavia la sua azione, per svilupparsi, ha bisogno del contributo umano. Una forma assunta dalla «debolezza di Dio» sta nel suo essere umile affinché altri crescano. 

A Paolo giunge una notizia che non è una «buona notizia (evangelo)». Fornire notizie rappresenta una forma di comunicazione a distanza. Ciò non capita necessariamente in relazione a chi ce le fa giungere (le possiamo recepire anche da una persona che ci sussurra all’orecchio); ma ciò però avviene sempre in riferimento all’oggetto comunicato. Se si fosse «in presenza» avremmo una constatazione e non già una notizia. 

Cosa apprende Paolo da lontano? «Mi fu fatto sapere al vostro riguardo da quelli di Cloe che ci sono contese tra voi» (1,11). Le contese sono legate, per così dire, a forme di sotto-appartenenza. Si fa parte di una Chiesa locale, tuttavia in primis ci si identifica con un gruppo (per attualizzare si potrebbe dire: con un movimento) che ha un fondatore (o è contraddistinto dalla presenza di una persona ritenuta tale) che troppo spesso è scambiato per colui che fa crescere. L’appartenenza è contraddistinta, in modo identitario, dalla presenza di un verbo coniugato, non a caso, in prima persona singolare: «Io sono» di Paolo, di Apollo, di Cefa, di Cristo (1,12). 

Annuncio e accoglimento nella comunità 

Dal punto di vista storico è arduo individuare le caratteristiche e la consistenza dei singoli gruppi. Non è neppure da escludere che l’ultimo tra essi sia formulato in maniera ironica; tuttavia se non lo fosse, ciò significherebbe che anche l’espressione «di Cristo» (che dovrebbe essere la più accomunante tra tutte) è stata piegata in senso identitario. Il «Dio che fa crescere» va inteso, per contrasto, su questo sfondo: «Quando uno dice: Io sono di Paolo, un altro invece: Io di Apollo, non uomini siete? Che dunque è Apollo? Che è poi Paolo? (sono) servi attraverso i quali avete creduto e a ciascuno come il Signore ha dato» (3,4s; tradotto alla lettera, nda). 

La «debolezza di Dio» sta anche nel fatto che la pur indispensabile mediazione umana cede alla tentazione di suscitare contese prodotte da identità compatte, contraddistinte da un «io sono» identitario. 

Preso atto della presenza di «fazioni», Paolo si compiace di aver battezzato solo pochissime persone. In tal modo egli ha ostacolato il fatto che, contro la sua volontà, si consolidasse un gruppo posto sotto il suo nome. Il discorso però non è ristretto a questo aspetto pur decisivo. Siamo di fronte a una questione di fondo legata alla stessa vocazione apostolica: «Cristo infatti non mi ha inviato a battezzare ma a evangelizzare» (1,17). 

La missione propria di Paolo è di annunciare la buona novella di Gesù Cristo morto e risorto. Sono momenti distinti: un conto è l’annuncio, altro è l’accoglimento, altro ancora il «rito di ingresso» nella comunità che presuppone la fede. Sono verità antiche che, smarritesi nella lunga stagione della cristianità, riemergono, nella debolezza di numeri sempre più esigui, in epoca contemporanea. Il battesimo è la conseguenza di una libera accettazione della fede suscitata dall’accoglimento dell’annuncio. Non si è di fronte a una semplice distinzione di compiti (uno annuncia, uno battezza ecc.), ne va dell’origine, del senso e del ruolo della fede. 

Il verso al quale ci stiamo riferendo va ora citato per intero: «Cristo infatti non mi ha inviato a battezzare ma a evangelizzare non con sapienza di parola poiché non sia svuotata (kenothe) la croce di Cristo» (1,17). Se si annuncia il Vangelo con una ricchezza discorsiva si svuota quanto si presenta debole e stolto. Si svuota l’atto che nel suo svuotarsi (kenosis) si presenta salvifico. La «parola della croce» (1,18) è chiamata a essere omogenea alla croce.

La parola debole diventa forte nella fede 

Alle spalle di questa affermazione c’è il fallimento della conoscenza di Dio tentata attraverso la via della sapienza: «Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» (1,21). Quanto è contrapposto alla sapienza è il kerygma, l’annuncio della croce. «La parola della croce» ha bisogno di essere offerta senza imporsi, è debole e salvifica perché non è coercitiva. Per questo motivo si parla della salvezza dei credenti, vale a dire di coloro che accolgono, conformandosi a essa, la parola della croce. Paolo continua a muoversi nell’ambito della comunicazione. 

A salvare i credenti è la parola della croce, la predicazione, non già la croce presa in se stessa. Cosa c’è di più debole e stolto? L’efficacia dell’evento centrale della storia è affidata alla nuda parola che lo annuncia la quale, come ogni altra forma di comunicazione, è legata alle limitazioni del tempo e dello spazio. 

I greci, afferma Paolo, chiedono sapienza a cui fa da controaltare la stoltezza; i giudei, dal canto loro, domandano segni a cui si contrappone la debolezza: «Noi invece predichiamo (verbo, kerysso) Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e stoltezza per i gentili, ma per coloro che sono chiamati dai giudei e dai greci, Cristo è potenza e sapienza di Dio» (1,23s). Si tratta di una stoltezza e di una debolezza rispettivamente più sapiente e forte di quella degli uomini. È nella fede che la debole parola della croce diviene forte. 

La condizione umile dei membri della Chiesa di Dio che è in Corinto («non ci sono tra voi molti sapienti [...] né molti potenti»; 1,26) è conforme alla «parola della croce». Dio ha scelto le cose stolte del mondo per confondere i sapienti e le cose deboli per confondere i forti, le cose ignobili e disprezzate, non essenti (ta me onta) per distruggere le essenti (ta onta: in questo caso si tratta, va da sé, di una negazione relativa, qui non si evoca un nulla assoluto; cf. 1,27-28). 

È un rovesciamento paradossale che giudica anche colui che aderisce alla fede. «Venendo tra voi non ritenni di saper altro che Gesù Cristo e questi crocifisso» (2,2). Tuttavia, come è più volte attestato da una lettera che riporta all’inizio una notizia che dà notizie di contese, non c’è sfida più grande che vivere la fede in conformità con la «parola della croce»: «Quindi colui che sta in piedi guardi di non cadere» (10,12). I fedeli di Corinto, non sapienti e non potenti, erano nella disuguaglianza e nella divisione persino quando partecipavano alla cena del Signore (cf. 11,17-22). 

La Chiesa è in grado di vivere in conformità alla «parola della croce»? La risposta è aperta. Sia un semplice «no», sia un limpido «sì» suonano fuori misura. Tuttavia è certo che ci sono momenti della storia, della società e delle esistenze individuali in cui si fa più intenso il bisogno che risuoni proprio quella parola. 

Anche quando la si tocca solo in qualche frangente, per essere in altri (come avvenne già a Corinto) smentita nella pratica, essa si presenta come insostituibile, nel senso letterale secondo cui nessun altro messaggio la può sostituire. In questi ultimi mesi l’abbiamo colto con rinnovata evidenza. Resta infatti sempre roccioso fondamento della fede che «la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1,25).
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