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Enzo Bianchi: credere vuol dire vincere la paura

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intervista a Enzo Bianchi 
a cura di Antonio Gnoli
in “Robinson” del 1 maggio 2020
dal sito del Monastero di Bose

Non sentivo Enzo Bianchi da tempo, più o meno da quando prese la decisione di lasciare la direzione della comunità di Bose, da lui fondata. Mi sembrò allora un atto insieme intimo e profondo che meritava soprattutto discrezione.
Sono trascorsi tre anni. Torno da lui, idealmente e nel rispetto della separazione che ci è imposta, per avere una sua riflessione su ciò che sta accadendo: «A proposito di quella decisione, cui alludi, non fu un gesto improvviso. Da tempo avevo annunciato alla comunità la mia intenzione di non restare priore fino alla morte, come di solito fanno i fondatori. E quando ho sentito che le forze fisiche, non quelle mentali, diminuivano mi sono consultato con alcuni uomini e donne “spirituali” capaci di discernimento e ho lasciato il timone con grande pace».

Ti sei isolato da tutto?
«No, prego, leggo, rifletto, scrivo stando comunque nel mondo senza isolarmi».

Con che spirito vivi tutto questo?
«Non ho mai coltivato sentimenti di rigetto o ostilità verso la modernità e la tecnologia. Ma da tempo avvertivo la sensazione che avevamo perso il senso del limite. Sempre di più, sempre più veloci, senza mai accettare qualcosa in meno».

Si parla di catastrofe. Cogli qualche differenza rispetto alla parola “sventura”?
«I greci vedevano nella catastrofe il rovesciamento o anche l’andare a picco. Oggi si usa per indicare una sciagura o una calamità. Non definirei questa pandemia una catastrofe. È piuttosto una sventura che ci ha sorpresi e che per alcuni significa anche essere strappati alla vita. Catastrofe per me è la Shoah, è Hiroshima, è il genocidio nel Centro Africa. La catastrofe è quando un popolo conosce una fine violenta e irreparabile».

Nelle tue riflessioni ti sei occupato della vecchiaia. E i vecchi tornano imperiosi nella loro fragilità e nel calcolo cinico che alcuni fanno sulle loro vite.
«Mi considero un vecchio di 77 anni, un’età che oggi sembra non poter avere lo stesso diritto di vita di chi è giovane. Abbiamo scoperto che vi erano persone più degne e altre meno degne di vivere e ciò è stato proclamato da medici e politici. Ho testimonianza di vecchi e disabili ai quali è stato impedito il protocollo di cure previsto per giovani e forti, perché difficilmente ce l’avrebbero fatta.
Non è cinismo ma disumanità. So anche di un prete che ha saputo rinunciare alle cure per lasciare il posto a uno più giovane. È la prova di una grande, e forse eroica, carità cristiana. Ma ognuno deve decidere sulla sua vita, non su quella degli altri».

Colpisce l’elevato numero di morti tra i parroci.
«In questa epidemia abbiamo avuto sacerdoti che hanno voluto stare in mezzo al loro popolo, perciò sono stati contagiati dal virus e alcuni sono morti. Oggi nella chiesa c’è un’attenzione verso i poveri, i malati e gli “scarti” come forse non c’è mai stata nella sua storia. Si pensi a cosa fanno la Caritas, Sant’Egidio, le diverse associazioni, che si prendono cura dei rifugiati e ora organizzano il soccorso per coloro che non hanno neppure una casa dove rinchiudersi».

Questa sensibilità che apre all’accoglienza del diverso, quale che sia la forma che prende, nasce da una rinuncia o da cosa?
«La rinuncia fa parte del cammino umano: si sceglie per rinunciare a ciò che si tralascia. Un monaco ha una speciale predisposizione a ciò, perché le rinunce vanno rinnovate di età in età. Ciò che dà forza alla rinuncia è la prospettiva di un bene maggiore. È stato così per me lungo tutta la vita».

Sempre?
«Oso pensare di sì. Ho lasciato un importante impegno politico che avevo assunto, ho lasciato un amore più che germinato nel mio cuore, ho lasciato la terra del Monferrato che ancora oggi amo e desidero, almeno come la terra che accoglierà il mio corpo quando sarò morto. Ma c’è soprattutto una decisione che fu fondamentale per me».

Quale?
«Il tempo che trascorsi con l’Abbé Pierre alla periferia di Rouen, dove a lungo vissi con gli “scarti”: alcolizzati, ex-legionari, ex-carcerati, straccioni. Quell’esperienza mi insegnò il senso della carità intelligente, la carità di vicinanza, non quella militante e parolaia che avevo conosciuto fino ad allora. Ho indossato come loro i vestiti raccolti, mangiato le stesse cose, dormito nei medesimi giacigli. Puzzavo come loro, ma i loro occhi nei miei e i miei nei loro mi bastavano per vivere ogni giorno sapendo il perché».

Quel popolo di disperati in un futuro molto vicino ci verrà incontro, anzi ci sta già venendo incontro, moltiplicato per mille. Cosa faremo? Come affronteremo la povertà e la rabbia che qualcuno prevede in espansione?
«Sì, quel popolo di disperati ha cambiato la fisionomia, da sotto i ponti dove prevalentemente viveva è passato ai barconi in mare o nelle periferie delle nostre città. Ma non riesco a non pensarli come fratelli e sorelle in umanità: ognuno con una propria storia, propri amori, proprie forze e debolezze. Mi resta un timore: che presto nella loro disperazione, con rabbia e rancore, chiederanno una giustizia che noi non abbiamo mai accordato loro. In questi decenni la disuguaglianza è cresciuta tra sud e nord del mondo, tra il centro e le periferie, ma anche nella nostra società italiana.
I poveri pazientano e subiscono. Ma prima o poi rompono gli argini».

Non si sa se è più la paura a poter creare serbatoi di rabbia oppure questa a incrementare l’altra.
«È un circolo che più si alimenta e più difficile sarà spezzarlo. Siamo in un’epoca dominata da nuove paure. Quella dei migranti non è tramontata, è solo sospesa e continuerà ad attanagliare la nostra gente. Ascolto persone che accusano i migranti di portarci via il lavoro, di rubare, di rendere violento il panorama delle nostre città. Ho sentito anche dire che sono talmente maledetti da essere preservati dal virus o che in realtà ce l’hanno portato loro, tramite i cinesi! La paura del contagio ha messo in secondo piano quella dei migranti, ma è sempre essa a dominare la scena sotto altre forme: il sospetto e la paranoia. Non dimentichiamo ciò che svela il cristianesimo: la paura è l’ispiratrice del male fatto dalle persone. Dietro ogni violenza o sopruso si nasconde la paura! ».

C’è anche un altro aspetto che sembra emergere in questi tempi: la paura di dire la verità, di parlar chiaro, senza ambiguità o almeno senza eccesso di contraddizione. Hai l’impressione che si stia inquinando il dibattito pubblico?
«C’è una parola che torna spesso sulle mie labbra, anche a causa della mia formazione di biblista, è parresia. È la virtù della libertà e della franchezza. Sapendo che questa non si mendica, ma si esercita innanzitutto attraverso la parola».

Una parola chiara e diretta?
«Parresia è il parlare superando l’inibizione della paura. Mio padre insisteva molto sul “saper dire sempre ciò che si pensa, a costo di patirne”. Personalmente ho fatto esperienza di quanto si paghi, soprattutto nella chiesa, l’essere persone che parlano con parresia. Si dà fastidio a quelli che non prendono mai posizione, ai vili e agli ignavi, a quanti sono abituati a rinnegare se stessi ben prima di rinnegare gli altri».

Di solito si chiamano opportunisti, che è una degenerazione dell’opportunità. Che cos’è, a questo proposito, il tempo opportuno?
«È il tempo debito, il momento giusto per fare le cose. La decisione da prendere anche di fronte all’estremo».

Che ne è di Dio nel momento più estremo e dove cercarlo oggi?
«Dio! Spero di non scandalizzare: Dio è una parola insufficiente e anche ambigua, che si presta a equivoci».

È strano sentirlo dire da te.
«Tutti parlano di Dio ma poi ognuno ne ha una propria immagine che spesso ne contraddice un’altra. Non credo che ci sia lo stesso Dio per i credenti di tutte le religioni. Il mio ad esempio non è il Dio di tutti, ma è il Dio di Gesù Cristo».

Hai spesso ribadito la centralità di Gesù. Perché ai tuoi occhi è così importante?
«Per noi cristiani Gesù ha spiegato e narrato Dio e ciò che egli non ci ha detto di Dio non va creduto».

Dovremmo parlare meno di Dio e più di Gesù Cristo.
«Chi vede lui vede Dio e capisce che Dio è amore. Niente altro. Dove cercarlo, mi chiedevi. Il cristianesimo ha una sola risposta: non si va verso Dio sostenuti dalla ricerca di un’idea, di una morale, ma nell’incontro con una persona, Gesù Cristo».

Ma Gesù è anche un’idea.
«Una concretissima idea che possiamo realizzare incontrandolo nell’umanità, soprattutto nei poveri, nelle vittime della violenza e dell’oppressione, nei sofferenti, nei malati, nei bisognosi. Il nostro Dio non lo incontriamo nei templi, nelle liturgie, nelle ascesi: questi sono solo strumenti per comprendere ed esercitare l’amore che è il fine di tutta la vita umana».

Dovremmo ripensare l’idea di bene comune. Ma in che modo, visto che la società è stata in questi ultimi decenni orientata a privilegiare il benessere individuale?
«Più volte ho scritto e detto che la nozione di bene comune debba essere ripensata, rinnovata e soprattutto proposta culturalmente e politicamente. La nostra è una società malata di egoismo, preoccupata solo del proprio benessere senza gli altri e contro gli altri. Temo che alla “morte di Dio” si sia aggiunta la morte del prossimo, così non sappiamo più dire “noi, ma solo e sempre “io”».

Ti sei fatto monaco nel nome di questo “noi”?
«Per me tentare di vivere la vita monastica è stato dire sì a ciò che abitava nel profondo del cuore: una vita con altri, una comunità. Non ho desiderato altro quando sono approdato a questa scelta. Ho lasciato Torino e ho scelto un luogo ai margini, un luogo povero, che potesse crescere ed essere aperto a tutti».

E che bilancio fai di questa lunga esperienza?
«Se penso alla storia della mia vita monastica ti confesso che ho visto realizzarsi poco a poco ciò che speravo e desideravo: nulla di più e nulla di meno. La comunità che ho guidato per cinquant’anni come priore è stata fedele nella forma e nello spirito alla mia intuizione iniziale, legata alla grande tradizione monastica. Non è stato facile. L’ostilità insorta nei nostri confronti da alcune parti della chiesa non è mai mancata. Ma al tempo stesso c’è stata anche la compassione e l’amicizia di alcuni grandi pastori della chiesa».

Come passi le tue giornate in questo momento?
«La mia giornata è semplice. Ascolto il canto del gallo vicino al mio eremo poco prima dell’alba.
Poi vi è la preghiera, la lettura delle Scritture e l’esercizio del pensiero e del discernimento. Dedico le ore del mattino a studiare e a scrivere. Poi, dopo la preghiera comune del mezzogiorno e il pranzo, curo per quanto posso il mio orto e accolgo chi viene a incontrarmi. Leggo, ma non so farlo per svago. Leggo per pensare, per godere della bellezza di una poesia o di un romanzo, ma sempre con uno scopo: imparare a vivere con gli altri».

C’è la frase di un autore che ti accompagna?
«È un pensiero di Bernardo di Chiaravalle: “L’amore basta a se stesso”. Vale a dire: ciò che conta è avere amato, non conta se l’altro non ha ricambiato o ha tradito».
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