Venerdì santo (omelia Enzo Bianchi)
ora nona
Giovanni 18,1-19,37
ascolta: l'omelia di ENZO BIANCHI, priore di Bose
Ieri sera, all’inizio del triduo pasquale, nel memoriale della cena del Signore, abbiamo cercato di cogliere il segno dell’eucaristia e il segno che ne è l’ermeneutica giovannea, la lavanda dei piedi: segni che volevano essere una risposta di Gesù al Padre e agli uomini attori di quella vicenda di passione e di morte. Abbiamo compreso maggiormente che quell’«eukaristésas» (Mc 14,23; Mt 26,27; Lc 22,17.19; 1Cor 11,24), quel ringraziamento, e quell’«euloghésas» (Mc 14,22; Mt 26,26), quel benedire, erano in Gesù l’«amen», l’amen del testimone fedele, come significativamente definirà Gesù l’Apocalisse, scrivendo con audacia: «Così parla l’Amen, il Testimone fedele» (Ap 3,14), termini ormai cristologici, che confessano l’identità di Gesù a partire proprio dalla sua passione e morte. Un amen, un sì pronunciato da Gesù con tutta la vita; un amen che dice sì anche alla morte; un amen pronunciato attraverso unamartyría, una testimonianza perseverante che non è venuta meno, che non ha conosciuto contraddizione, nemmeno nella sofferenza e nella prova.
Ora, proprio ricordando la croce, noi torniamo a cercare la risposta data da Gesù, risposta che è stata la passione nel suo significato più profondo: passione come amore, la fiamma divina dell’amore (cf. Ct 8,6), e nello stesso tempo passione come sofferenza, dolore, sacrificio. La passione di Gesù è stata un duello, un duello combattuto tra l’amore umano di Gesù – amore che era il racconto dell’amore di Dio fatto dalla sua carne, fatto dalla sua mente, fatto da tutta la sua persona (cf. Gv 1,18) – e la morte, potenza che aliena l’uomo, ma che ha soprattutto come soggetto il diavolo (cf. Eb 2,14-15), «il principe di questo mondo» (Gv 12,31; 16,11). Non possiamo certamente commentare tutta la passione secondo Giovanni, che è la risposta di Gesù all’interno di questo duello, risposta a Dio e risposta agli uomini: cerco solo di evidenziare, in alcuni punti, le risposte di Gesù agli uomini coinvolti nella sua vicenda pasquale e la risposta al Padre.
All’inizio della passione, al di là del torrente Cedron, appare subito Giuda il traditore. Giovanni specifica che Giuda conosceva quel luogo, proprio per la sua assiduità con Gesù, proprio perché si era ritirato sovente con Gesù e gli altri discepoli in quel luogo per passarvi la notte, per pregare durante le soste a Gerusalemme. Nel quarto vangelo Giuda non è soltanto chi permettere di riconoscere Gesù nel buio della notte, affinché sia arrestato, ma è anche colui che guida soldati e guardie fornite dai sommi sacerdoti. Gesù, dandogli il boccone di pane, gli aveva anche detto: «Ciò che tu vuoi fare, fallo presto» (Gv 13,27). Ed ecco, ora Giuda fa ciò che vuole, e per Gesù l’evento dichiarato già nell’ultima cena come inarrestabile si mostra davvero tale. È significativo, Gesù dà a Giuda che viene a catturarlo una risposta, composta da una domanda e da una breve affermazione. Chiede a Giuda e agli altri: «Chi cercate?». E quando essi replicano: «Gesù, il Nazareno», Gesù stesso ha una sola parola da dire: «Egó eimi», «Io sono». Certamente questo «Io sono» indica il Nome santo del Signore, ma va colto anche nella sua valenza di riconoscimento: «Sono io». È con estrema semplicità che Gesù consegna se stesso, fa la dichiarazione della propria identità, non solo senza alcun atto di difesa, senza alcun atto di violenza, ma neppure cercando grandi ragioni al perché di quella cattura. Egli non chiede a Giuda e agli altri: «Perché?», bensì: «Chi cercate? … Sono io».
Giuda è venuto con soldati, fiaccole, lanterne e armi, mentre Gesù gli risponde con un disarmo totale. Giuda è armato, ma significativamente il quarto vangelo ha il coraggio di dire che c’è anche un altro discepolo che è armato e ha con sé una spada. I vangeli sinottici non osano dire che quel discepolo è Pietro, mentre il quarto vangelo lo esprime chiaramente e, per testimoniare che non si inventa quell’identità, scrive anche con più precisione il nome del servo colpito, Malco. Pietro amava Gesù, lo amava certamente più degli altri, anche più del discepolo amato; il discepolo amato era oggetto dell’amore di Gesù, ma è Pietro colui che aveva un amore più grande per Gesù. Ma l’amore di Pietro non era intelligente, era un amore troppo egoistico, un amore che non gli permetteva di comprendere la necessitas umana per cui l’innocente, il giusto, può solo essere vittima, e così collocarsi dalla parte delle vittime: è l’unica possibilità per non collocarsi dalla parte dei potenti, dei violenti e, in definitiva, dei carnefici. Pietro non aveva capito, aveva rifiutato l’annuncio della passione di Gesù all’inizio della salita verso Gerusalemme, aveva rifiutato il gesto della lavanda dei piedi, aveva rifiutato anche la logica eucaristica del boccone dato a Giuda. Infatti solo il discepolo amato sapeva che quel boccone eucaristico era stato dato al traditore, lo sapeva da Gesù perché glielo aveva chiesto (cf. Gv 13,23-26), ma non lo aveva trasmesso a Pietro, partecipando così all’intelligenza di Gesù su Pietro. Pietro, in questa sua non intelligenza, non poteva fare altro che tirare fuori la spada e colpire il servo del sommo sacerdote. E Gesù gli fa semplicemente deporre la spada. Il calice che Gesù aveva donato ai suoi, il calice del suo sangue, questo calice – dice Gesù – «non devo forse berlo? È questa la mia vocazione». Qui abbiamo dunque la risposta data a Giuda: «Io sono, sono io», la consegna della propria identità che è anche sempre missione di cui si è o si dovrebbe essere consapevoli.
Poi Gesù risponde anche a Pietro, che nel suo amore aveva seguito Gesù dopo il suo arresto. Giovanni dice che l’aveva seguito con un altro discepolo. In quella sequela – non una vera sequela cristiana, ma comunque uno stare dietro a Gesù – era giunto fino alla porta del cortile del sommo sacerdote. Una giovane portinaia lo fa entrare, ma gli chiede se lui è un discepolo di quell’uomo che è trascinato davanti al sommo sacerdote. Pietro risponde: «Ouk eimí», «Non lo sono». Come Gesù aveva risposto: «Egó eimi», «Io sono, sono io», così Pietro risponde: «Non lo sono», non sono un discepolo di Gesù. Ecco il mancato riconoscimento di Gesù, mancato riconoscimento di colui che era stato il rabbi, il profeta nella cui vita Pietro era stato coinvolto. La roccia su cui Gesù aveva voluto edificare la sua comunità – e l’aveva fondata su Pietro, non su altri! –, proprio quella roccia nega di conoscere Gesù. Conosce solo se stesso, anzi non conosce nemmeno se stesso nella verità, perché la verità è che egli era un discepolo, un seguace di Gesù.
E proprio mentre Pietro rinnega, Gesù è interrogato dal sommo sacerdote. Nel quarto vangelo c’è simultaneità tra l’interrogatorio di Gesù da parte dell’autorità suprema del giudaismo, il sommo sacerdote, e l’interrogatorio di Pietro da parte di una povera portinaia. Quando il sommo sacerdote interroga Gesù, egli risponde soltanto: «Io ho parlato apertamente, non ho detto nulla di nascosto. Interroga quelli che mi hanno ascoltato, essi sanno ciò che ho detto». Ora, questa è una risposta al sommo sacerdote, ma è anche l’unica risposta che Gesù dà a Pietro. È come se dicesse: «Interroga i miei discepoli, interroga Pietro che è qui. Pietro e i miei discepoli sanno ciò che ho detto». Gesù non condanna Pietro, non lo rimprovera neanche: lo richiama in questo modo alla vocazione di ascoltatore della sua parola, e dunque gli rinnova la vocazione. «Interroga quelli che hanno ascoltato, interroga i miei discepoli»: queste parole dette da Gesù al sommo sacerdote si avvereranno presto, come ci testimoniano gli Atti degli apostoli. Infatti lo stesso Caifa, nei mesi successivi, dopo la Pentecoste, interrogherà proprio Pietro e Giovanni (cf. At 4,1-22), colui che qui è forse l’altro discepolo presente nel cortile del sommo sacerdote. Il vangelo secondo Luca aggiunge che, alla fine del rinnegamento, Gesù si voltò e fissò lo sguardo su Pietro (cf. Lc 22,61), fece cioè la stessa cosa che aveva fatto al momento della vocazione, quando aveva fissato lo sguardo su di lui e lo aveva chiamato. Ecco, Gesù risponde a Pietro rinnovandogli la vocazione, perdonandogli, rimettendolo al suo posto, anche se la roccia aveva rinnegato. Allora un gallo canta, in ricordo delle parole profetiche dette da Gesù a Pietro.
Segue la risposta data da Gesù ai sommi sacerdoti e agli avversari, una risposta che anche in questo caso è una domanda. Che cosa ha da dire Gesù a chi lo ha fatto arrestare e lo vuole trascinare al supplizio della croce come maledetto da Dio e dagli uomini, come bestemmiatore? Soltanto una parola: «Se ho parlato male, testimonia circa il male; se invece ho parlato bene, perché mi percuoti?». È la risposta a una guardia che lo ha percosso, ma è la risposta a tutti gli avversari. Gesù non ha nient’altro da dire. Le parole di Gesù nella passione secondo Giovanni – che per altro vuole essere una dossologia, un racconto di gloria, a differenza dei sinottici – sono parole di una estrema semplicità: «Se ho parlato male, testimonia circa il male; se invece ho parlato bene, perché mi percuoti?».
L’apice si ha con la risposta a Pilato, risposta ultima all’arroganza degli avversari. Pilato gli dice: «Non sai che io ho il potere di liberarti e il potere di crocifiggerti?». Gesù, anche qui, non gli contesta il potere: egli riconosce l’autorità politica, non è né un anarchico né un rivoluzionario che non riconosce un ordine necessario allapolis. No, Gesù gli rivela semplicemente: «Non avresti alcun potere, se non ti fosse stato dato dall’alto». Ovvero, Gesù dice a Pilato: «La fonte del potere non è in te, l’unico potere che va riconosciuto è in alto, è quello che appartiene a Dio. Certo, tu puoi disporre di me, puoi esercitare il potere, puoi rimandarmi libero o puoi anche mandarmi alla morte, ma solo perché Dio non interviene per impedirti di esercitare un potere anche con ingiustizia e violenza. E solo perché io non mi ribello, non faccio violenza e non passo dalla tua parte, non sto con te». Ecco la risposta che Gesù dà a Pilato: netta, chiara, ma senza atteggiamento di ribellione o di negazione di un’autorità di cui gli uomini hanno bisogno per ordinare la loro vita comune.
Alla croce, nell’ora della morte, Gesù risponde poi anche alla sua comunità, ai suoi discepoli e alle sue discepole. Ai suoi discepoli che erano fuggiti, alle sue discepole che erano presso la croce, ma semplicemente perché non dovevano temere nulla: erano delle donne, e nessuno in quel contesto sociale si interessava di loro. Se anche erano seguaci di Gesù, nessuno le avrebbe arrestate, perché non contavano nulla. Inoltre, alle donne era permesso di seguire i condannati a morte, per piangerli e per portare loro un po’ di soccorso. Insomma, neppure loro rischiano qualcosa. Ma Gesù vede sotto la croce sua madre e il discepolo che lui aveva amato. Ripeto, non il discepolo che lo amava più degli altri, ma il discepolo che lui amava. Anzi, a ben vedere il quarto vangelo non dice neanche che Gesù amava quel discepolo più degli altri undici: no, semplicemente era il discepolo da lui amato, senza alcuna reciprocità. Vedendo dunque il discepolo amato e la propria madre, Gesù vede davvero tutta la sua comunità. Vede che rappresentano Pietro, vede che rappresentano gli altri che sono fuggiti per paura, e Gesù risponde alla sua comunità dispersa mostrando il lato della maternità della comunità, ossia una capacità di generare credenti, una capacità di filialità, in cui i figli di Dio, i fratelli di Gesù riconoscono nella chiesa la madre: «“Donna ecco tuo figlio”, e al discepolo amato: “Ecco tua madre”». «E da quell’ora il discepolo amato da Gesù», l’unico che aveva conosciuto il traditore, l’unico che conosceva il cuore di Gesù e che nulla aveva fatto di fronte alla cattura e al tradimento, «accolse la madre di Gesù eis tà ídia, tra le proprie cose, le cose che gli appartenevano come un tesoro». Il discepolo amato di Gesù sa che la chiesa è un dono e che sta tra le cose più proprie.
Infine, ecco la risposta al Padre, l’ultima risposta nella passione. Gesù è crocifisso, ma dalla croce prega, intonando il Salmo 42. Non vi illuda la traduzione: «Ho sete». In realtà in ebraico, in aramaico questo grido ricorda un versetto del Salmo 42: «Il mio essere ha sete del Dio vivente» (cf. Sal 42,3). Ecco la sete di Gesù, ecco ciò di cui era assetata tutta la sua vita: sete di Dio, ma che significa sempre sete della sua giustizia e del suo amore, sete della sua misericordia. Gesù ha sete del Dio vivente, quando vedrà il suo volto (cf. ibid.)? Pregare questo Salmo nell’ora della morte è confessare che si ha sete: se si ha sete, manca l’acqua; se si ha sete di Dio, manca Dio e non si vede il suo volto. Gesù guarda a tutta la sua vita, alla sua sete di compiere la volontà di Dio, guarda a tutto ciò che ha fatto e detto, guarda alle sue risposte date agli uomini, e in un atto ancora davvero eucaristico grida: «È compiuto», cioè tutto è giunto al compimento, «consummatum est». Sì, si è compiuta la volontà di Dio, Gesù ha compiuto pienamente la vocazione ricevuta, Gesù ha vissuto all’estremo il comando ricevuto dal Padre, il comando dell’amore (cf. Gv 13,1). Questo «è compiuto», è un grido di gioia, è un grido di eucaristia, è un grido di benedizione, è un grido di vittoria. È un grido che va capito alla luce di parole che il quarto vangelo mette in bocca a Gesù: «Io ho vinto il mondo, ho vinto la mondanità» (Gv 16,33). O meglio: «In me ha vinto l’amore di Dio», e la passione vuole solo esprimere questo. Ecco la risposta di Gesù al Padre, a Dio: l’eucaristia, il ringraziamento è stato vissuto da Gesù fino al «consummatum est», fino alla realizzazione di tutto ciò che il Padre gli aveva rivelato, di tutta la sua volontà.
Dopo questo grido, «Gesù consegnò lo Spirito». Sappiamo che nel quarto vangelo questo significa «spirò, morì», ma si riferisce anche a quell’alito che Gesù aveva, che era l’alito dello Spirito santo, l’alito con cui era stato generato dal Padre. Quell’alito Gesù lo effonde sulla chiesa ai piedi della croce, sull’umanità, su tutto l’universo.
Ora Gesù attende nella morte, nella tomba, la risposta del Padre. Gesù ha risposto, tutte le sue risposte sono state date: ora dovrà rispondere il Padre.
ENZO BIANCHI
Fonte: monasterodibose