Stella Morra "La teologia è un’attività politica"
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La teologa fossanese nel dialogo con la giornalista Marianna Mancino affronta vari temi: il ruolo delle donne nella Chiesa e negli studi teologici, il Pontificato di Francesco, la Chiesa e il ministero presbiterale nel mondo di oggi, l’approccio alla Bibbia, il Giubileo della speranza, il cammino in Azione cattolica e con l’Atrio dei Gentili.
Per gentile concessione de “La Fedeltà”, è possibile leggere e scaricare l’articolo in formato PDF.
Donna, credente, intellettuale, teologa di fama internazionale: la fossanese Stella Morra, docente alla Facoltà di Teologia fondamentale della Pontificia Università Gregoriana a Roma, non ha bisogno di presentazioni. Il suo percorso di ricerca non perde mai di vista il reale: le condizioni sociali, il contesto storico, la funzione della Chiesa come istituzione in un mondo che sta cambiando, le nuove istanze e i bisogni dei credenti. Creativa, rigorosa, immediata, capace di un linguaggio semplice per descrivere la complessità dei concetti, convinta che il sapere sia sempre frutto di un lavoro collettivo, Stella Morra stimola il dialogo, spiazza, sorprende, inchioda l’interlocutore.
Quando è nato il suo interesse per la teologia?
Verso la fine del mio percorso universitario (laurea in pedagogia con indirizzo sociologico all’Università degli studi
di Torino, ndr) e nei primi anni
di insegnamento e di lavoro in
diversi settori. In quel periodo sono entrata in contatto
con un’ esperienza ecclesiale
a Torino significativa, vitale,
colta (allora era cardinale
mons. Michele Pellegrino),
intellettualmente stimolante
che mi ha spinto a voler studiare e approfondire di più gli
aspetti teologici. Cominciai
frequentando alcuni corsi alla
Facoltà Teologica di Torino
riscontrando delle difficoltà
dovute all’impostazione troppo ecclesiastica: io provengo
dal mondo laico. Scelsi allora
l’Istituto di Scienze Religiose a Urbino (Università non
ecclesiastica) in quegli anni
ricca di fermento. L’amore
per la teologia è sbocciato in
quel contesto: determinante
per me l’incontro con don Italo
Mancini e don Luigi Sartori,
due formidabili maestri anche
sotto il profilo umano.
Cos’è la teologia per Stella Morra?
Rischio di dire una cosa alla
Michela Murgia: è un’attività
politica. L’unico modo in cui
riesco a pensare il lavoro intellettuale, di riflessione, di
idee e di studio per la trasformazione della realtà, per un
mondo più giusto o, se vuole
un termine tecnico, per camminare verso il Regno di Dio.
La teologia è un sapere attivo,
consiglio a tutti i ragazzi sotto
i trent’anni di leggere qualcosa
di Ivan Illich (scrittore, storico,
pedagogista e filosofo austriaco, ndr), che racconta come
lo studio, l’apprendimento,
l’insegnamento siano un’attività politica. Ciascuno di noi
può trasformare il mondo e
offrire il suo contributo per
una migliore convivenza. Sotto questi aspetti mi trovo in
sintonia con Michela Murgia:
non vivo separazione tra le
cose che amo personalmente
e che fanno parte della mia
vita quotidiana e il mio volto
pubblico, nel bene e nel male,
consapevole dei miei limiti.
Altra figura determinante per la sua ricerca è il
gesuita Michel de Certeau, oggetto della sua tesi
di dottorato alla Pontificia
Università Gregoriana di
Roma nel 2004.
Il livello dottorale in Facoltà
è abbastanza alto - vige ancora un’idea medioevale di
dedizione assoluta allo studio - essendo donna laica, ho
dovuto conciliare le esigenze
quotidiane con un percorso
lungo e faticoso. Ho iniziato a
studiare de Certeau nel 1986,
proprio l’anno della sua morte. È stato per molto tempo il
mio “guardiano ombra”, non
solo oggetto di studio. Figura
trasgressiva, uomo eclettico,
grande intellettuale, psicanalista lacaniano, storico,
esperto di spiritualità, sociologo, teologo, antropologo culturale. Tra i protagonisti
della rivoluzione culturale
di Mitterand, ha insegnato
in Università statali non ecclesiastiche, ha tenuto corsi
negli Stati Uniti, ha viaggiato
a lungo nei principali Stati
del Sudamerica segnati, in
quegli anni da governi dittatoriali, mi ha affascinata per
la sua poliedricità. Concordo
con San Tommaso d’Aquino
quando dice: “Temo l’uomo da
un solo libro” e de Certeau è
certamente stato un uomo dai
moltissimi libri e dalle tante
anime. Ha sempre abitato la
Chiesa appassionatamente
e pericolosamente, indagando i confini, rivendicando la
responsabilità e la libertà
delle sue posizioni. Figura
controversa, amatissimo da
alcuni, inviso a molti, si chiedeva: “È possibile, in questo
tempo, essere uomini e donne
credenti?”. La risposta per me
è sì, a patto che ci capiamo
su cosa voglia dire essere credenti. Credo che il percorso
sinodale contemporaneo ce lo
stia confermando. De Certeau ne scrisse profeticamente
già cinquant’anni fa, dopo il
Concilio Vaticano II.
Come vive il suo ruolo
accademico?
Il mio impegno come studiosa e teologa è cominciato
molto prima: non guardo al
solo ambito accademico. I titoli
servono, ma la mia riflessione ha avuto inizio anche con
l’impegno, a livello regionale e
nazionale, nell’ Azione Cattolica durante gli Anni ’80, prima
di arrivare a Roma. Oggi le
persone leggono molto più i
social che i libri di teologia.
Alcuni teologi impazzano sul
web senza possedere un dottorato o titolo accademico. Io ho
risposto a una mia esigenza:
ho scommesso su una teologia trasformativa dentro le
istituzioni. È la stessa motivazione che anima l’Atrio dei
Gentili e che ho riscontrato
nell’Azione Cattolica. Per me
è abbastanza coerente. Non
mi interessa fare l’influencer, mi muove il desiderio di avvicinare l’istituzione a una
diversa comprensione della
realtà: le persone passano, ma
le istituzioni restano. Volevo
la docenza stabile in Gregoriana per votare in Consiglio
di Facoltà, per poter dire la
mia, perché la smettessero
di chiamarmi signora e mi
chiamassero professoressa.
Lei è tra le fondatrici del
Coordinamento Teologhe
Italiane: perché l’esigenza di dare vita a questa
realtà?
È legata a un problema di
visibilità, di riconoscimento
della nostra parola. Oggi i
profili accademici come il mio,
soprattutto per le donne, si
stanno riducendo sempre più;
molte facoltà chiudono per
mancanza di seminaristi.
Perciò è necessario uno spazio
autorevole che rappresenti il
peso politico di una comunità
estesa, la forza di un gruppo
per combattere l’invisibilità
e l’isolamento, che valorizzi
le competenze e il lavoro collettivo e sia di supporto alle
giovani studiose che cominciano questo percorso. Oggi
la situazione è molto diversa
da quando abbiamo cominciato noi: per alcuni versi più
facile, per altri più difficile.
Quando mi sono iscritta alla
Gregoriana, su 140 studenti
eravamo due donne: una suora e io, le uniche a non essere
vestite di nero. Non erano
previsti neppure i bagni per
le donne. Eravamo costrette
ad attraversare una piazza
per raggiungerli. Oggi la
nostra presenza, all’interno
di un Ateneo così elitario, è
alta: su tremila studenti le
donne sono circa il 20%. Diversi Ordini femminili hanno
cominciato a far iscrivere le
loro religiose. Finalmente
abbiamo bagni doppi.
Generalmente le studentesse sono molto stimate perché viene loro riconosciuto un
livello motivazionale molto
più alto rispetto al seminarista, mandato dal vescovo,
che ha l’obbligo di studiare.
Nel nostro Albo d’onore, ogni
anno una decina di studenti ottengono una menzione:
otto o nove di loro sono donne.
L’aspetto negativo è invece rappresentato dalla mancanza
di prospettive professionali.
Le facoltà sono in crisi, non
solo in Italia. La teologia non
è merce che vende. La possibilità di un lavoro accademico
è sempre più ristretta, anche
se, la svolta sinodale sta cominciando a far intravedere
lavori laicali ecclesiastici, non
necessariamente accademici soprattutto all’estero. In
Italia prevale ancora l’idea
che molti servizi interni alla
Chiesa possano reggersi solo
sul volontariato.
Molti credenti avvertono la necessità di approcci meno tradizionali alla
Parola: come aiutarli ad
orientarsi?
Sono processi culturali molto lunghi. Dal Concilio di Trento in poi a causa della polemica
con il mondo protestante, il
mondo cattolico fu ‘espropriato’ della Parola, considerata
un sapere destinato solo ai
chierici. Il Concilio di Trento
(1545-1563) stabiliva che la
Bibbia venisse interpretata
solo dai sacerdoti che, da quel
momento, furono obbligati a
studiare la teologia. Da allora
resiste un’idea di sapere che è
diventata di fatto un potere.
Nei secoli i credenti si sono
abituati a questo: nell’ 800 era
considerato normale che i Cristiani non sapessero neppure
in che lingua era stata scritta
la Bibbia. Compensavano i loro
bisogni in altri modi con preghiere, giaculatorie, pratiche
devozionali. Si era creata una
situazione di stallo che esplose con il Concilio Vaticano II
(1962-1965) e rimise nelle
mani dei credenti la Parola
di Dio. Da questa svolta sono
nati un po’ dappertutto gruppi
del Vangelo e della Bibbia e il
dato positivo è la restituzione
del potere e del sapere della
fede a tutti battezzati.
Oggi siamo in una situazione sgradevole in cui possiamo
imbatterci in situazioni discutibili, con interpretazioni
ipermoderniste, fortemente
ideologiche o puramente spirituali. Da una parte questo
è comunque un bene perché
per un apprendimento così
complesso bisogna mettere in
moto tutto quello che si ha a
disposizione, ma può generare
anche disorientamento e fatica
nel cristiano medio. Penso che
ciascuno debba riprendere in
mano con pazienza la Scrittura in modo congruo al proprio
livello culturale. Dico sempre
che non è obbligatorio essere
tutti esegeti, ma è consigliabile avere una conoscenza della
Bibbia pari a quella che abbiamo delle altre cose della vita.
Di quali cambiamenti
l’istituzione della Chiesa
avrebbe bisogno oggi per
rispecchiare la società?
Il problema non è rispecchiare la società: non è che
la società fa tutto giusto solo
perché è moderna e la Chiesa
no. Il problema è mantenere
aperto il dialogo, rinunciare
all’autoreferenzialità e utilizzare un linguaggio diverso,
non religioso. Per esempio
Papa Francesco - e questo ogni
tanto scandalizza - non usa
quasi mai un linguaggio religioso, ogni tanto usa espressioni strane, ma utilizza parole
che tutti comprendiamo. Molti
mi dicono: “Quando Francesco
parla, a volte sono d’accordo,
a volte no, ma capisco quello
che dice”. Non è poco.
Il pontificato di Francesco può essere terreno
fertile per i cambiamenti?
Assolutamente sì: si tende
a giudicarlo sui risultati, ma
lui è un uomo che mette in
atto processi. Forse i risultati
oggettivi non saranno molti,
ma è già riuscito a cambiare
stile. Il cambiamento più urgente deve avvenire all’interno
dell’istituzione. Bisognerebbe
avere il coraggio di fare una
riflessione sul ministero, non
tanto o solo in relazione all’apertura verso le donne. Abbiamo ancora un clero tridentino,
modellato con grande efficacia
dal Concilio di Trento, in una
società che non ha più bisogno
di questo. Il servizio che un
pastore oggi dovrebbe offrire
è altro. C’è molta sofferenza
tra i preti, ne risentono di più quelli bravi e capaci e soffre
anche il popolo di Dio che è
senza pastori.
Un pastore oggi a quali
istanze dovrebbe saper
rispondere?
È questo il problema, non lo
sappiamo, abbiamo bisogno di
capire. Dobbiamo però farci
la domanda: “Di quali preti
abbiamo bisogno?”. Le mie
sono intuizioni frammentarie e penso che nessuno possa
rispondere da solo. Bisogna
mettere in moto processi di
cambiamento e vedere cosa
funziona e cosa no. C’è una
conformazione sacrale di
separazione e di differenza
che il Concilio di Trento ha
imposto al clero rispetto alle
tre dimensioni fondamentali
dell’essere umano: il rapporto
con gli affetti, il legame con
il territorio, la relazione con
il denaro e il potere. Bisogna
cominciare da lì. I preti, per
garantire il servizio e l’efficienza nello svolgimento dei
loro compiti, non lavorano e,
spesso, manca loro il senso del
denaro. Dall’età degli 11 anni
entrano in uno spazio ristretto lontano dalle dinamiche
del mondo. Vivono rapporti
sbilanciati con la famiglia
d’origine e grandi difficoltà
negli affetti. Per quanto io
creda nella figura celibataria, penso che il celibato
dovrebbe essere una libera
scelta del sacerdote. Non si
può crescere, dagli 11 anni,
solo in un mondo di maschi e
presumere di avere sviluppato
sufficiente equilibrio e capacità di relazione. Molti non
hanno il senso dell’intimità
e l’intimità non è un dato di
sessualità, è un dato umano,
la capacità di essere intimi a
se stessi e ai propri affetti.
Secondo me è in gran parte
un falso problema perché se
non cambia la figura ministeriale, otteniamo lo stesso risultato del diaconato permanente
maschile: ‘clericalizziamo’ le
donne invece di smaschilizzare il clero. In parte sarebbe
un messaggio simbolicamente forte di riconoscimento e
consentirebbe loro, come sono
state per i primi sei secoli, di
tornare a essere responsabili
di comunità. Molto banalmente, il diritto canonico, in seguito al Concordato, impedisce,
a chi non fa parte dell’Ordine
Sacro, di diventare rappresentante legale di comunità. Se
invece fai parte del diaconato
puoi firmare in banca per la
parrocchia.
Da credente mi piacerebbe ascoltare in chiesa
l’omelia di una teologa.
Questo è formalmente
proibito dal Codice di Diritto
Canonico, ma accade già da
tantissime parti. È una cosa
che sta cambiando extra legem, in barba alle regole.
A me è capitato più volte di
essere invitata da vescovi
a fare l’omelia, a predicare.
La Chiesa può sorprendere.
Sarebbe bello che diventasse
una consuetudine: l’apertura
alla predicazione femminile
avrebbe un gran ruolo, molto
più che il diaconato.
La Bibbia è sempre un
testo attuale, un capolavoro
di comprensione di tantissime dimensioni e dinamiche
umane. Leggerla ci aiuta a
rispecchiarci, ci mobilita. In
più l’approccio del credente è
animato dallo Spirito che aiuta sempre a vedere il nuovo. La
narrazione di tipo patriarcale
è legata alla cultura di un preciso momento storico. Certo mi
infastidisce, ma l’ermeneutica
viene in soccorso, perciò è ancora più necessario studiare.
Le faccio un esempio: nei primi
capitoli della Genesi, leggiamo che: “Dio la chiamò Eva,
perché era la madre di tutti i
viventi”, grazie alla pessima
traduzione di Girolamo (386
d.C.) che di lingua ebraica ne
sapeva poco e quando lesse il
nome “Hawwah”, lo tradusse
in Eva. Il piccolo problema è
che Hawwah vuol dire “vita”.
“La chiamò Vita perché era la
madre di tutti i viventi”. La
Bibbia è frutto di una storia di
traduzioni molto complessa,
ormai è un testo molto studiato e abbiamo tutti gli elementi
per una restituzione precisa
di ciò che è scritto. A Fossano avete una grande esperta,
Maria Teresa Milano: potrebbe
tornare utile a molti seguire
i suoi corsi.
Quest’anno le lectio in
programma per L’Atrio dei
Gentili affrontano il tema
della speranza.
L’idea è nata da un forte
richiamo: prendere sul serio
il Giubileo della Speranza,
non tanto come atto devozionale e formale, ma come
l’invito di un pastore, che è
Francesco, a non abbatterci per il periodo complesso che
sta attraversando l’umanità.
Occorre reagire per non cedere al senso di impotenza,
alla depressione, all’impoverimento culturale e spirituale, alla fatica di abitare un
tempo così difficile.
Un tempo che lei colloca,
da un punto di vista teologico, nella “fine dei tempi”.
Ogni tempo è la fine dei
tempi, ciascuno di noi ha una
sola certezza: così come siamo nati dobbiamo morire. Il
tempo non è infinito. Per tutti
noi il tempo si avvia alla fine.
Soggettivamente è sempre la
fine dei tempi, oggettivamente
è la fine di un tempo che si
traduce nell’urgenza di non
poter più rimandare. Il kairòs
segna sempre una fine affinché possa fiorire altro. Questa
è la speranza sul tempo nuovo
che nasce, sulla necessità del
passaggio: “Ecco sto facendo
una cosa nuova, non ve ne accorgete?” (Isaia 43,16-21, ndr).