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Marinella Perroni "Dimmi come ti vesti..."

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IL REGNO DELLE DONNE
Marinella Perroni, 17/06/2021

Nel suo discorso alla curia romana del 21 dicembre 2019 papa Francesco ha fatto un’affermazione che mi sembra riassumere con lucidità la sua visione del momento storico nel quale viviamo. Dopo aver ricordato le parole del santo cardinale Newman secondo il quale «Qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni», Francesco ha ripreso quanto aveva già affermato al Convegno della Chiesa italiana di Firenze 2015 («quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca») insistendo sul fatto che  «Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza».

L’abito parla di noi

Di fronte alla forza di questa impegnativa dichiarazione, quanto sto per dire suonerà, a dir poco, inadeguato. Se non fosse che è stato il papa stesso a farmici pensare quando ha aggiunto: «Capita spesso di vivere il cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in realtà come si era prima. Rammento l’espressione enigmatica che si legge in un famoso romanzo italiano: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” (ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa)». Francesco ha abbinato, insomma, cambio d’epoca e cambio di vestito per sottolineare, però, la sostanziale distanza che separa l’uno dall’altro.

Da tempo, invece, io mi domando se proprio l’incapacità di cambiare gli abiti, cioè il proprio modo di «relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero» nonché di rapportarsi al mondo, non sia un segno tangibile della strutturale difficoltà della nostra Chiesa ad accettare quelle che Francesco stesso ha definito le «scelte che trasformano velocemente il modo di vivere». Quando guardiamo le fotografie del nostro recente passato la prima cosa che ci salta agli occhi e che ci dà la misura di “come eravamo” e dei cambiamenti che sono stati davvero “epocali” sono proprio gli elementi di costume che marcano la differenza: lunghezza degli abiti, acconciature dei capelli, modelli di scarpe.  

«Vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione»

Non so se sia una banalità. Non lo credo, e chiamo a testimone quanto successe pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II, il 16 novembre 1965. Il fatto è noto: una quarantina di padri conciliari si riunì nelle catacombe di Domitilla per proclamare e firmare il Patto delle catacombe, che verrà poi firmato anche da qualche centinaio di altri vescovi. Lasciamo da parte il tanto che si può dire da molti punti di vista su quel momento di collegialità ecclesiale e sui suoi significati reali e simbolici, nonché sul fatto che nel 2019, al termine del Sinodo sull’Amazzonia, 150 vescovi hanno voluto rinnovare, nello stesso luogo, quelle stesse promesse. Mi limito a osservare qualcosa che ha però, a mio avviso, una portata davvero “epocale”.

I primi due articoli di quel documento, che per alcuni padri conciliari traduceva immediatamente in pratica quanto vissuto e deciso al Concilio, suonano così:

    «1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Cfr. Mt 5,3; 6,33s; 8,20.

  1. Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici)».

 

Gli abiti, dunque, le stoffe, i colori: tutt’altro che folcloristico, ma sarebbe sciocco circoscriverlo a un impulso pauperistico. Anche quando scorrono sugli schermi delle nostre televisioni, le immagini dei “costumi di scena” clericali confermano la percezione di una distanza sempre più incolmabile, ben lontana dalla determinazione di vivere «come vive ordinariamente la nostra popolazione». Sono segni, ma sono anche segnali dell’incapacità a pensarsi nel tempo e dell’ostentazione della pretesa che ciò che cambia è solo accidentale perché in realtà non è vero che “todo cambia”. Gli apparati religiosi sono sempre i “guardiani della rivoluzione”!    

Creare nuovi stili è questione sostanziale

A nessuno, certo, può essere imposto di fare come Francesco d’Assisi che si spogliò pubblicamente davanti a suo padre per stabilire il punto di non ritorno del suo cammino di conversione.  Ma siamo proprio sicuri che se papa Francesco, magari con un motu propriodecretasse del tutto finita l’era delle sottane e dei bottoncini rossi, delle mantelline e dei pileoli, siamo proprio sicuri che non darebbe così un colpo di accelerazione a quella riforma sistemica della Chiesa di cui tanto c’è bisogno, di cui tanto si parla e che stenta invece a imboccare le strade del possibile?

Il discorso si fa ancora più delicato, ma non meno urgente anche per quanto riguarda l’ambito liturgico. Eppure, tutte le volte che, in mondovisione, ondeggianti processioni di mitrie percorrono la navata di San Pietro per poi essere costrette a quei continui “su e giù” dalle teste canute di chi le indossa di cui è difficile capire qualsiasi possibile significato, non posso fare a meno di domandarmi se, nel caso della Chiesa e del suo apparato, il ragionamento di Francesco non andrebbe ribaltato: creare nuovi stili è sostanziale, non marginale. Forse, cliccare su Google-immagini il termine “mitria” può aiutare a capire.

Ciò non significa certo convocare un “sinodo” di stilisti perché disegnino nuove divise come avviene regolarmente per le compagnie di bandiera o le truppe militari. Significa interrogarsi però, e a fondo, sull’ecclesiologia di cui sono palese attestazione le “divise ecclesiastiche”. Spesso si coltiva la pretesa che le divise non facciano vedere che “il re è nudo”. Francesco, poi, ha ragione: soprattutto in ambienti ad alto tasso di ipocrisia funzionale il pericolo della simulazione gattopardesca è quanto mai reale. Non è molto peggio, però, cedere alla paura di questo pericolo e accettare la paralisi?

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