Piero Stefani "Scale a pioli"
Il Regno
Parole delle Religioni
Scale a pioli
Tintoretto, Giotto e la crocifissione
Piero Stefani
Jacopo Tintoretto nacque a Venezia nella parrocchia dei Santi Cassiano e Cecilia. La chiesa che gli fu familiare fin dall’infanzia custodisce nel suo presbiterio tre opere del maestro. Sopra l’altare maggiore vi è una resurrezione risalente al 1547, a destra una discesa agli inferi (1568), a sinistra una crocifissione (1568).
I vent’anni trascorsi tra la prima opera e le altre due hanno lasciato tracce stilistiche evidenti. Anche il messaggio è mutato; nel mezzo c’è stato il concilio di Trento. La drammatica crocifissione è dotata di molte particolarità, a iniziare dal fatto di essere rappresentata di scorcio e non, come di consueto, di fronte.
Henry James ne rimase impressionato; nel suo libro Compagni di viaggio (1870) il grande scrittore ne fornisce una descrizione intensa, anche se in alcuni particolari inesatta: «Al nostro sguardo si presenta l’intima essenza della grande tragedia che il dipinto descrive (...) Contempliamo la cima silenziosa del Calvario. A destra sorgono tre croci, quella del Salvatore è la più in avanti. Appoggiata, una scala a pioli sostiene un aguzzino con il turbante chino in avanti a ricevere la spugna che un compagno gli porge. Sulla cresta della collina gli elmi e le lance di una schiera di soldati completano la sinistra scena. Il realismo del quadro va al di là di ogni parola: difficile dire che cosa impressiona di più, se il nudo orrore dell’evento rappresentato, o la potenza espressiva del pittore».1
Il particolare inesatto riguarda i due personaggi collocati sui pioli di una scala doppia tanto alta da scavalcare la croce: quello con il turbante non è inclinato in avanti a ricevere ma sta passando all’altro uomo, oltre alla spugna, anche e soprattutto il cartiglio con la scritta «INRI».
La raffigurazione è dotata di un riconoscibile valore simbolico. Il turbante indica l’appartenenza a un mondo orientale; si tratta dunque di un ebreo che sta allungando all’altro uomo, barbuto e a capo scoperto, la scritta voluta da Pilato e vanamente contestata dai capi giudaici (cf. Gv 19,19-22). In tal modo autorità romane e giudei sono uniti sia nella responsabilità della morte di Gesù, sia nella involontaria attestazione della sua regalità.
L’osservatore, anche quando recepisce la presenza di significati simbolici, è però afferrato in modo eminente dalla quotidianità della scena. Pure nel corso dell’evento che racchiude in sé il mistero più grande, la componente operativa svolge il proprio indispensabile ruolo. Per salire in alto è necessaria una scala, se non si sa dove appoggiarla occorre che sia doppia. I due uomini si passano i simboli della passione, come i muratori fanno con i secchi della calce.
Il cartiglio è soltanto una scritta da fissare su un pezzo di legno posto in alto. Nessuno s’accorge che in quel momento sta avvenendo un evento decisivo per l’intera umanità. Tre uomini sono in procinto di morire e gli operai svolgono il banale compito loro affidato.
Non si tratta neppure di aguzzini; lungi dal ficcare chiodi nella carne, stanno portando una spugna volta a fornire al condannato una parvenza di sollievo. Sono lì presenti, ma gli operai nulla comprendono di quanto sta compiendosi. È così anche per noi che avvolgiamo nel grigiore del nostro tran tran quotidiano i drammi del mondo che la fede scorge concentrati sulla cima del Calvario.
Gesù sale in croce
Del tutto diverso è il caso di «Gesù che sale in croce», affresco giottesco custodito nel monastero benedettino di Sant’Antonio in Polesine a Ferrara. A qualsiasi osservatore balza subito agli occhi una caratteristica singolare: appoggiata alla croce, che campeggia al centro della scena, vi è una scala sulla quale sta salendo Gesù. Qui la quotidianità non è nelle condizioni di rivendicare a sé stessa alcun ruolo.
Si coglie subito che si sta compiendo un evento unico e irripetibile. La vittima si offre spontaneamente al supplizio. Gesù sale con le proprie gambe, braccia e volontà sul patibolo per vivere la propria morte. Sul braccio orizzontale della croce sono inginocchiate due figure: una sta allungando un braccio per accogliere Gesù, l’altra tiene in mano un enorme, unico chiodo la cui testa richiama i grani di incenso che, in memoria delle piaghe, si configgono nel cero pasquale. Nella scena anche gli operai sembrano essere in qualche modo consapevoli di quanto sta avvenendo.
Gesù, mentre sta salendo in croce, ha il nimbo e indossa un leggero perizoma fatto di un velo quasi trasparente. Già allora un soldato gli colpisce il fianco destro con la lancia.
Il vistoso anticipo della scena ambientata dal Vangelo di Giovanni dopo la morte (cf. Gv 19,31-37) trova riscontro nel fatto che un’alta autorità ebraica (forse identificabile, nonostante la mancanza di vesti sacerdotali, con Caifa) trattiene con lo sguardo e la mano due armigeri medievali muniti di spada e mazza intenzionati ad avventarsi sul condannato.
I particolari pittorici richiamano vari versetti evangelici. Le armi non colpiscono perché già nel momento di salire in croce Gesù realizza le profezie stando alle quali a lui, come all’agnello pasquale, non sarà spezzato alcun osso (cf. Gv 19,36); ancor prima di consegnare lo spirito (cf. Gv 19,30) dal suo fianco trafitto sgorgano, salvifici, sangue e acqua (cf. Gv 19,34).
Il fatto che l’autorità ebraica, impedendo alla spada e alla mazza di colpire, abbia avuto parte attiva nell’attuazione della profezia è coerente con il fatto che il quarto Vangelo assegna a Caifa «sommo sacerdote di quell’anno» un ruolo profetico, quando dichiarò che era meglio che morisse un uomo solo piuttosto che l’intero popolo (Gv 11,49-52; 18,13).
L’insieme dei riferimenti contenuti nell’affresco trecentesco ribadisce la volontà di raffigurare, accanto alla spontaneità dell’offerta del Figlio, la continuità tra croce e resurrezione propria del Vangelo di Giovanni. Gesù non subisce la morte; all’opposto, egli s’innalza e, così facendo, attira tutti a sé. Nella scena pittorica, l’atto del salire in prima persona va al di là del passivo presente nel passo evangelico: «Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32).
Gesù sta dando la propria vita perché ha il potere di prenderla (cf. Gv 10,17). La parete affrescata comunica l’idea che tutto sia compiuto (cf. Gv 19,30) già quando Gesù sale spontaneamente sulla croce: «Per questo il Padre mi ama: perché do la mia vita, per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10,17-18).
L’ispirazione giovannea dell’affresco trova ulteriore conferma nella scena che si svolge nell’angolo in basso alla destra dell’osservatore. In essa vi sono due figure sedute, rivestite di lunghe tuniche e prive di qualsiasi aspetto militaresco. Uno dei due personaggi sta per tagliare con la spada un ampio mantello. Al loro fianco si trova un giovane biondo, «il discepolo amato», che indica con la mano l’atto di dividere la veste.
A sinistra il sacerdote giudeo trattiene i soldati dall’atto violento di fracassare le ossa al condannato, mentre a destra il discepolo evidenzia la decisione di dividersi le vesti; entrambi i gesti realizzano, a insaputa dei protagonisti, antiche profezie (cf. Gv 19,23-24; Sal 22,19). Nel suo complesso, l’affresco appare orientato ad anticipare visivamente l’ultima azione compiuta da Gesù nell’atto di vivere la propria morte: «“Tutto è compiuto”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30).
Due diverse salite
Due scale: quella doppia di chi compie il proprio normale lavoro mentre attorno a lui si concentra il dramma del mondo, e quella unica e irripetibile di chi è descritto nel compimento di un atto salvifico a favore di tutti gli esseri umani apparsi su questa terra.
Noi viviamo dopo quell’evento. Ci è offerto di essere attratti da chi è stato innalzato, tuttavia non ci è dato di salire in prima persona quella scala. Saliamo invece sempre l’altra, che simboleggia il fatto che nella storia del mondo, a uno sguardo prosaico, anche dopo la morte e la resurrezione di Gesù, tutto sembra essere come prima.
È compito affidato al credente di ricordarsi, mentre si trova sui ripetitivi pioli di quella doppia, della scala su cui è salito di Gesù.
1 Cit. in S. Carnio del Soldà, La chiesa dei Santi Cassiano e Cecilia, Marsilio, Venezia 2014.
Parole delle Religioni
Scale a pioli
Tintoretto, Giotto e la crocifissione
Piero Stefani
Jacopo Tintoretto nacque a Venezia nella parrocchia dei Santi Cassiano e Cecilia. La chiesa che gli fu familiare fin dall’infanzia custodisce nel suo presbiterio tre opere del maestro. Sopra l’altare maggiore vi è una resurrezione risalente al 1547, a destra una discesa agli inferi (1568), a sinistra una crocifissione (1568).
I vent’anni trascorsi tra la prima opera e le altre due hanno lasciato tracce stilistiche evidenti. Anche il messaggio è mutato; nel mezzo c’è stato il concilio di Trento. La drammatica crocifissione è dotata di molte particolarità, a iniziare dal fatto di essere rappresentata di scorcio e non, come di consueto, di fronte.
Henry James ne rimase impressionato; nel suo libro Compagni di viaggio (1870) il grande scrittore ne fornisce una descrizione intensa, anche se in alcuni particolari inesatta: «Al nostro sguardo si presenta l’intima essenza della grande tragedia che il dipinto descrive (...) Contempliamo la cima silenziosa del Calvario. A destra sorgono tre croci, quella del Salvatore è la più in avanti. Appoggiata, una scala a pioli sostiene un aguzzino con il turbante chino in avanti a ricevere la spugna che un compagno gli porge. Sulla cresta della collina gli elmi e le lance di una schiera di soldati completano la sinistra scena. Il realismo del quadro va al di là di ogni parola: difficile dire che cosa impressiona di più, se il nudo orrore dell’evento rappresentato, o la potenza espressiva del pittore».1
Il particolare inesatto riguarda i due personaggi collocati sui pioli di una scala doppia tanto alta da scavalcare la croce: quello con il turbante non è inclinato in avanti a ricevere ma sta passando all’altro uomo, oltre alla spugna, anche e soprattutto il cartiglio con la scritta «INRI».
La raffigurazione è dotata di un riconoscibile valore simbolico. Il turbante indica l’appartenenza a un mondo orientale; si tratta dunque di un ebreo che sta allungando all’altro uomo, barbuto e a capo scoperto, la scritta voluta da Pilato e vanamente contestata dai capi giudaici (cf. Gv 19,19-22). In tal modo autorità romane e giudei sono uniti sia nella responsabilità della morte di Gesù, sia nella involontaria attestazione della sua regalità.
L’osservatore, anche quando recepisce la presenza di significati simbolici, è però afferrato in modo eminente dalla quotidianità della scena. Pure nel corso dell’evento che racchiude in sé il mistero più grande, la componente operativa svolge il proprio indispensabile ruolo. Per salire in alto è necessaria una scala, se non si sa dove appoggiarla occorre che sia doppia. I due uomini si passano i simboli della passione, come i muratori fanno con i secchi della calce.
Il cartiglio è soltanto una scritta da fissare su un pezzo di legno posto in alto. Nessuno s’accorge che in quel momento sta avvenendo un evento decisivo per l’intera umanità. Tre uomini sono in procinto di morire e gli operai svolgono il banale compito loro affidato.
Non si tratta neppure di aguzzini; lungi dal ficcare chiodi nella carne, stanno portando una spugna volta a fornire al condannato una parvenza di sollievo. Sono lì presenti, ma gli operai nulla comprendono di quanto sta compiendosi. È così anche per noi che avvolgiamo nel grigiore del nostro tran tran quotidiano i drammi del mondo che la fede scorge concentrati sulla cima del Calvario.
Gesù sale in croce
Del tutto diverso è il caso di «Gesù che sale in croce», affresco giottesco custodito nel monastero benedettino di Sant’Antonio in Polesine a Ferrara. A qualsiasi osservatore balza subito agli occhi una caratteristica singolare: appoggiata alla croce, che campeggia al centro della scena, vi è una scala sulla quale sta salendo Gesù. Qui la quotidianità non è nelle condizioni di rivendicare a sé stessa alcun ruolo.
Si coglie subito che si sta compiendo un evento unico e irripetibile. La vittima si offre spontaneamente al supplizio. Gesù sale con le proprie gambe, braccia e volontà sul patibolo per vivere la propria morte. Sul braccio orizzontale della croce sono inginocchiate due figure: una sta allungando un braccio per accogliere Gesù, l’altra tiene in mano un enorme, unico chiodo la cui testa richiama i grani di incenso che, in memoria delle piaghe, si configgono nel cero pasquale. Nella scena anche gli operai sembrano essere in qualche modo consapevoli di quanto sta avvenendo.
Gesù, mentre sta salendo in croce, ha il nimbo e indossa un leggero perizoma fatto di un velo quasi trasparente. Già allora un soldato gli colpisce il fianco destro con la lancia.
Il vistoso anticipo della scena ambientata dal Vangelo di Giovanni dopo la morte (cf. Gv 19,31-37) trova riscontro nel fatto che un’alta autorità ebraica (forse identificabile, nonostante la mancanza di vesti sacerdotali, con Caifa) trattiene con lo sguardo e la mano due armigeri medievali muniti di spada e mazza intenzionati ad avventarsi sul condannato.
I particolari pittorici richiamano vari versetti evangelici. Le armi non colpiscono perché già nel momento di salire in croce Gesù realizza le profezie stando alle quali a lui, come all’agnello pasquale, non sarà spezzato alcun osso (cf. Gv 19,36); ancor prima di consegnare lo spirito (cf. Gv 19,30) dal suo fianco trafitto sgorgano, salvifici, sangue e acqua (cf. Gv 19,34).
Il fatto che l’autorità ebraica, impedendo alla spada e alla mazza di colpire, abbia avuto parte attiva nell’attuazione della profezia è coerente con il fatto che il quarto Vangelo assegna a Caifa «sommo sacerdote di quell’anno» un ruolo profetico, quando dichiarò che era meglio che morisse un uomo solo piuttosto che l’intero popolo (Gv 11,49-52; 18,13).
L’insieme dei riferimenti contenuti nell’affresco trecentesco ribadisce la volontà di raffigurare, accanto alla spontaneità dell’offerta del Figlio, la continuità tra croce e resurrezione propria del Vangelo di Giovanni. Gesù non subisce la morte; all’opposto, egli s’innalza e, così facendo, attira tutti a sé. Nella scena pittorica, l’atto del salire in prima persona va al di là del passivo presente nel passo evangelico: «Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32).
Gesù sta dando la propria vita perché ha il potere di prenderla (cf. Gv 10,17). La parete affrescata comunica l’idea che tutto sia compiuto (cf. Gv 19,30) già quando Gesù sale spontaneamente sulla croce: «Per questo il Padre mi ama: perché do la mia vita, per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10,17-18).
L’ispirazione giovannea dell’affresco trova ulteriore conferma nella scena che si svolge nell’angolo in basso alla destra dell’osservatore. In essa vi sono due figure sedute, rivestite di lunghe tuniche e prive di qualsiasi aspetto militaresco. Uno dei due personaggi sta per tagliare con la spada un ampio mantello. Al loro fianco si trova un giovane biondo, «il discepolo amato», che indica con la mano l’atto di dividere la veste.
A sinistra il sacerdote giudeo trattiene i soldati dall’atto violento di fracassare le ossa al condannato, mentre a destra il discepolo evidenzia la decisione di dividersi le vesti; entrambi i gesti realizzano, a insaputa dei protagonisti, antiche profezie (cf. Gv 19,23-24; Sal 22,19). Nel suo complesso, l’affresco appare orientato ad anticipare visivamente l’ultima azione compiuta da Gesù nell’atto di vivere la propria morte: «“Tutto è compiuto”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30).
Due diverse salite
Due scale: quella doppia di chi compie il proprio normale lavoro mentre attorno a lui si concentra il dramma del mondo, e quella unica e irripetibile di chi è descritto nel compimento di un atto salvifico a favore di tutti gli esseri umani apparsi su questa terra.
Noi viviamo dopo quell’evento. Ci è offerto di essere attratti da chi è stato innalzato, tuttavia non ci è dato di salire in prima persona quella scala. Saliamo invece sempre l’altra, che simboleggia il fatto che nella storia del mondo, a uno sguardo prosaico, anche dopo la morte e la resurrezione di Gesù, tutto sembra essere come prima.
È compito affidato al credente di ricordarsi, mentre si trova sui ripetitivi pioli di quella doppia, della scala su cui è salito di Gesù.
1 Cit. in S. Carnio del Soldà, La chiesa dei Santi Cassiano e Cecilia, Marsilio, Venezia 2014.