Omelia 12 aprile 2012 (Ludwig Monti)
1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31
Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto
«Voi amate Cristo senza averlo visto e senza vederlo credete in lui» (1Pt 1,8), scrive Pietro; «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29), dice il Signore Gesù a Tommaso.
In questa Ottava di Pasqua siamo ricondotti all’essenziale: l’amore e la nuda fede, una fede che prescinde da ogni visione. Di più, le parole del Signore risorto esprimono la centralità della fede in modo particolarmente solenne: sono infatti l’ultima beatitudine pronunciata da Gesù e sono la sua ultima parola, nella versione primitiva del quarto vangelo. Sostiamo dunque su questo annuncio del Signore, luce per le nostre vite. È vero, noi non abbiamo visto e non vediamo né la tomba vuota né il Signore risorto. E più passa il tempo, più ci rendiamo conto che questo non vedere ci accompagna come una costante: siamo partiti pensando di aver ascoltato, cioè intravisto, qualcosa che apriva per noi un sentiero di comunione con il Signore; poi con il passare del tempo abbiamo constatato che il non vedere si estendeva sempre di più, in molti sensi, come una sorta di costante della nostra esistenza quotidiana vissuta con il Signore. Che fare allora? Scoraggiarsi? Disertare il compito affidatoci di essere donne e uomini cristiani? Tutt’altro. Ci è chiesto di fare obbedienza con radiosa semplicità alla beatitudine di Gesù: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto». Hanno creduto, hanno aderito a che cosa? All’amore (cf. 1Gv 4,16) «fino alla fine, fino all’estremo» (Gv 13,1) di Gesù Cristo per noi, narrazione della storia dell’amore infinito di un Dio che si inchina davanti a noi e ci lava i piedi. Un amore che ci spinge a riamarlo, a vivere la nostra fede come amore perseverante verso di lui, il Signore delle nostre vite: «Voi amate Cristo senza averlo visto e senza vederlo credete in lui». Se crediamo all’amore di Gesù, presenza fedele accanto a noi, più reale di qualsiasi realtà vista con i nostri occhi, allora ogni cosa acquista una luce diversa: siamo anche resi capaci da lui, grazie solo e soltanto alla comunione con lui, di amarci gli uni gli altri sul suo esempio (cf. Gv 13,34; 15,12), di lavarci i piedi come lui ha fatto con noi (cf. Gv 13,14-15). In questa pratica di vita possiamo giungere a trovare la vera beatitudine, la gioia che niente e nessuno potrà mai rapirci. Nessun ingenuo ottimismo, nessun salto nel vuoto dei nostri buoni propositi; ma una fede salda, sì salda e convinta in questo amore crocifisso e risorto, ricevuto e donato. Siamo veramente beati se lo comprendiamo e lo viviamo, perché questa è la beatitudine che riassume tutte quelle pronunciate da Gesù nei vangeli. È la beatitudine che ogni giorno siamo chiamati a ri-attingere dal Vangelo, il segno scritto di una «fede che opera attraverso l’amore» (Gal 5,6). Per questo il discepolo amato conclude: «Questi segni sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo Nome» (Gv 20,31). La vita con Cristo, che scaturisce da una fede amante, sia la nostra gioia, anche quando non vediamo, soprattutto quando non vediamo. Perché questa è la semplicità e la felicità beata della vita cristiana: non vedere il Signore risorto con i nostri occhi di carne, eppure vedere tutto, proprio tutto, con lui, per lui e in lui, l’Amore fedele della nostra vita.
In questa Ottava di Pasqua siamo ricondotti all’essenziale: l’amore e la nuda fede, una fede che prescinde da ogni visione. Di più, le parole del Signore risorto esprimono la centralità della fede in modo particolarmente solenne: sono infatti l’ultima beatitudine pronunciata da Gesù e sono la sua ultima parola, nella versione primitiva del quarto vangelo. Sostiamo dunque su questo annuncio del Signore, luce per le nostre vite. È vero, noi non abbiamo visto e non vediamo né la tomba vuota né il Signore risorto. E più passa il tempo, più ci rendiamo conto che questo non vedere ci accompagna come una costante: siamo partiti pensando di aver ascoltato, cioè intravisto, qualcosa che apriva per noi un sentiero di comunione con il Signore; poi con il passare del tempo abbiamo constatato che il non vedere si estendeva sempre di più, in molti sensi, come una sorta di costante della nostra esistenza quotidiana vissuta con il Signore. Che fare allora? Scoraggiarsi? Disertare il compito affidatoci di essere donne e uomini cristiani? Tutt’altro. Ci è chiesto di fare obbedienza con radiosa semplicità alla beatitudine di Gesù: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto». Hanno creduto, hanno aderito a che cosa? All’amore (cf. 1Gv 4,16) «fino alla fine, fino all’estremo» (Gv 13,1) di Gesù Cristo per noi, narrazione della storia dell’amore infinito di un Dio che si inchina davanti a noi e ci lava i piedi. Un amore che ci spinge a riamarlo, a vivere la nostra fede come amore perseverante verso di lui, il Signore delle nostre vite: «Voi amate Cristo senza averlo visto e senza vederlo credete in lui». Se crediamo all’amore di Gesù, presenza fedele accanto a noi, più reale di qualsiasi realtà vista con i nostri occhi, allora ogni cosa acquista una luce diversa: siamo anche resi capaci da lui, grazie solo e soltanto alla comunione con lui, di amarci gli uni gli altri sul suo esempio (cf. Gv 13,34; 15,12), di lavarci i piedi come lui ha fatto con noi (cf. Gv 13,14-15). In questa pratica di vita possiamo giungere a trovare la vera beatitudine, la gioia che niente e nessuno potrà mai rapirci. Nessun ingenuo ottimismo, nessun salto nel vuoto dei nostri buoni propositi; ma una fede salda, sì salda e convinta in questo amore crocifisso e risorto, ricevuto e donato. Siamo veramente beati se lo comprendiamo e lo viviamo, perché questa è la beatitudine che riassume tutte quelle pronunciate da Gesù nei vangeli. È la beatitudine che ogni giorno siamo chiamati a ri-attingere dal Vangelo, il segno scritto di una «fede che opera attraverso l’amore» (Gal 5,6). Per questo il discepolo amato conclude: «Questi segni sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo Nome» (Gv 20,31). La vita con Cristo, che scaturisce da una fede amante, sia la nostra gioia, anche quando non vediamo, soprattutto quando non vediamo. Perché questa è la semplicità e la felicità beata della vita cristiana: non vedere il Signore risorto con i nostri occhi di carne, eppure vedere tutto, proprio tutto, con lui, per lui e in lui, l’Amore fedele della nostra vita.