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La parola della croce (Enzo Bianchi)

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Da sempre nel cristianesimo ciò che appare “scandalo e follia” è l’evento della croce e, di conseguenza, anche le metafore e i segni della croce. Al cristiano si ripresenta la tentazione di “svuotare la croce”, come denuncia Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (1,17), così come al non cristiano la croce e la sua logica appaiono disumane se non un falso tentativo di interpretazione della sofferenza. Questo da sempre. Ma oggi – in questi nostri tempi contrassegnati nel mondo occidentale dal benessere materiale, dall’abbondanza di ricchezze e di comodità, dalla ricerca di piacere a basso prezzo, dalla convinzione che tutto ciò che è tecnicamente possibile ed economicamente ottenibile è per ciò stesso lecito e auspicabile – dobbiamo constatare che la rimozione della croce è quotidianamente attestata in mille modi, a volte rozzi, a volte molto sottili, e il fondamento stesso del cristianesimo ha perso evidenza, risulta sbiadito, annebbiato. Si pensi al tentativo di presentare la vita cristiana soltanto sotto il segno della resurrezione, quasi fosse una festa continua; si pensi alle energie spese per presentare ai giovani un vangelo accattivante perché liberato dalle esigenze della “rinuncia” (elemento essenziale della stessa liturgia battesimale, oggi ridotto a termine impronunciabile), della disciplina, del rinnegamento di sé, del prendere su di sé la croce (espressioni evangeliche oggi considerate “sconvenienti” a pronunciarsi);
si pensi alla scena, cui si assiste sempre più frequentemente nello spazio ecclesiale, di retori gnostici non cristiani che declinano a loro modo la fede cristiana, riproponendo ai credenti un cristianesimo svuotato dalla follia della croce e arricchito dal discorso intellettuale persuasivo. Ormai Celso non è più il filosofo del II secolo che denigrava i cristiani a causa del loro Signore – un crocifisso – e della composizione sociologica – estremamente povera – della chiesa: no, il nuovo Celso elogia e loda un Gesù che è maestro di filantropia e adula i cristiani così importanti e determinanti nella pólis, ma per fare questo annebbia, oscura, relega nell’oblio ciò che è l’evento fondatore e ispiratore della vita cristiana. E accanto al nuovo Celso c’è il nuovo imperatore, che come l’antico tratteggiato da Ilario di Poitiers, il grande padre della chiesa del IV secolo, “è insidioso e lusinga, non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; ci spinge non verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro” (Liber contra Constantium 5). Così, senza essere contestata visibilmente e direttamente, la croce è svuotata! Eppure, con quanta insistenza e con che forza Giovanni Paolo II ritorna a chiedere ai cristiani di “non svuotare la croce di Cristo”!
 Almeno una volta all’anno, al venerdì santo, la croce è posta davanti ai fedeli in tutta la sua realtà e la sua verità: c’è Gesù di Nazaret, un uomo, un rabbi, un profeta che è appeso a un legno nella nudità assoluta, un uomo crocifisso che appare anatema, scomunicato, indegno del cielo e della terra, un uomo abbandonato dai suoi discepoli, un uomo che muore disprezzato da quanti sono testimoni del suo supplizio ignominioso. Quell’uomo è Gesù il giusto, che muore così a causa del mondo ingiusto in cui ha vissuto, quell’uomo è il credente fedele a Dio anche se muore come peccatore abbandonato da Dio, quell’uomo è il Figlio di Dio cui il Padre darà risposta nel passaggio dalla morte alla resurrezione. Eppure questo evento della croce, avvenuto a Gerusalemme il 7 aprile dell’anno 30 della nostra era, può essere svuotato anche attraverso le sue metafore o i suoi segni, e noi cristiani dobbiamo restare vigilanti per non finire come gli uomini “religiosi” di ogni tempo che sentono nella crocifissione uno scandalo, o come i “sapienti” di questo mondo che la giudicano follia. La croce è la “sapienza di Dio” e san Paolo, coniando l’espressione “la parola della croce”, dice che l’evento che essa crea è l’evangelo, la buona notizia.
Il cristiano non è invitato dalla croce né al dolorismo né alla rassegnazione, né tantomeno a leggere la vita di Gesù a partire da essa, ma deve riconoscere che la vita di Gesù e la forma della sua morte, la crocifissione, sono state narrazioni di Dio, del Dio vivente che ama gli uomini anche quando sono malvagi, del Dio che perdona quelli che gli sono nemici nel momento stesso in cui essi si manifestano come tali, del Dio che accetta di essere rifiutato e ucciso volendo che il peccatore si converta e viva. La croce è allora anche la denuncia del nostro essere malvagi, sedotti dal male, peccatori e ingiusti, sicché il Giusto deve patire, essere rifiutato condannato e crocifisso. Sì, la croce è diventata l’emblema del cristiano – emblema a volte esaltato trionfalisticamente, altre volte ridotto a monile ornamentale o svilito a gesto scaramantico, altre ancora banalizzato a metafora di semplici avversità quotidiane – ma o essa permane memoria dello “strumento della propria esecuzione” per mettere a morte l’ ”uomo vecchio” che è in noi, oppure è un segno non abitato dall’evento e diviene, quindi, una mistificazione. Lutero, meditando sulla croce e facendosi qui eco dei padri della chiesa, scriveva: “Non è sufficiente conoscere Dio nella sua gloria e maestà, ma è anche necessario conoscerlo nell’umiliazione e nell’infamia della croce… In Cristo, nel Crocifisso stanno la vera teologia e la vera conoscenza di Dio”.


ENZO BIANCHI, Le parole della spiritualità,
Rizzoli, 1999 pp. 101-104

Fonte: MonasterodiBose
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