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Mauro Corona. Intervista

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Da laico nella città – Rubrica a cura di Daniele Rocchetti 

Attorno a Mauro Corona ci si divide aspramente tra chi lo ama (e il successo editoriale che continua oramai da molti anni è davvero di grande entità) e chi proprio non lo sopporta. Non sopporta la sua tracotanza e un gusto per la provocazione che a volte lo fa andare oltre le righe. La sua presenza a Carta Bianca, il talk di Bianca Berlinguer, è spesso oggetto di discussioni e polemiche. Eppure Mauro Corona è molto di più del personaggio che – astutamente – è stato capace di ritagliarsi e nel quale spesso si rifugia. Scrittore, scultore, alpinista: un uomo dalle mille vite e dalle mille contraddizioni. Molti anni fa mi è capitato di passare un giorno insieme. Quello che segue è una parte del lungo dialogo.

Sono salito fino a Erto, paese che porta ancora oggi le ferite della gigantesca e mortifera ondata del Vajont, per incontrare Mauro Corona. Avevo letto tutti i suoi libri e mi erano piaciuti molto: mi ero fidato di Magris, il fine germanista e critico triestino che, presentando il primo libro dello scalatore, aveva scritto che “Corona è scrittore scarno e asciutto, e insieme magico nell’essenzialità con cui narra storie fiabesche e insieme di brusca, elementare realtà. I suoi racconti hanno l’autorità della favola, in cui il meraviglioso si impone con assoluta semplicità, con l’evidenza del quotidiano. In loro c’è comunione con la natura, col fluire nascosto e incessante della vita, e un’infinita, intrepida solitudine”. 

Il “personaggio” Corona, però, mi prendeva meno, forse per via dei capelli lunghi, della bandana sulla fronte e della canotta, portata anche d’inverno. Alcune interviste lette recentemente mi avevano poi fatto pensare che, oramai, fosse caduto nella trappola del successo (e che successo! Con l’ultimo testo, pubblicato da Mondadori, Corona ha venduto più di seicentomila copie di libri). Persino il suo sito mi infastidiva: www.dispersoneiboschi.it , con quel tono esagerato, forzatamente eccentrico. Insomma: mentre mi arrampicavo con la macchina sopra Longarone, passando vicino alla Diga, mi chiedevo quanto sarei riuscito a sopportare un personaggio che sembrava essersi “costruito” ad arte, che risponde “avanti” al telefono e, se la giornata non è delle migliori, complice una notte trascorsa con gli amici in osteria, è capace di mandarti a quel paese. 

Avevo calcolato i tempi tecnici dell’intervista. Qualche domanda e, se il clima dell’incontro non fosse stato dei migliori, tanti saluti e arrivederci a chissà quando. L’incontro, invece, mi ha spiazzato. Non solo perché è durato un giorno intero ma perché ho incontrato un uomo migliore anche del suo “personaggio”: complesso e ruvido ma autentico e sincero. Non è stato subito così: all’inizio, c’è stata una certa diffidenza che si è sciolta presto, diventando, via via, confidenza, quando gli ho regalato la raccolta di poesie di padre Turoldo (suo insegnante al Collegio don Bosco di Pordenone). 

Mauro ha accettato di mettersi in gioco, con profonda umanità e schiettezza. Ho scoperto così un uomo colto, molto colto, appassionato di libri, profondo conoscitore della letteratura mitteleuropea e sudamericana, capace di citare a memoria intere pagine di Walser, Brodskij, Steiner o di Borges. Abbiamo dialogato a lungo nella sua splendida e disordinata bottega studio tra grandi statue di legno, fogli di schizzi e disegni e centinaia di libri. Mauro era tornato il giorno prima dalla Buchmesse di Francoforte, dove aveva tenuto una conferenza al Centro Culturale Italiano. 

Non hai paura, qualche volta, del successo imprevisto che ti è cascato addosso? 
Cerco di tenerlo lontano il più possibile… 

Come fai? 
Fuggo a scalare e faccio di tutto per non farmi trovare. Sto via anche un mese nella mia baita in mezzo ai boschi. E poi schivo le occasioni che non trovo intelligenti. Vado a seminare solo quando serve e per quel poco che mi serve: ho tre figli all’Università da mantenere. Comunque questa gloria che mi è capitata addosso non mi convince. Spesso mi dico che è venuto il momento di lasciare tutto e di andare da qualche parte a vangare il campo, a costruire una baracca, perché c’è gente, da qualche parte, che potrebbe aver bisogno di me… Sento un debito che vorrei onorare… 

Anche scrivere libri può essere un modo per restituire qualcosa… 
No! Bisogna dare una mano: quando vedo quei poveracci che arrivano con un barca e sprofondano in mare aperto… è gente che ha un’anima! E poi un Borghezio qualsiasi mi viene a dire “affondate quelle navi”… Allora mi sento ribollire dentro, scatta “l’aquila” che è in me… Quando penso che quella gente ha perso figli e parenti, che non sa più dove sono, mentre, noi, qui a gozzovigliare… Dovremo renderne conto! 

Nell’ultimo libro fa spesso capolino la fede... 
La fede è un grande tema. Io sono un peccatore, però per tradizione e per convinzione sono convinto dell’esistenza di Dio… Un giorno sono salito sul Campanile di Montanaia insieme al mio amico Erri De Luca. Ad un certo momento Erri mi ha detto: “Ho visto tracce dell’orso, ma non ho visto l’orso”. Gli ho risposto: “Ma se hai visto tracce c’è anche l’orso… non può essere la gallina se è la zampa dell’orso…”. Anch’io ho trovato in giro troppe tracce per poter dubitare… Inoltre credere mi aiuta a non coltivare i falsi miti come quello di pensare che la vita sia solo conquista, roba, soldi, fama, o che non valga la pena di viverla nel rispetto e nell’affetto. Anche se…. 

Anche se… 
Mi piacerebbe che i preti imparassero a stare un po’ di più con la gente. Spesso invece sono lì con il dito puntato. Sai cosa diceva Brodskij: “Attenzione al dito inquisitore… Sempre lì…”: bisognerebbe essere meno sentenziosi e capire di più la fatica delle persone. 

Non ha mai dei periodi di paura..? 
Paura ce l’ho ogni volta che mi sveglio. Soprattutto paura della morte: mia e delle persone a cui voglio bene. E’ la paura che mi spinge ad agire. Questo è il prezzo che dobbiamo pagare per essere al mondo… Guardo spesso questa piccola statuina che ho costruito con il filo di ferro e del nastro isolante nero e che rappresenta una signora con la falce, simbolo della morte. E’ come se mi dicesse: “Guarda arriva. Sta attento e vedi di non fare troppo il gradasso”. Dalla montagna, dal legno, ho imparato che per vivere bene dobbiamo imparare a togliere. Invece noi, al contrario, accumuliamo, proprio per paura della morte, per esorcizzarla. Sono stato recentemente a Milano e ho visto una città caotica, piena di gente che corre e investe. Per fare che? Investi in tempo libero! Bisogna spegnere lampadine e non fare centrali elettriche o atomiche, bisogna tornare all’essenziale altrimenti non ce la faremo più. Io ho deciso di portare a termine questi ultimi libri e poi smettere di scrivere. 

Non ti reputi uno scrittore? 
No! 

Magris però ha scritto delle cose belle su di te 
Ma uno non può reputarsi uno scrittore. Mi sento, piuttosto, uno scultore, perché ho cominciato da bambino a manovrare legni, a modificare tronchi, che già sono belli di per sé. Invece come scrittore, mi ritrovo in quello che ha detto il grande Borges: “Vedo me stesso essenzialmente come lettore. Mi è accaduto di avventurarmi a scrivere, ma ritengo che quello che ho letto sia molto più importante di quello che ho scritto”. Geneticamente sono uno scultore: lo era il mio bisnonno, il mio nonno e pure mio padre. In un tempo in cui tutto è di plastica provo piacere a lavorare il legno… 

Scolpire cosa vuol dire? 
Adesso te lo dico: mi dà una gioia…! Guarda, io uso poco questa parola eppure è quello che provo ogni volta che lavoro il legno. Quando scolpisco non mi sento un fallito! Perchè vedo che da un tronco viene fuori un visetto, una figura e penso che mi sento vivo, che non son vissuto invano… che non ho fallito… Ma questo ha significato per me stesso, non serve per dimostrare che son bravo. Dobbiamo smetterla di educare bambini convinti di essere sempre i migliori. Un carpino non può essere un faggio. Potrà fare cose stupende, ma sarà sempre diverso dal faggio. Un giovane che mira a vincere ha già perso tutto, è sulla strada sbagliata, dovrà sempre fuggire da se stesso. Non a caso, nel mio ultimo libro, parlo delle scalate ma soprattutto dei fallimenti. Quelli che, normalmente, un alpinista non racconta mai. 

Insomma, bisogna non avere paura di essere quello che si è… 
Naturale! Lo predico sempre ai ragazzi che incontro nelle scuole. Siate autentici, naturali. Oggi non affronto più una situazione con l’obiettivo di vincere a tutti i costi. Anche quando sono salito su una montagna difficile o apro una via non scrivo: “attaccammo la montagna!” ma, piuttosto, “chiedemmo permesso, se ci lasciava salire”… Questo vale anche nelle relazioni. 

Ma secondo te educare è ancora possibile? 
Si! Bisogna farlo presto: con i bambini piccoli, tra i tre e i sei anni. Dopo, sono rovinati, camminano sulla strada scelta… Bisogna insistere con il perdono. Dire loro che vale più del rancore. Solo allora un bambino cresce con la convinzione che si deve e si può perdonare e… si applica. Invece, gli adulti insegnano a vendicarsi. Gli stessi genitori dicono ai loro figli “se subisci uno sgarro, fagliela pagare!” Altro che bandiere della pace esposte sui balconi…! Il gatto del vicino attraversa il tuo orto e tu gli uccidi il gatto… . In questo modo si arriva alla guerra. Le bombe vengono dopo. Se non partiamo dalle cose piccole, il resto è tutta demagogia. 

Insisti molto sull’idea di “togliere”. Come una scultura nella vita bisogna togliere… Invece noi continuiamo ad aggiungere… 
Se hai, devi difenderti e ti aumentano le ansie… 

Tu sei capace di perdonare? 
Ho imparato a poco a poco. In un mio libro racconto di una donna che, quando ero piccolo, mi vide prendere dalla discarica un paio di scarpe da bambino che lei aveva gettato. “Sono mie”, mi gridò e mi obbligò a lasciarle lì. Non l’ho più perdonata e le ho tolto il saluto. Credo di averla odiata e ogni qual volta la incontravo provavo un moto di rabbia e di ribrezzo. Ora è morta e il pensiero di lei mi rincorre spesso. Avrei potuto berci un caffè insieme, rivolgerle la parola. Adesso che è mancata, sento che la prenderei in braccio, con dolcezza. Ma non l’ho fatto: sono l’uomo dei treni perduti… 

Sei l’uomo dei treni perduti? 
Eh sì, ma non quelli delle occasioni di denaro o dei “Maurizi Costanzi Show”: i treni dell’affetto, i treni delle cose che contano…. 

Eppure tu sostieni che l’uomo deve “bastare a se stesso”…. 
La mia filosofia è diversa, non è un atto di egoismo. Lo ripeto sempre: “Io mi basto” e questo dovrebbe valere per tutti, perché se uno basta a sé, non vive dipendenze, da via tutto il resto. La completezza ti fa aprire, senza risentimento, agli altri. La teoria del “bastarti” fa sì che tu sia invulnerabile, per cui diventi scanzonato e generoso. Il “bastarsi” è la non dipendenza da: io ti posso fare otto giorni di sbornie e otto mesi solo ad acqua… 

Spiegami meglio… 
Vedi, la vita è sospe­sa a un filo: dipendia­mo dagli eventi. Ma è chiaro che il verbo dipendere riporta all’idea di pendere a un filo, e di pendere in quan­to dipendere. Come intuiva il grande Michelstaedter, noi siamo come un peso che “pende a un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende”. Chi cerca la felicità ha già sbagliato, perché ha bisogno di qualcosa, dipende da qualcosa… Uno esiste ! E’ chiaro che se mi muore un figlio, sarò straziato, ma non mi sparo… In un libro, racconto la storia della Giobba, una donna di qui che perse nove figli maschi. Ogni volta lei diceva: “Così vuole Dio”, e ogni mattina, pur piena di dolore, risorgeva. Il dolore se l’è portato avanti fino quasi a cent’anni però non è rimasta annientata. So che non è facile capire questo: anch’io ho i miei problemi… sono l’uomo più incoerente del pianeta, eppure ogni giorno devo trovare la forza per ripartire. Io sono quello che nasce la mattina… Pessoa diceva: “Siamo una moltitudine”. E’ la fantasia della vita che ci obbliga a rispondere, in maniera diversa, al nuovo giorno. 

Nei tuoi racconti ci sono tanti tipi originali. Persone un po’ diverse che però fanno la ricchezza di un paese, di una comunità. Oggi viviamo una grande omologazione…. 
E’ vero quanto dici. E’ il famoso globalismo che ha portato con sé l’appiattimento di genti e culture, anche se non lo si deve combattere spaccando vetrine altrui. In questi paesi, fino a non molto tempo fa, c’erano un mucchio di persone originali. Musicisti: c’era uno che cantava in modo perfetto la Tosca dalla A alla Z; gente di cultura, che leggeva: io ho libri del Settecento ereditati da mio nonno. Oggi invece c’è un appiattimento, anche perché siamo presi tutti dalla smania di diventare famosi, di essere pezzi unici! E’ la cattiva cultura della televisione. Tra “l’uomo che non deve chiedere mai” e “il tonno che si taglia con un grissino” abbiamo cresciuto generazioni che non godono di quanto fanno ma pensano le loro abilità in funzione di quanto possano rendere. Quando uno scopre che non può suonare la chitarra come John Lennon subito smette. Ma suona per te, per il gusto di imparare.. Certo, per fare questo, ci vuole fatica. Parola che noi abbiamo bandito dal vocabolario… 

In che senso? 
La fatica è l’unico modo per imparare a vivere. Per vivere bene. La fatica è la medicina del pianeta… Ti rilassa! La fatica è come vangare la terra con la pala: la terra si sente viva. Quando vango la terra con fatica, voglio bene alla terra, e lei lo sente. Fare fatica è voler bene a ciò che si fa, e dopo la fatica il corpo si rilascia, dà spazio alla mente, non le impone nevrosi e impazienze. Il corpo dell’uomo come quello degli animali va usato, deve bruciare. Come la terra: va usata… 

Tu vivi in mezzo ai boschi. Sei più avvantaggiato rispetto a chi vive nel caos delle città? 
No, no! Ciascuno, indipendentemente dal posto dove si trova, deve sviluppare il bosco che ha dentro di sè! Io non ho mai visto la Pietà di Michelangelo né penso che andrò mai a vederla, però sapere che esiste mi fa vivere meglio. Non voglio rovinarmi questo mistero… L’uomo di oggi deve sempre palpare, toccare, trovarsi nell’ambiente ideale: è la smania del catturare e dell’impossessarsi di tutto…. Anch’io da giovane scalavo le montagne perché volevo andare a vincere, accumulare record su record. Ora ho imparato che le cose più belle sono quelle che uno impara a coltivare dentro. Senza alibi o scuse. Penso di aver avuto un’infanzia difficile e chi legge i miei libri lo sa, per questo difficilmente sorrido o tiro pacche. Come diceva Balzac “solo gli sciocchi sorridono a colazione alla mattina”. Eppure, cerco, ogni giorno, di coltivare il mio bosco interiore. Inoltre, non tutti possono andare a dormire sugli alberi come faccio io! 

Lo fai ancora spesso? 
In primavera, in particolare, perché mi sento vicino a Dio, vicino al cosmo, al creato, alle anime dei morti… Nelle notti di primavera, nelle radure, li sento tutti lì attorno… e se ti concentri un po’ senti le voci di questi folletti, degli gnomi… sono i nostri morti… sento il mio corpo che si adegua alla terra… che non ha più freddo e non ha più paura 

Per finire, raccontami un po’ della tua passione per la montagna… 
Quella è una roba che hai nel DNA, che non sradichi! Anche se, a poco a poco, ho compreso che pure in montagna può prenderti il demone della conquista. La vera montagna è camminare a mani in tasca, sedere su una cima e aspettare, ascoltare. Queste sono oggi le mie grandi scalate! E guarda che ne ho scalate di montagne. Ho aperto più di trecento vie sulle Dolomiti e alcune sono ancora inviolate. Però, l’arrampicata, a volte, è il segno di una paura che l’uomo ha e sulla quale vuole imporsi. Salito in cima, subito gli viene la smania di “conquistarne” un’altra…. I famosi colpi di coda dei vecchi scalatori spesso non sono altro che il loro fallimento!… Io per primo! Non serve dimostrare! La vera montagna è prendere un bambino, un amico e portarlo sulla cima e insieme bersi una bottiglia… Ultimamente ho rifiutato alcuni compagni perché arrivati su una cima sono impazienti di scendere perché hanno un altro impegno… Dico loro: su una cima, aspetto il tramonto e, se mi va, dormo lì… In quei momenti, sembra che la terra, la montagna mi abbracci. Sto li e e ascolto… Sento il picchio che lavora di notte… sento i gufi… sento Dio… 

Lo trovi spesso Dio? 
Sì… basta mettersi in ascolto. Ti sei accorto che lo abbiamo trovato anche in questa chiacchierata? 



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