Non è importante avere una vita lunga ma una vita larga, capace di moltiplicare i mondi e allargare orizzonti grazie alla forza del desiderio
17 LUGLIO 2024
Lucia De Ioanna
Un viaggio esistenziale vertiginoso intorno ai volti del desiderio: di fronte al folto pubblico presente martedì 16 luglio 2024 al Parco Ducale per ascoltarlo, Massimo Recalcati, ospite con lo spettacolo I volti del desiderio della rassegna Summertime, avvia il suo discorso a partire dall’immagine di una pioggia che batte obliqua sui vetri, ricordo infantile e, nello stesso tempo, figura delle nostre vite: l’origine di tutto per Lucrezio avviene con una pioggia di atomi in cui si verificano piccole deviazioni, scarti imprevisti, l’irruzione del caso a smagliare la trama della necessità: “La nostra vita assomiglia a questa gocce che cadono, nessuna da sola. Ed è l’incontro con le altre gocce che devia il nostro cammino”.
Il primo nome del desiderio è incontro perché “siamo quello che abbiamo fatto degli incontri che ci hanno fatto”. Il punto è saperlo afferrare al volo quel momento, saper cogliere la luce di quella goccia e l’invito disegnato dalla sua traiettoria.Nella vita dello studioso, la goccia lucente che ha saputo tracciare una traiettoria imprevista sul vetro corrusco dell’adolescenza rifletteva il volto di Giulia, giovane professoressa di Lettere incontrata all’istituto Agrario di Quarto Oggiaro, “uno dei quartieri della periferia di Milano più poveri e inquieti”.
Giulia fa il suo ingresso nella classe del giovane Recalcati “come un corpo celeste che proviene da un altro universo”. Motore di qualsiasi didattica, è un’erotica, la capacità di un insegnante di testimoniare, incarnandolo, il suo amore per lo studio: la voce di Giulia ispira, il suo volto si illumina quando legge le poesie ed è “una traccia luminosa nella notte che non ci si aspetta e che quando arriva sembra trasformare ogni cosa”.
Le tessere per tentare di comporre i volti del desiderio sono schegge di film, quadri, romanzi forse perché è il territorio dell’arte quello in cui le tensioni possono mostrarsi senza necessariamente doversi risolvere.
Se il padre, fitoterapista, curava le piante malate con trattamenti che, agli occhi del bambino, apparivano come “pozioni magiche per curare il dolore delle foglie”, prefigurazione della possibilità di curare il dolore degli uomini, la svolta che porta Recalcati a orientarsi verso la psicoanalisi dopo gli studi filosofici è un incrocio tragico del destino: sopraggiunto per primo sul luogo di un incidente, vede il corpo di una donna sbalzato sull’asfalto e, al volante, un morto. Da lì, la necessità di “dare alla vita una seconda possibilità mettendomi in psicoanalisi per curare la mia angoscia”.
Incontrare il limite della vita significa intuire che, come ricorda ai suoi allievi il professor John Keating, “siamo destinati a diventare concime per i fiori”. Se siamo polvere destinata a tornare polvere, la gioia brilla nell’attimo e “il desiderio esige adesso la sua soddisfazione, non in altro tempo o in un altro mondo”. Lo insegna Gesù nel momento in cui, desiderando mangiare un fico e trovando che l’albero ne era privo, lo maledice. “Il peccato più grande è diventare simili a quel fico che non genera frutti” perché “non è importante avere una vita lunga ma avere una vita larga, capace di moltiplicare i mondi, di allargare gli orizzonti grazie alla forza del desiderio”.
E, così come Gesù moltiplica pochi pani e pesci, allo stesso modo noi “con quel poco che abbiamo”, se siamo nel desiderio – miracolo laico e umano - possiamo arricchire la nostra vita, moltiplicarne le forze.
Mentre il volto della madre è respiro che “ossigena la vita del figlio che, desiderato e atteso, diventa a sua volta capace di desiderare”, quando la parola del figlio non viene ascoltata, si ha un deperimento della vita, una sua mortificazione.
Ma incontrare l’ascolto può significare salvezza. Così fu per la giovane Margarethe, l’ultima paziente di Freud, che, in un’intervista a Repubblica, ricordò come il padre della psicoanalisi, dopo avere messo alla porta una madre che copriva la voce della figlia rispondendo puntualmente al suo posto, fu la prima persona capace di interessarsi alla sua parola.
Ed è la parola, strumento umano per eccellenza, che può cambiare la traiettoria di una vita, rimettendone in moto le energie bloccate da un trauma: parlando della sua insonnia, del suo risvegliarsi ogni notte nell’ora in cui i nazisti fecero irruzione nella sua casa per avviare il micidiale meccanismo della deportazione, “quando Suzanne pronuncia la parola Gestapo, Lacan si alza e le accarezza il volto dicendo geste à peau, carezza. Gesto di tenerezza inaspettato che riformula la parola traumatica in una parola di salvezza”.
La Parabola dei ciechi di Bruegel, è porta di accesso su un “desiderio cieco, mosso da costante inquietudine, sempre alla ricerca di ciò che manca: tratto della contemporaneità, siamo ipnotizzati dall’oggetto del desiderio che è sempre altro rispetto a ciò che abbiamo”. Da qui, una spirale di illusione e delusione da cui è difficile uscire restando nel recinto di un’eterna insoddisfazione. La salvezza non può trovarsi nel feticismo degli oggetti che – abiti o amori seriali che siano - sempre si rivelano deludenti rispetto all’ideale: “l’appropriazione dell’oggetto implica uno scadimento del valore dell’oggetto”.
Come è possibile liberarsi, scartare di lato e uscire dalla colonna dei ciechi? “Se il desiderio maschile feticizza il corpo femminile, facendo dei dettagli di un corpo qualcosa di divino”, come ben rappresenta Roth ne Il professore di desiderio in cui il protagonista rimane “rapito dall’oggetto” - una ciocca di capelli, un paio di gambe che dondolano sotto al tavolo, un dito che sfiora le labbra – sembra esserci “qualcosa che non si concilia tra il maschile e il femminile, come se ci fossero due idiozie simmetriche: l’ipnosi feticistica maschile e la domanda d’amore femminile”.
Tanto quanto l’idiozia maschile è “compulsiva nel frammentare il corpo in pezzi”, così quella femminile “è compulsiva nell’interrogare l’amore”.
Se l’analisi è una via di liberazione, emblematico che “un uomo spesso finisce il percorso quando impara ad amare mentre le donne terminano l’analisi quando riducono la domanda d’amore rivolta all’altro e rivendicano un desiderio deciso per la propria affermazione”.
L’ultimo volto del desiderio, quello che testimonia della possibilità di sottrarsi alla colonna dei ciechi (che rischiano di svegliarsi scoprendo di avere sognato il sogno di un altro), ha i tratti di Billy Eliot, il giovane che segue con decisione la sua vocazione alla danza perché “il desiderio è un fuoco che accende la vita” e “quando lui è nel desiderio della danza, scompare il suo io e diventa fuoco, elettricità”.
Un fuoco, il desiderio, che quando è autentico brucia lo steccato che, moralisticamente, nel senso comune divide piacere e dovere: Billy Eliot ci insegna a pensare che “il dovere e il desiderio sono due facce della stessa medaglia: siamo salvi quando il nostro dovere coincide con il nostro desiderio mentre c’è malattia quando il fare e il desiderare divergono”.
In questo senso, avverte lo studioso, “non c’è alcun egoismo nel rispondere alla chiamata del nostro desiderio facendo il possibile e l’impossibile per realizzarlo, a volte anche nel nome dell’irresponsabilità”. Mentre il peccato è “vivere per appagare il desiderio di altri, egoismo è quello di chi vuole imporre alla nostra vita la misura della sua felicità. Se c’è una vocazione del desiderio, il nostro compito è non fare della nostra vita un fico secco”.
Vocazione riporta alla voce di Giulia, alla voce di chi sa chinarsi sulle parole, amandole e coinvolgendo l’altro in questo amore, a chi sa che “la ricerca aumenta i dubbi senza avere mai la pretesa di risolverli”. L’incontro con quella giovane professoressa, come tutti gli incontri decisivi del nostro destino, “non si è esaurito, non è impallidito, non si è estinto, ma continua a compiersi: la voce di Giulia ascoltata in quell’istituto professionale continua a essere in me e ad accompagnare la mia vita. L’ultimo volto del desiderio è quello della gratitudine”.