La rivoluzione femminista non è terminata
27 luglio 2019
Abraham Yehoshua è uno degli scrittori israeliani viventi più conosciuti al mondo: interrogato per Donne Chiesa Mondo su Gerusalemme, sulla questione femminile e sull’attuale significato della letteratura, ha condensato le sue risposte in tre testi che esemplificano i temi e lo stile propri dei suoi romanzi, dove contenuti esperienziali narrati in modo sommesso rimandano a potenti ed universali domande di senso.
Elena Buia Rutt, Francesca Bugliani Knox
La discriminazione della donna, il suo lungo matrimonio, la questione di Gerusalemme e il ruolo etico della letteratura.
Parla il grande scrittore israeliano.
Il conflitto israelo-palestinese ultimamente risulta sempre più evidente se letto su un piano religioso. Si tratta di un conflitto che si va rafforzando tra Islam radicale e fanatismo religioso che va crescendo sempre più nelle cerchie della società ebraica. In questa complessa costellazione si finisce per dimenticare i palestinesi di fede cristiana, sia all’interno dello stesso Israele che della West Bank occupata da Israele.
I palestinesi cristiani appartengono a una stirpe presente in Terrasanta dall’antichità. Anche dopo che il cristianesimo si è separato dalla nazione ebraica e il Vangelo di Paolo ha spiegato le sue ali dalla Terra d’Israele per rivolgersi a tutta l’umanità, gli ebrei convertitisi al cristianesimo sono rimasti fedeli alla Terra d’Israele quale loro patria storica. Essi hanno ricevuto uno status speciale che li vede non solo custodi dei luoghi santi, Betlemme, Gerusalemme, Nazareth, ma che anche conferma che il cristianesimo non viene a negare l’ebraismo bensì ad ampliarlo e ad arricchirlo di contenuti umani, importanti e innovativi che non sono asserviti ai precetti stabiliti dalla Torah e dalla Halacha (corpus di norme religiose ebraiche).
È vero che nel momento in cui tali ebrei si sono convertiti al cristianesimo hanno cessato di fare parte del popolo ebraico, ma, dal mio punto di vista, i palestinesi cristiani rivestono grande importanza per la memoria storica degli israeliani rispetto alla Terra di Israele. Pochissimi sono i siti archeologici ebraici, sia del periodo del Secondo Santuario che dei secoli successivi, sopravvissuti in Israele sino all’epoca contemporanea. Al contrario, proprio i monasteri e le chiese, costruiti nel corso dei numerosi secoli nei quali la presenza ebraica in Terra d’Israele era molto esigua, se non del tutto assente, insieme alla presenza cristiana del periodo dei crociati, conferiscono agli israeliani, oggi intenti a forgiare la loro identità attraverso la lingua ebraica e il territorio stesso, una ricchezza e un ulteriore punto di forza. Pertanto i simboli cristiani in Terra d’Israele divengono parte di un’identità nazionale che si va rinnovando e non c’è da stupirsi che molte delle opere d’arte e letteratura israeliane degli ultimi cent’anni facciano riemergere la figura di Gesù e degli altri discepoli. In Terra d’Israele, infatti, il Gesù cristiano non è un nemico degli ebrei, come nella diaspora, bensì, come ho spiegato, una parte dell’eredità che si va rinnovando nella lingua e nel territorio.
A Gerusalemme, soprattutto nella città vecchia la cui grandezza è di 1 km² in totale, ebrei, musulmani e cristiani vivono a stretto contatto. E in questo chilometro quadrato, più che in qualunque altro luogo al mondo, la maggior parte dei luoghi sacri di primaria importanza per le tre religioni monoteiste si trovano uno affianco all’altro. Oltre al fatto che, mentre la Cupola della Roccia, la Moschea di Al-Aqsa o il Santo Sepolcro sono siti belli e imponenti, il Muro del Pianto, ovvero le rovine delle mura esterne che circondavano il Secondo Tempio, è un sito a mio parere privo di profondità e bellezza religiosa, il cui significato sta tutto nella memoria della distruzione del santuario che non verrà mai ricostruito.
Israele detiene il controllo di Gerusalemme e i fanatici ebrei e musulmani sono in perenne conflitto. Pertanto i cristiani, e non importa se cattolici, maroniti, ortodossi o protestanti, devono unirsi per invitare le altre due religioni a un altro tipo di cooperazione, non su base etnica, ma religiosa e spirituale, per cercare di liberare questo luogo faticoso, nel quale sono presenti contraddizioni e conflitti che possono ancora sfociare in grave violenza, sino a tradursi drammaticamente in una tragedia capace di coinvolgere tutta la regione.
Solo i cristiani, soprattutto i cattolici sotto la guida del Vaticano, quali partner non coinvolti nel cuore del conflitto etnico-religioso in merito al Monte del Tempio e al Santuario distrutto, possono pretendere e imporre una voce più autorevole con l’appoggio dei paesi cattolici forti d’Europa, Sud America e Asia. Theodor Herzel, padre del sionismo e fondatore del contratto dello stato ebraico, ha affermato già alla fine del secolo XIX che Gerusalemme non appartiene a nessuno poiché appartiene a tutti.
Gli Stati Uniti evangelici d’altra parte non sono d’aiuto, anzi talvolta buttano ulteriore benzina sul fuoco, per una concezione distorta in base alla quale gli ebrei dovrebbero combattere l’Islam per riportare il messia cristiano, il quale non solo salverebbe il mondo intero dalle sofferenze, ma convertirebbe anche gli ebrei in cristiani credenti. Così che, allo stato politico attuale, negli Stati Uniti, i cristiani evangelici, che hanno molta influenza nelle cerchie del governo repubblicano, si trasformano in sostenitori dell’integralismo e della supremazia ebraica su Gerusalemme.
Per molti anni i governi vaticani hanno rifiutato di riconoscere lo Stato di Israele e di intessere relazioni con esso. Ora che le relazioni sono solide e produttive, il Vaticano ha pieno diritto di pretendere da Israele, che ha la supremazia su Gerusalemme, di tenere a bada i fondamentalisti etnico-religiosi e giungere a una convivenza rispettosa delle tre fedi. Tuttora la città vecchia di Gerusalemme, nella quale si trovano tutti i luoghi sacri, ha insito in sé un potenziale distruttivo fonte di conflitti sanguinosi e pertanto deve ricevere uno statuto differente, anche dopo che Trump l’ha riconosciuta, compresa la sua parte palestinese, quale capitale di Israele, e dal momento che è chiaro a tutti che Gerusalemme stessa non verrà ulteriormente divisa e che non sarà possibile far passare una linea di confine internazionale al suo interno. I cristiani del mondo, e soprattutto d’Europa, devono uscire dalla passività con la quale ultimamente si sono rapportati a tale questione e farsi custodi della santità e del giusto equilibrio tra le tre grandi religioni. Su questo argomento mi aspetterei che il Papa non fosse cauto, bensì che osasse e prendesse l’iniziativa, non solo tramite dichiarazioni, ma avanzando richieste concrete e assertive nei confronti dei governi israeliani.
Il popolo d’Israele (io preferisco questa denominazione originaria a quella di popolo ebraico) è un popolo di origini antiche che non ha vissuto nella propria terra nel corso dei millenni, e pertanto la sua identità esiste grazie a miti religiosi e nazionali, soprattutto collegati ai libri, motivo per cui viene chiamato anche al suo interno “popolo del libro”. Naturalmente è difficile mantenere un’identità nazionale solo tramite i libri, e pertanto la maggior parte del popolo ha subito un processo di assimilazione nel corso delle generazioni e, da 3 milioni all’inizio del i secolo d.C., si è notevolmente ridotto di numero, finendo per contare, all’inizio del secolo 18º, solamente 1 milione di persone. Il ritorno tardivo al rinnovamento e alla costruzione dell’identità nazionale anche tramite il territorio, ovvero il ritorno in Terra d’Israele, per lo più naturale per altri popoli, è invece rivoluzionario e complesso per il popolo ebraico. Se i vecchi miti, in particolare attraverso la religione, continuano ancora a essere importanti per l’identità storica, oltre al fatto che metà del popolo ebraico vive ancora nella diaspora, è pur vero d’altra parte che nel territorio antico-nuovo si sono aperti nuovi orizzonti storici. In tal modo nell’Israele di oggi operano in parallelo due forze che talvolta si amalgamano meravigliosamente l’una con l’altra e altre si scontrano: da una parte una modernità fonte di grande ispirazione per tutto ciò che riguarda l’esercito, l’industria, la medicina, il governo ecc., e dall’altra l’attaccamento agli antichi miti biblici, da cui deriva la prosecuzione dell’occupazione dei palestinesi nella West Bank, che crea a Israele problemi etici ed esistenziali gravi sia al suo interno che oltre i suoi confini.
Dal mio punto di vista, se ci separassimo dai miti che si trovano nei libri sacri per concentrarci su un’analisi nuova e creativa della realtà intorno a noi, potremmo trasformare la rivoluzione sionista, il cui significato è ritorno alla “normalità nazionale”, in una corretta e più giusta normalità per il mondo che va costantemente cambiando dinnanzi ai nostri occhi.
Dal mio punto di vista la “rivoluzione femminista” è la rivoluzione più importante della seconda metà del secolo XX: non è terminata e ha dinanzi a sé ancora molti ostacoli, ma non c’è dubbio che il segnale di apertura sia stato dato e la consapevolezza della discriminazione della donna nel corso dei millenni vada permeando la coscienza pubblica. Non c’è dubbio che il rallentamento dello sviluppo nella gran parte del mondo musulmano, in particolare arabo, derivi dallo status di inferiorità di una donna ancora sottomessa all’uomo. Così come non c’è dubbio, ad esempio, che l’incredibile progresso della Cina derivi dalla liberazione della donna e dal miglioramento della sua condizione sociale.
Io personalmente ho vissuto con grande soddisfazione e pienezza un matrimonio durato cinquantasei anni con mia moglie, che ora è morta. Penso che la chiave di tanta gioia e armonia sia consistita nel fatto che sin dall’inizio mi fosse stato chiaro il dover stabilire una piena uguaglianza riguardo ai nostri reciproci diritti e doveri. Proprio perché a casa dei miei genitori ero stato testimone del fatto che mia madre, pur detenendo un forte potenziale intellettuale e pratico, era stata costretta a rinunciare alla propria realizzazione per fare unicamente la casalinga, sono stato spinto, non solo a incoraggiare mia moglie a costruirsi una sua carriera, ma anche ad assumermi a pieno titolo e volontariamente il dovere di sostenere di fatto l’avanzamento di tale carriera in collaborazione con lei, occupandomi cioè della cura della casa e dei figli, talvolta anche a scapito del mio di lavoro.
La parola chiave è uguaglianza. Per ovvi motivi è molto facile violarla e altrettanto difficile risulta l’esserle fedeli. Pertanto, quando descrivo la vita coniugale nei miei racconti e romanzi, cerco, per quanto possibile, di mostrarne il potenziale positivo, nonostante le difficoltà e le liti. A differenza del rapporto con i propri figli o genitori, dove il legame poggia su una relazione biologica innegabile, la relazione coniugale, per quanto duratura e felice, si può distruggere in un solo colpo. Naturalmente non accolgo la posizione della Chiesa cattolica che nega fermamente il divorzio, ma sono d’accordo nell’opporsi a una rottura facile e immediata di tale unione. Mia moglie Rivka, di benedetta memoria, che era una psicologa clinica e psicoanalista, ha sempre combattuto a fianco dei suoi pazienti per salvare i loro matrimoni nei momenti di crisi. È facile distruggere e difficile costruire. Oltre al fatto che in molti casi entrambe le parti, in seguito alla separazione, riproducono in seguito lo stesso modello di relazione problematica.
Sul femminismo sono stati pubblicati numerosi studi e continua a essere un argomento caldo di pubblico interesse. Si oscilla tra due visioni: una che vede la donna come completamente pari all’uomo, e perciò non ci si aspetta dalla sua condotta politica, sociale, manageriale o accademica, niente che distingua in modo unico il suo operato e le sue abilità da quelle maschili, e un’altra visione in cui la donna, in veste di guida politica, economica, o giuridica, riesce a trarre dalla propria femminilità capacità diverse da quelle dell’uomo, riversando e incanalando la natura femminile tradizionale all’interno dei nuovi ruoli rivestiti. Naturalmente la rivoluzione non è terminata, non solo perché in molte culture la donna è ancora sottomessa sotto vari aspetti, ma perché anche nei paesi in cui l’attesa uguaglianza formale appare davvero raggiunta, bisogna tuttavia indagarne e approfondirne gli aspetti, affinché non venga percepita come unicamente formale, a scapito della natura, dei bisogni e delle particolari caratteristiche di ogni sesso.
Nella società religiosa israeliana esiste ancora una evidente discriminazione delle donne, che riceve la sua giustificazione da rabbini oscurantisti e integralisti. Pertanto la rivoluzione femminista non deve preoccuparsi solo delle donne presenti nei settori economici o accademici, ma anche per prima cosa dell’incessante e audace lotta per la libertà e l’uguaglianza di quest’ultima nel mondo religioso ebraico. Purtroppo, a causa del perenne conflitto tra la destra e la sinistra, l’ambito religioso finisce per rivestire una valenza politica che neutralizza gli interessi nazionali generali.
Ultimamente mi sembra che la letteratura, il cinema e il teatro abbiano perso parte del loro rilievo nel discorso pubblico; un’importanza considerata significativa in particolare nel XIX secolo e nella prima metà del secolo XX. La produzione di letteratura, romanzi e racconti, accanto al fiorire crescente di film e serie televisive è diventata più “facile” rispetto ai tempi passati. La tecnologia moderna ha reso molto più economica la possibilità di creare libri e film. I canali di comunicazione si sono notevolmente moltiplicati, il tempo libero delle persone è aumentato, e pertanto esse possono “consumare maggiore cultura”. Ciò nonostante, ma forse io guardo alla realtà dal punto di vista di un uomo anziano che non comprende pienamente il nuovo, mi sembra che tutta questa abbondanza di creatività e arte, nonostante le sofisticate pubbliche relazioni, non dia origine alla stessa carica emotiva, etica e politica emanata dalle opere eccellenti del secolo XIX, o dell’inizio del secolo XX. Non voglio, nell’ambito di un’intervista giornalistica, entrare in tutti i dettagli di tale questione, ma secondo me la letteratura, e in un certo senso anche il cinema e il teatro, hanno rinunciato alla necessità di porre dilemmi etici di bene e male al centro della scena, come si faceva ad esempio nelle opere di Tolstoj o Dostoevskij, o nelle opere di Faulkner, Thomas Mann, Pirandello e altri. La psicologia ha represso il giudizio etico, in base al paziente principio del “comprendere significa scusare”. Il sistema giuridico nel mondo moderno e democratico è divenuto l’autorità etica che stabilisce che tutto ciò che è legale diventa automaticamente etico. La comunicazione, nella sua velocità, benché svolga un lavoro di verifica e talvolta istituisca tribunali giudicanti su ciò che è buono o cattivo, non può sostituire la capacità dell’arte di dar vita a un laboratorio etico esperienziale nel quale il lettore o lo spettatore, tramite la loro capacità di profonda interiorizzazione e identificazione, vaglino situazioni etiche, vecchie e anche completamente nuove, al fine di raffinare la propria percezione e comprensione. La letteratura ultimamente ha rinunciato sia alla centralità del dibattito etico nelle sue opere che alla presa di posizioni etiche definite, a causa del sospetto di disattendere, anche solo parzialmente le teorie post-moderne che negano l’autorità degli uomini di stabilire regole etiche “superiori”, o a fronte della concezione del politically correct che fa emergere tutta una serie di nuove sensibilità che non si possono esaminare all’interno di categorie etiche definite.
In conclusione, io credo che la letteratura, il teatro e il cinema, debbano ritornare ad esprimere, almeno in parte, la necessità di sollevare dilemmi etici nuovi e audaci, ponendoli in prima linea. Quando insegnavo letteratura all’università ho selezionato ed esaminato diverse opere solo dal punto di vista etico. Ciò significa che non mi sono occupato di aspetti psicologici, storici, linguistici o biografici, ma mi sono riferito solo all’aspetto etico presente in esse. Ed ecco la rivelazione dinnanzi ai miei studenti di nuovi e rivoluzionari risvolti che mai si sarebbero aspettati.
Propongo perciò ai lettori di questa intervista di esaminare per proprio conto la storia di Caino e Abele. La narrazione del primo omicidio nella Bibbia termina in un modo in cui non solo l’omicida non viene punito, bensì al contrario la sua situazione personale va migliorando. Qual è il significato di tutto ciò? Perché solo un esame etico e profondo è in grado di rivelare il grave problema teologico che si nasconde dietro questa vicenda?
di Abraham Yehoshua