Vito Mancuso "Conoscere il divino rende forti le società. Se manca la religione, manca l'umanità"
L'arcivescovo di Torino, Roberto Repole, ha detto qualche giorno fa su questo giornale: «La scarsa adesione dei giovani all'esperienza cristiana mi fa pensare che la Chiesa oggi non è più percepita come risorsa spirituale».
Non è forse così? Credo che ognuno di noi abbia l'attestazione quotidiana di questo stato di cose per il quale vale solo il volere soggettivo, nella completa assenza di un canone oggettivo che normi l'etica, l'estetica, l'educazione e le altre espressioni della soggettività umana. È rimasto solo il diritto a tenerci insieme, ma esso lo può fare e lo fa solo grazie alla forza. Il risultato è che la nostra civiltà è attraversata da litigiosità e conflittualità crescenti, siamo in preda all'ira e alla collera, a una aggressività senza limiti che genera querele, cause, sentenze, ricorsi, appelli senza fine, e uno stato generale di ansia, di paura, di panico (termine che deriva da Pan, a significare che il vecchio dio, in realtà, non è per nulla morto). Mancando la religio, manca l'humanitas; e mancando l'humanitas, mancano le condizioni per capirci, a partire dalle parole e dalle buone maniere, e così vivere insieme se non proprio da soci, per lo meno da buoni vicini. Ma noi non siamo buoni vicini gli uni con gli altri, siamo stranieri: stranieri morali, il grado più alto di estraneità. E siamo ridotti così perché, come diceva Hegel, «non conosciamo più niente di Dio».
Una civiltà è tanto più forte quanto più conosce il divino, ed è tanto più debole quanto più lo ignora. Non si tratta ovviamente di una conoscenza catechistica e dottrinaria; si tratta piuttosto di quella esperienza concreta ed esistenziale che porta l'essere umano ad avere nel centro del proprio cuore un altare, uno spazio ideale che gli fa riconoscere e venerare qualcosa di più importante del proprio interesse particolare o "godimento privato". La comune condivisione di tale altare fa di una massa anonima di singoli un insieme di soci, una società; e i singoli in questo modo trascendono il proprio interesse particolare e danno origine a una civiltà, termine che in latino, significativamente, si dice humanitas.
Oggi però l'assenza di religio va di pari passo con l'assenza di societas e di humanitas. Tutto il mondo ne soffre, ma in particolare l'Occidente, il territorio più secolarizzato e quindi più sradicato. Il problema sollevato dall'arcivescovo di Torino ha quindi una dimensione che va ben al di là della sola dimensione religiosa: non si tratta cioè della sopravvivenza di una particolare religione e dell'istituzione che la rappresenta; si tratta, ben più in profondità, della sopravvivenza di una civiltà, la nostra, e della salute psichica ed esistenziale di ognuno di noi, a partire dai nostri ragazzi che sono le prime vittime di questa mancanza di ideali, di speranza, di visioni, di fiducia.
C'era un tempo in cui il cristianesimo pensava di potersi proporre come rimedio ai mali del mondo, oggi invece esso è parte del problema. L'aveva constatato ormai quasi vent'anni fa il cardinale Carlo Maria Martini: «Un tempo avevo sogni sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà... che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori. Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più questi sogni» (da Conversazioni notturne a Gerusalemme).
La gravità della crisi appare dal fatto che nella Chiesa sembrano proprio mancare le menti in grado di avvertire le dimensioni del problema. Ancora si ritiene che basti qualche ritocco qua e là, qualche mezza apertura più di facciata che di sostanza, come quelle proposte dal pontificato di papa Francesco. La situazione però è quella fotografata dall'arcivescovo di Torino: «Viviamo un cristianesimo che non offre veri cammini di spiritualità». Ma se una religione non offre veri cammini di spiritualità a cosa serve? È come tenere aperto un ristorante che non offre da mangiare.
Concludo riportando ancora il pensiero del cardinal Martini: «Mi ha sempre entusiasmato Teilhard de Chardin, che vede il mondo procedere verso il grande traguardo, dove Dio è tutto in tutto... L'utopia è importante: solo quando hai una visione lo Spirito ti innalza al di sopra di meschini conflitti». L'ultima cosa a cui sono interessato sono i meschini conflitti. Se mi sono permesso di riprendere e commentare le affermazioni dell'arcivescovo di Torino è per contribuire a intravedere una nuova utopia, visto che quella che per secoli governava le menti cristiane, cioè la cristianizzazione del mondo, è finita. Oggi nessuno più può lecitamente sperare che tutto il mondo diventi cristiano. Per questo non è più sostenibile affermare che «non c'è nessun altro nome in cui c'è salvezza, se non Gesù Cristo». È superato non solo l'assioma «extra Ecclesiam nulla salus» (non c'è salvezza fuori della Chiesa), ma lo è anche quello ancora più decisivo «extra Christum nulla salus». La salvezza (dal peccato, dal nichilismo, dal male, dalla cattiveria, dalla guerra interiore che divora i nostri cuori) giunge a tutti coloro che la cercano invocando i nomi che ognuno conosce e vivendo secondo lo spirito dell'amore e della giustizia.
È lo Spirito a volere così, quello Spirito che guida il mondo e che sempre parla tramite i suoi grandi profeti, da Gioacchino da Fiore a Teilhard de Chardin e Carlo Maria Martini e tanti altri nomi benedetti.