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Enzo Bianchi "Quasi colpevoli di essere in vita"

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La Repubblica - 30 marzo 2020
dal sito del Monastero di Bose 

La nostra vita arriva a settant’anni, a ottanta se ci sono le forze: la maggior parte sono pena e fatica, passano presto e noi ce ne andiamo.
Questo versetto del salmo 90 è sottoscritto da molti, e in particolare dagli anziani, i quali hanno una consapevolezza concreta e quotidiana dei loro limiti e della diminuzione a cui sono soggetti.
Gli anziani, anche se magari tentano di rimuovere il pensiero dei giorni che stanno davanti a loro, sanno che questi non saranno molti. E proprio i vecchi sono i più attaccati dal coronavirus e dunque difficilmente in grado di attraversare la malattia con un esito positivo. Ce lo dicono le statistiche: sono colpiti anche i più giovani, ma la frequenza di morti tra gli anziani non lascia spazio alla sicurezza di essere esenti da un cammino penoso. È quell’itinerario che conosciamo, perché lo vediamo attraverso i media: itinerario di solitudine, di isolamento, di impedimento alla comunicazione con i propri cari; è un cammino disperante.
Mario Deaglio, in un suo articolo di qualche anno fa, aveva definito la generazione dei nati all’inizio degli anni ’40 come "la generazione perfetta", ovvero generazione fortunata. In effetti così pareva, ma ora anche questa generazione sembra portare i segni della disgrazia. È la generazione che ha subito la rottamazione, teorizzata o semplicemente praticata, e ora si sente quasi colpevole di essere ancora in vita. E ognuno dal suo punto di vista vorrebbe fare a meno di questa esperienza di democratizzazione, dal momento che la pandemia colpisce tutti, sovrani e poveri, forti e deboli, giovani e vecchi.
Non si sente forse dichiarare che, di fronte alla necessità di salvare un malato su due, vista la scarsità dei mezzi tecnici a disposizione, si sceglie chi è più giovane e si lascia morire l’anziano?
Parallelamente, questo è un discorso che, da testimonianze autentiche, sappiamo aver ispirato qualche malato anziano (come don Giuseppe Berardelli di Bergamo) a chiedere di curare un giovane piuttosto che se stesso. Si tratta di un gesto dettato da grande carità e fortezza d’animo che può essere ispirato da amore e disposizione al sacrificio di sé per gli altri.
Resta però vero che il discorso rientra nella logica dell’eugenetica, per la quale questo criterio viene applicato anche nei confronti dei disabili o dei malati gravi; come se costoro avessero meno diritto di vivere rispetto ad altri… Ma chi di noi sa in verità cosa significa la sua vita per gli altri? Sì, molte persone fragili sono impaurite. Solo la vicinanza e l’affetto mostrato nei loro confronti possono essere un balsamo alle loro fragilità.
E gli anziani sono le nostre radici e l’esperienza diventata sapienza e sono, come recita un proverbio africano, "le nostre vere biblioteche". Più che mai occorre essere intelligenti e umani, affermando che il senso della vita riguarda tutti e non può mai essere misurato e calcolato: infatti, vivere è il senso più profondo per ogni uomo e ogni donna venuti al mondo.
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