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Carlo Rovelli “Non ho paura della morte. Ho paura di invecchiare. Di restare solo, senza amore”

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Intervista a Carlo Rovelli 
a cura di Carlo Antonelli 
La Repubblica 7 agosto 2024 

Lo scienziato e saggista sembra a proprio agio in ogni Spazio. Ma non è sempre stato così: «Sono un po’ disancorato nella mia vita, ho vissuto lunghe depressioni molto pesanti e quando le cose andavano male non sapevo dove aggrapparmi»

Carlo Rovelli è l’uomo che vorresti essere tu: perfettamente a suo agio nel mondo. Occupa lo spazio, e anche lo Spazio, con completa naturalezza. E lo strato dell’Universo che condividiamo per questa collisione tra le sue e le mie particelle è il Caffè Dante in Piazza Dante, al centro di Verona. Rovelli ha un sorriso bellissimo e gli occhi freschi. È ancora un adolescente, e non lo dico con retorica trita. Il milione di turisti al metro quadro che invade la piazza sparisce e noi caschiamo in un vortice che ci porta sempre lì, in quello stesso luogo, ma alcune temporalità fa. Il liceo, il cazzeggio proprio sui gradini di fianco a noi, le fusioni meravigliose dentro i portici. Non è passato, quello che ci raccontiamo, ma presente, verbi compresi. 

«Ci sediamo sempre lì, con gli altri, sui gradini lì. È l’inizio degli anni 60. Ci sono spesso due ragazze con la chitarra che suonano di tutto. Ci si vede con gli amici, guardiamo le ragazze che passano e che vengono magari dal nord Europa, queste prime ragazze coi capelli lunghi. La prima volta che ho fumato erba è stato qui. C’erano dei tipi, rollavano uno spinello, mi sono avvicinato, ho detto “anch’io, grazie”. Ci si rilassa, ci si lascia andare. Il mio primo grande amore appare quando questo caffè è chiuso, ci sono tutte le sedie impilate lì, lei è seduta in cima alle sedie, di notte. Arrivo, la vedo, e inizio a corteggiarla. I grandi amori sono solo a prima vista ovviamente, se no non lo sono. L’ho amata, è stato lungo e complicato. Questa è una piazza che è legata anche a dei baci bellissimi, quelli che ci davamo nel chiostro del Duomo». 

Quindi non facevi niente tutto il giorno? 
«Eh no. Io in quegli anni lì mi affaccio alla vita e a innumerevoli libri e poi mi infilo dentro questa controcultura underground che cresce nel mondo intero. Verona è un posto tradizionale, conservatore. Vivo a casa con i miei, ma voglio scappare. Mio padre fa l’ingegnere. Poi ha iniziato un’azienda con un amico. L’Italia è in rapida espansione economica, per cui va molto bene. Costruisce capannoni prefabbricati. Sono figlio unico, maschio, e sembra naturale che io continui il lavoro di mio padre. C’ho pensato un attimo e ho capito che non mi avrebbe reso felice. Forse ci rimane male, ma capisce. Vede come sono, forse anche lui si rende conto che avrei fatto solo danni». 

(Ci spostiamo in un tempo simile ma in un altro spazio: California. Un famoso libro di David Kaiser, Come gli hippie hanno salvato la fisica, racconta lo strano intreccio tra questi due mondi. A evocarlo, iniziamo a percepire buone vibrazioni). 

«Mah... salvato... Dipende da come la si prende: se la si prende in senso troppo roboante, la risposta è no. Però non c’è dubbio che in un ambito specifico – quello della meccanica quantistica e delle domande fondamentali su cosa essa ci dice del mondo – la cultura hippie, soprattutto californiana appunto, della fine degli anni 60 e degli anni 70, ha avuto un impatto direi significativo. Qualcuno era affascinato da tutto quello che c’era di strano, anche dalle teorie sui quanti. L’esperienza psichedelica faceva entrare ed esplodere la realtà. Il titolo di uno dei miei libri è La realtà non è come ci appare. E ovviamente l’esperienza lisergica – o qualcosa di questa – interessa perché contiene anche la voglia di cambiare tutto, no? Come la scienza. Questo ha fatto sì che un certo numero di persone si riunissero in alcuni luoghi in California, persone estremamente competenti: da lì sono nate idee concrete che hanno portato anni dopo a premi Nobel, anche recentissimi. Insomma, parte della storia della scienza – quella su domande di base – passa anche da lì». 

(Riplaniamo qui, al Caffè Dante). 

«Se guardo questa piazza… per me questo è un modo di essere nel mondo. Io penso che ciascuno di noi non è solo… non è solo un’individualità con i suoi progetti, le sue idee, quello che sta facendo. Ciascuno è un incrocio di quello che succede intorno a noi. Le nostre idee sono al 99% idee che abbiamo sentito e trasmettiamo, elaboriamo. Quello che facciamo esiste solo perché lo facciamo in una rete di discorsi, di parole, di azioni in giro con gli altri. Ciascuno di noi è… come dire, un nodo in una rete di scambi che sono fisici, chimici, psicologici, sociali, economici, e scambi di amore. Siamo parte di un tutto e più ci vediamo in questa maniera, più siamo ragionevoli, capiamo, e anche forse stiamo meglio, penso». 

Non sei terrorizzato da tutta questa intelligenza che hai attorno? 
«Mi fa sentire scemo. Sono sempre con gente più brillante di me. Pazienza. Molto della mia vita è studiare, provare a risolvere dei problemi senza riuscirci – e questo sì che fa sentire scemi – scrivere, leggere o andare in giro a parlare con persone. Nel fare questo, spessissimo ho un obiettivo, più obiettivi, ma mi perdo, mi perdo sempre in realtà. Inizio a fare una cosa, poi invece ne faccio un’altra». 

Quanti anni hai? 
«Un sacco». 

Dai, quanti? 
«68». 

(O 68mila, o 70mila milioni di anni. Scompariamo entrambi, in un secondo. Rimane la piazza. Poi si vaporizza anche la piazza. Siamo caduti dentro un buco nero. Oppure no. Siamo caduti dentro un buco bianco, il titolo del libro più bello di Rovelli). 

«C’è una parte di quel libro che ho scritto proprio qua, seduto lì davanti alla statua di Dante. Mi son messo lì nello stesso punto in cui, penso, sette secoli fa, in questa stessa piazza, Dante ha scritto una parte del Paradiso». 

La capacità o addirittura l’intenso esercizio del bighellonare li applichi anche al tuo modo di scrivere? 
«Spesso parto e non so dove arrivo. Lo scrivo nelle prime pagine di Buchi bianchi, per esempio. Penso che la fisica teorica sia tutta un po’ così. Ti faccio un esempio: per poter fare scienza, in questo caso fisica teorica, dobbiamo scrivere dei programmi di ricerca, di tanto in tanto. Uno scrive programmi, ma poi mica li segue: fa altro, cambia tutto. Perché prima non si sa mai cosa si riuscirà a fare. Oppure viene uno studente che vuole lavorare, decidiamo insieme cosa farà nella tesi, ma poi non si fa mai la cosa che si è deciso di fare. Perché la ricerca è così: se fosse facile fare la cosa che annunciamo, l’avremmo già fatta prima. Imparare qualcosa spesso vuol dire proprio cambiare idea, renderci conto che avevamo un’idea sbagliata in testa. Quindi poi si fa qualcos’altro, come dire, si va avanti e indietro». 

Ma il mondo ti è sempre sembrato questa specie di torta di panna in cui tuffarti? Cioè questa forma di ottimismo confidente che hai, che cosa è? 
«Guarda, ho avuto delle lunghe depressioni nella mia vita. Molto pesanti. Dei momenti in cui ero completamente a terra. Molto duri». 

Cosa vuol dire duri? 
«Ho pensato di suicidarmi. Seriamente. Adesso cosa faccio?, pensavo. Mi uccido, non ho più voglia di vivere. Non riuscivo più a fare nulla, non riuscivo a lavorare, non riuscivo a prendere decisioni, nulla. Credo che questo su e giù dipenda dal fatto che sono sempre stato un po’ disancorato nella mia vita. Ci sono persone che hanno punti di riferimento precisi, sono religiose, o hanno figli, o hanno un obiettivo preciso nel lavoro, o hanno una… qualche cosa di solido, strutturato. Quando c’è un problema tornano là. Sanno dove… a cosa aggrapparsi. Io mi sono sempre sentito un po’ slegato, libero, senza appigli troppo solidi. I valori li ho sempre sentiti nascere dentro di me, non ancorati a qualcosa fuori. Ma questo ha come risultato che quando le cose vanno male, e nella vita di tutti delle volte le cose vanno male, non so dove aggrapparmi. E quindi mi dispero. Però quando le cose vanno bene sono molto contento perché mi basta il mondo che esiste intorno me, in qualche maniera, e mi lascio andare, è tutto aperto». 

Hai paura della vecchiaia? 
«Sì. Ma non ho paura della morte. Non l’ho mai avuta. Penso spesso che morirò. È un pensiero ricorrente. Su questo sono sereno. Sarei terrorizzato all’idea di vivere l’eterno. Uno dei vantaggi di aver pensato qualche volta al suicidio è questa tranquillità incredibile che ti dà. Ma di invecchiare ho paura. Di restare solo, senza amore». 

(Ci sarà ancora molto amore per te, Rovelli. Fidati).


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