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Don Massimo Maffioletti in dialogo con Luciano Manicardi: L’umanodivino di Gesù (senza trattino)

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Vacanza con le famiglie a Sauze d’Oulx, Piemonte
17 - 24 agosto 2024

L'umanità sovversiva di Gesù
Don Massimo Maffioletti in dialogo con Luciano Manicardi, monaco di Bose


Sommario 

1. Premessa  
6. L’umanodivino di Gesù (senza trattino) 
8. Tutto è perdonabile 
9. Quando l’amore è più forte della morte 
10. Il silenzio e il mistero 
11. La Legge e la Parola. E la differenza cristiana 

L’umanodivino di Gesù (senza trattino) 

Massimo Maffioletti.
Mi sembra che ad essere divino in Gesù sia proprio il modo con cui egli è stato uomo. Noi sovrapponiamo sempre il "divino" all’umano e, invece, è la maniera con cui Gesù è stato umano fino in fondo, frequentando perfino le proprie ombre e le ombre degli altri, le proprie ferite e le ferite degli altri, a parlarci del suo essere pienamente divino.. 

Luciano Manicardi Io sono totalmente d’accordo. Potremmo dire: Gesù è talmente umano da essere divino. L’affermazione teologica vere homo et vere deus – veramente uomo e veramente Dio – significa che se Gesù è veramente uomo allora lo è in quanto partecipa della condizione umana di tutti e lo è anche in modo vero, cioè onorando veramente la sua umanità. Gesù è veramente uomo perché aveva un corpo e una mente, una psiche e delle emozioni, ma anche perché aveva dei limiti legati al suo vivere in quella precisa epoca e storia. Gesù, per esempio, non era onnisciente, non parlava tutte le lingue, era abitato da limiti umani. Le tentazioni di Gesù sono state concrete, la morte di Gesù è una morte reale, non apparente, fittizia. All’interno di questa reale umanità, Gesù ha vissuto veramente l’umano. È questo veramente umano che secondo me andrebbe sempre sottolineato, perché il modo in cui lui ha declinato l’umano ha qualche cosa da insegnarci ancora oggi, ci parla ancora.

Ad esempio? 

Riprendo l’appello ad “amare il nemico” (Mt 5,43-48). Sembra una follia, eppure io credo che in quell’invito folle ci sia la verità di chi è andato davvero a fondo del senso di Dio e del rapporto con l’altro, rendendosi conto che è soltanto attraverso il linguaggio dell’amore, che si enuncia in una infinità di sfaccettature e comportamenti diversificati da persona a persona, che la forza del bene si mostra più potente della forza del male. L’atteggiamento di rispetto, di ascolto, di riconoscimento, di benevolenza è più potente della forza del male. Se uno mi fa del male io non gli rispondo con la stessa moneta, ma con l’esatto contrario, anche se magari non riuscirò a cambiare l’altro. Il gesto d’amore e di cura ha valore in sé e costruisce me. 

Si paga sempre caro l’amore per il nemico. 

Sì, è possibile, anzi molto probabile. Tuttavia quella forma di amore che appare come una follia ha valore in sé. Qui sembra esserci anche tutta la stima, diciamo pure la fiducia, che Gesù riponeva nel suo stesso osare il bene. 
Ci sono delle azioni e delle cose che hanno valore in sé e per sé, anche se si rivelano storicamente perdenti, anche se non producono risultati visibili e tangibili, anche se non cambiano gli altri e lo stato sbagliato delle cose. L’esito crocifisso della vicenda di Gesù può e deve essere letto anche sotto questa luce. 
Le beatitudini ci dicono che: ci sono comportamenti che hanno valore di per sé e, dunque, vale la pena viverli costi quel che costi. Cosa dicono le beatitudini? Beati i miti, i poveri, i puri di cuore, gli assetati della giustizia, gli operatori di pace, i perseguitati (Mt 5,1-12; Lc 6,20-23). Chi può dire delle cose così enormi? 
Quando leggiamo i vangeli, cercando di cogliere l’umanità di Gesù, ci interroghiamo: qual è quell’uomo che può fare affermazioni di questa portata? Beati gli afflitti, beati i perseguitati? Ma quando mai? Il senso è che i perseguitati non sono beati in quanto perseguitati, ma perché hanno fatto dell’essere perseguitati un’occasione che ha cambiato la loro vita. Sono beati perché, nell’ottica del Regno, la persecuzione e la sofferenza non sono l’ultima parola e l’ultimo loro destino. Allora, chi può parlare in questo modo? Solo chi ha vissuto le cose di cui parla. Le beatitudini sono, né più né meno, una rivelazione della vita interiore di Gesù. 

E le beatitudini sono autobiografiche? 

È lui, Gesù, l’uomo delle beatitudini. È lui che ha compreso che l’essere misericordioso ha valore di per sé, al di là dei risultati che può “raggiungere” o ottenere. Anche se non arriverà mai a cambiare l’altro, il gesto ha valore in sé. 
Nelle beatitudini vedo la convinzione di Gesù in tutto ciò che fa, la stima che egli ha di sé e di ciò che sta facendo. Gesù è un uomo di convinzioni, quando è convinto di una cosa va fino in fondo, anche a costo di pagarne il prezzo salato. 
Gesù era cosciente di quello che, cammin facendo, vedeva profilarsi all’orizzonte nei suoi confronti – l’avversione e la condanna a morte – e lui non vi si è sottratto ma non vi si è gettato neppure a capofitto o in modo masochistico, quasi anelasse al martirio. Il vangelo di Giovanni ci dice come Gesù provò a evitare di dirigersi verso la Giudea perché sapeva che l’avrebbero cercato per eliminarlo (Gv 7,1). Si è persino nascosto: “Raccolsero pietre per scagliarle contro di lui, ma Gesù si nascose e uscì dal tempio” (Gv 8,59). 
Aggiungo che nella sua coscienza, nella consapevolezza della sua identità e missione, c’è stato un divenire. Solo a un certo punto della vita Gesù arriva a dare significato, senso, all’ultimo passo, quello che lo porterà alla morte e a riporre tutto nelle mani del Padre. Il cammino di Gesù assume i contorni del tragico. Quindi, sì, le beatitudini sono assolutamente autobiografiche. Sono ciò che Gesù vive e che offre come una possibile via di cambiamento. 
André Chouraqui, che ha tradotto tutta la Bibbia, ha tradotto mακάριοι delle beatitudini non con beati, ma con un imperativo: “in marcia!”, avanti, in cammino! Faceva riferimento alla parola ebraica ashrè che etimologicamente rinvia a yashar e che significa “avanzare”, “camminare rettamente”. Al di là della questione filologica, è importante come si intende “beati” per non avallare l’idea che l’afflizione o la povertà siano di per sé una beatitudine. 
Le beatitudini invece dicono che la condizione di afflizione o di persecuzione non è per nulla eterna. Non è l’ultima e definitiva verità dell’uomo, non è la condizione a cui l’uomo è inchiodato. 
“Beati i misericordiosi, gli afflitti, perché loro è il regno dei cieli” ha senso perché annuncia un’ulteriorità, la possibilità fin da ora di un 66 futuro beato di comunione con colui che ha già vissuto tutte queste cose: Gesù, l’uomo delle beatitudini che può dire “oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43). Viene aperta una prospettiva di futuro anche a chi, nell’oggi, non ha futuro e nel futuro non intravvede nulla di promettente.



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