Massimo Recalcati "L’esplosione della violenza giovanile si combatte con l’arma della parola"
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La nuova aggressività dei ragazzi non è frutto di ribellione. Ma rappresenta l’adesione a un sistema dove gli unici ideali sopravvissuti sono il guadagno e il successo immediato.
Una delle forme più inquietanti che ha assunto il disagio giovanile contemporaneo è quello della violenza. Episodi diversi riportano al centro della cronaca una violenza brutale spesso esercitata in gruppo per “futili motivi”. In questo caso, diversamente da quello che è recentemente accaduto con la devastazione della redazione torinese della Stampa, si tratta di una violenza che appare dichiaratamente pre-ideologica. Alla sua radice non troviamo infatti alcuna identificazione con una causa ideale da sostenere. I suoi protagonisti non sono degli attivisti politici, ma dei ragazzi qualunque. Le ripetute aggressioni nei confronti di sconosciuti o di giovani donne, spesso della stessa età, non sono sostenute da nessun ideale politico (per quanto distorto fanaticamente), ma sembrano nutrirsi, al contrario, della caduta irreversibile di ogni forma simbolica di ideale. La violenza delle cosiddette baby gang, per esempio, segnala di fatto la liquefazione di ogni valore ideale: la vita di un ragazzo può davvero valere cinquanta euro?
I soli “ideali” sopravvissuti all’eclisse valoriale sembrano essere quelli illusori che pervadono la cosiddetta società dei consumi: successo individuale, guadagno facile e rapido, affermazione del proprio prestigio sociale. Pugnalare un coetaneo o stuprare una ragazza sono manifestazioni di una violenza che non è ispirata da nessuna ideologia, se non da quella della mera sopraffazione e predazione del più debole e del più indifeso. In questo caso è la forza che diviene diritto e non è più il diritto a limitare la forza. Nel nostro tempo, questo tipo di violenza è all’ordine del giorno e non può essere ricondotta unicamente al problema della non integrazione dei migranti o a una cattiva educazione affettivo-sessuale. Non solo perché tra i suoi protagonisti ci sono anche ragazzi di famiglie italiane cosiddette “normali”, ma anche perché l’emergere di questo tipo di violenza implica una subcultura che rischia di caratterizzare le nuove generazioni in quanto tali. L’agire in gruppo costituisce un nuovo corpo identitario che si pone come una micro-società di eguali separata e in contrasto con le leggi che invece caratterizzano il cosiddetto “sistema”. È questa una problematica tipica dell’adolescenza: è il gruppo dei pari che facilita la separazione dai legami affettivi primari, consentendo l’accesso a una versione più ampia della propria libertà individuale. Ma questi gruppi non agiscono affatto favorendo la separazione perché la loro aggressività non manifesta una effettiva contrapposizione nei confronti del “sistema”, ma un’esigenza estrema, quasi disperata, di assimilazione acritica.
I loro valori sono, infatti, gli stessi di quel “sistema” che contestano: il mito del denaro, dell’affermazione sociale, della forza e della sopraffazione del più debole. La loro opposizione non è, dunque, di sostanza, non combatte davvero il “sistema”, ma manifesta l’esigenza imperiosa di farne parte. Il problema è che questa esigenza ricopre e, al tempo stesso, rivela un vuoto di senso profondo. Quale senso può infatti avere una vita che vive solo di oggetti di consumo, di gadget, di etichette, di potenziamento fittizio del proprio ego? La violenza giovanile appare come priva di senso perché privo di senso rischia di essere il mondo che gli adulti consegnano alle nuove generazioni. È, in altre parole, una violenza che agisce in modo brutale e inconscio quello che il “sistema” pratica apparentemente in modo più “ordinato”.
Quando non c’è testimonianza credibile da parte degli adulti che la vita può avere un senso e che non può essere ridotta alla corsa disperata per l’affermazione di se stessi, allora può crearsi lo spazio per una violenza vandalica e immotivata che riflette innanzitutto il non senso di quello stesso mondo che dicono di rifiutare. È la dimensione di assurda gratuità che spesso troviamo in questi passaggi all’atto violento del tutto sganciati da ogni possibile senso.
Esiste poi un altro lato, più in ombra, della violenza giovanile contemporanea che bisogna considerare. Esso assume le forme del tagliarsi fuori, della spinta a sottrarre la propria vita a ogni forma di legame, dell’odio per se stessi. È il lato melanconico e autodistruttivo della violenza giovanile. È un fenomeno che attraversa non da tempo le nostre comunità: anziché entrare nel vivo del legame sociale, molti giovani preferiscono ritirarsi coltivando una sorta di nicchia autistica impenetrabile. Come se in gioco fosse una drastica negazione del mondo alla quale corrisponde però una negazione altrettanto drastica di se stessi. È questo del resto il tratto che accomuna queste due forme di violenza: la violenza etero e quella autodistruttiva. A cosa vanno incontro questi gruppi di ragazzi violenti se non alla distruzione della loro stessa vita? Al cuore di ogni violenza troviamo, infatti, una spirale profonda di autodistruttività. È la conseguenza del rifiuto della legge della parola che è la sola legge che può umanizzare la vita. La parola esclude, per principio, la violenza. Ed è proprio questa alternativa – da una parte la parola e la sua legge, dall’altro la violenza e la sua autodistruttività – che dovrebbe definire la vocazione radicalmente educativa della nostra scuola. Solo nella decisione politica di rimettere davvero al centro la sua funzione nella nostra vita collettiva si potrà provare a educare i nostri figli alla legge della parola e non a quella della violenza.
È l’esistenza della scuola e della cultura ad avere il compito primario, pubblico, sociale, di tracciare il confine tra la parola e la violenza mostrando che, laddove c’è diritto alla parola, c’è sempre rinuncia alla tentazione etero e autodistruttiva della violenza.
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