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“Una donna brutta non sa dire i propri desideri”. Intervista a Mariapia Veladiano

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La prima volta che le ho parlato a telefono, Mariapia Veladiano mi ha risposto con una voce flebile e leggermente affannata: si trovava a quasi tremila metri di altitudine, in Trentino. L’autrice de La vita accanto (Einaudi Stile Libero, 2011), vicentina, è una donna gentile, con una capacità particolare che ho trovato raramente in chi scrive per mestiere: è una persona che ascolta. Il suo ascolto è meticoloso, attento, molto proteso verso il suo interlocutore o la sua interlocutrice. Esordiente a 50 anni, laureata in Filosofia e Teologia, Veladiano ha insegnato lettere per molto tempo e ha fatto la preside: è forse questa esperienza, sempre a contatto con i ragazzi e le ragazze, che l’ha resa estremamente curiosa e al contempo lontanissima dal ruolo della scrittrice salottiera. È facile immaginare Mariapia Veladiano, perennemente a tremila metri, in tenuta alpina, attenta “a riconoscere la grandiosità di avvenimenti che parrebbero minuti”, come ha scritto Alessandro Zaccuri. 

“I romanzi raccolgono il mondo” ha detto una volta Veladiano. “Intendo che non copiano o rubano il mondo”, mi spiega ora a telefono. “I narratori lasciano che il mondo li attraversi e così trovano le parole per raccontare qualcosa che i lettori poi riconoscono”. 

Dopo l’esordio inaspettato de La vita accanto – secondo al Premio Strega 2011; quasi 100 mila copie vendute; tradotto in inglese e francese – Veladiano ha firmato tanti altri romanzi tra cui Il tempo è un dio breve, Una storia quasi perfetta, Lei e il più autobiografico Adesso che sei qui. Come ha scritto ancora Zaccuri “sono storie che assumono la consistenza lieve e tenace del merletto, questa successione di vuoti e pieni che ci ricorda quanto all’amore si addica il silenzio”. 

L’occasione per la nostra chiacchierata è data dall’uscita del lungometraggio tratto da La vita accanto, diretto da Marco Tullio Giordana e interpretato da Sonia Bergamasco, Valentina Bellè e Beatrice Barison (una giovane e talentuosa concertista per la prima volta sullo schermo). Sceneggiato e prodotto da Marco Bellocchio (che ha firmato la sceneggiatura insieme allo stesso Giordana e Gloria Malatesta) e presentato fuori concorso al Festival di Locarno, dove Giordana verrà premiato con un Pardo Speciale alla carriera, il film sarà nelle sale il 22 agosto. La scrittrice non ha partecipato alla stesura della sceneggiatura né è mai andata sul set del film: “Sono due linguaggi, due arti completamente diverse e ho scelto di essere solo spettatrice”. 

Come vivi la riscoperta del tuo romanzo d’esordio, quasi quindici anni dopo? Lo scriveresti diversamente oggi? 
Non vorrei sembrare presuntuosa ma in realtà non ho mai smesso di parlare de La vita accanto che è stato portato a lungo nelle scuole, ne è stata tratta una pièce teatrale, insomma è un libro ancora ancora vivo. E no, non cambierei nulla. Spero di aver intercettato alcuni movimenti carsici legati soprattutto al tema dell’apparire e del controllo sociale e che sento ancora attuali. 

“Noi donne fin da bambine siamo abituate a rimodellare la nostra bellezza sul desiderio degli altri: meno desideri abbiamo e migliori siamo”. 

La vita accanto è la storia una bambina brutta che diventa produttrice di bellezza: un talento musicale. 
Mi piace pensare che non sia un libro sul talento, ma più sull’essere amati, anzi sul bisogno di essere amati per vivere. È la storia di Rebecca, una bambina, poi una giovane donna che esce dalla sua condizione di oppressione grazie al suo talento per la musica, è vero. Ma il talento è un oggetto bifronte: da un lato abita la nostra profondità, dall’altro ha bisogno di essere riconosciuto. L’ho visto a lungo nei bambini, e soprattutto nelle bambine, nei miei anni a scuola: le bambine spesso non riconoscono il loro talento e ancora oggi sono addestrate a non riconoscerlo, anzi spesso a vergognarsene. 

Anche il titolo rimanda allo sguardo degli altri, sono gli altri che ci riconoscono il nostro talento. Tu quando ti sei accorta di averne? 
Quando ho vinto il premio Calvino nel 2010 per il mio libro. Sono molto grata a questo premio perché mi ha dato la possibilità di diventare una scrittrice. Avevo sempre scritto di filosofia e di teologia per riviste specializzate ma non avevo mai avuto il desiderio di espormi davvero con un romanzo, poi è successo. Ho avuto anche la fortuna di incontrare un editor di eccezione, Severino Cesari. 

Il romanzo fin dalle prime pagine mi ha fatto pensare a un saggio uscito alcuni anni fa, Il mito della bellezza di Naomi Wolf che parlava dell’intreccio fra bellezza, potere e oppressione: “Il mito della bellezza non riguarda affatto le donne, ma gli uomini e il potere”, scriveva. 
Penso che adesso sia molto peggio di un tempo. La scuola è stato il mio osservatorio speciale dove ho potuto accorgermi che il canone di bellezza lo fa il potere, non viene mai dal basso, ma dall’alto. Un tempo la bellezza era quella dei quadri di Rubens o dei Preraffaeliti, per dire, il canone di oggi invece è pervasivo, abbiamo un’ossessione per gli accessori, per la perfezione. Noi donne fin da bambine siamo abituate a rimodellare la nostra bellezza sul desiderio degli altri: meno desideri abbiamo e migliori siamo. 

“Una donna brutta non sa dire i propri desideri” hai scritto. 
Sin da bambine ci viene chiesto di stare al nostro posto. E poi le bambine meno canonicamente belle si percepiscono sempre come brutte, proprio come Rebecca. 

“La scuola non dovrebbe avere niente a che fare con l’idea del merito, la scuola dovrebbe servire a diminuire le diseguaglianze. Io ho sempre parlato della scuola come un viaggio controvento rispetto alla famiglia”. 

Nel film la bruttezza di Rebecca è resa con una trovata geniale: una macchia rossa in viso, un difetto fisico quasi pittorico. Come hai trovato il film di Marco Tullio Giordana? 
Nel libro la bruttezza è indefinita invece nel film doveva essere una cosa più rilevante. Il film è un gioiello. C’è una luce dentro. È come se si assistesse a una serie di successivi fermo-immagine ciascuno pensato e costruito con assoluta perfezione. È qualcosa che ho percepito a volte nei film di Bergman, dove anche se gli attori non avessero parlato, la scena aveva senso e bellezza comunque. È un film tra l’altro molto diverso dal resto della filmografia del regista, o almeno dai suoi lavori più famosi come I cento passi o La meglio gioventù. È come se qui Marco Tullio Giordana si fosse concesso, almeno rispetto al suo cinema civile, una specie di viaggio nella profondità dell’anima. 

Rebecca vive nella “casa del silenzio”, attraverso la musica trova la voce che le permette di esistere, tuttavia, né il romanzo né il film sono storie di riscatto. 
Sono una grande ascoltatrice di musica classica, non suono nessuno strumento, ma sono molto appassionata e certamente l’elemento della musica è molto forte in questo romanzo e in altri miei libri. Ne La vita accanto la musica è una voce che non si può silenziare, è il modo che ha Rebecca di farsi ascoltare dalla madre malata di depressione: la musica attraversa i muri. Sì, sono d’accordo, entrambe le opere non sono storie di riscatto in senso tradizionale. Anzi aggiungo che presentando il libro alle scuole superiori sono stata spesso contestata dagli studenti per il finale. Loro avrebbero voluto, ad esempio, che Rebecca diventasse una concertista famosa a livello planetario. Invece a volte anche una vita normale può essere un lieto fine. 

Un romanzo e poi un film ambientati nel Nord-est: Vicenza, il teatro Palladiano, il fiume, i giardini, questa città sembra lo scenario perfetto per una favola cupa e romantica come questa. 
Il Nord-est è quel posto dove le cose importanti sono segrete, dove tutto è non detto… Vicenza è una città che ha avuto tantissimi scrittori: Fogazzaro, Piovene, Scapin, Parise, Trevisan. E il poeta Bandini, immenso. Raccontano demoni. Pensa a I falsi redentori di Piovene. È tutto falso, quello che i protagonisti si raccontano. E lo sanno… demoniaco. Inoltre, io tenevo molto che il romanzo fosse una storia senza tempo, infatti il film è ambientato circa 10 anni dopo l’ambientazione letteraria, ma funziona ugualmente. 

“Presentando il libro alle scuole superiori sono stata spesso contestata dagli studenti per il finale. Loro avrebbero voluto che Rebecca diventasse una concertista famosa a livello planetario. Ma anche una vita normale può essere un lieto fine”. 

Mi è dispiaciuto che sia stata tolta la figura della maestra Albertina, forse l’unico personaggio veramente positivo del romanzo che a un certo, un po’ sconsolata, dice: “È sempre colpa delle donne qui”. Ti consideri femminista? 
Sì, certo, eccome. Sono femminista per una questione di giustizia e di felicità. Credo che sia molto importante la felicità delle donne. Tra l’altro rispetto al periodo in cui ho scritto il libro penso che per la situazione sia peggiorata, dopo le due crisi economiche quella del 2008 e quella del 2017 e infine la pandemia hanno riprecipitato le donne italiane in una condizione di subalternità. La perdita del lavoro per molte donne ha creato un meccanismo di dipendenza. 

L’amicizia femminile in questo libro è salvifica. Come credo sia salvifica anche la scuola: il ruolo dell’istituzione scolastica come controcanto della famiglia è in questa storia importantissimo. Che cosa pensi del ruolo della scuola anche a partire dal tuo mestiere di insegnante? 
La scuola è il mio mondo, però è anche una ferita aperta per quello che è successo [Mariapia Veladiano nel 2018 ha denunciato l’assegnazione delle reggenze, ovvero i doppi incarichi che costringono i presidi a dirigere due istituti; ha tuttavia perso il ricorso e in seguito si è licenziata. Ndr]. Rebecca si salva andando al Conservatorio e sì, la scuola può salvarti: ogni bambino e ogni bambina è prima di tutto una persona e ha diritto alla fiducia, quali che siano i suoi risultati scolastici. La scuola non dovrebbe avere niente a che fare con l’idea del merito, la scuola dovrebbe servire a diminuire le diseguaglianze. Tu parli di controcanto, io ho sempre parlato della scuola come un viaggio controvento rispetto alla famiglia. La mia amata Natalia Ginzburg ne Le piccole virtù lo diceva già tanti anni fa: “La scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi”. 

Da dove viene il tuo interesse per le relazioni famigliari? Pensi che sia questo elemento ciò che è piaciuto a Marco Bellocchio [sceneggiatore e produttore de La vita accanto, ndr]? 
Lo sguardo sulle relazioni famigliari mi viene dalla scuola. La scuola vede con anticipo di decenni le trasformazioni in arrivo. La malattia della famiglia abita le aule da tempo. Bellocchio l’ho incontrato molto anni fa, poco dopo l’uscita del libro. Già nel 2011 lui chiese i diritti cinematografici, è una persona squisita. Lui è stato di certo attratto dalla storia famigliare. Del resto, la famiglia è il grande malato della sua filmografia. 

Mi sembra che il linguaggio cinematografico sia più violento della tua scrittura, che è molto asciutta e delicata. 
Su questo non sono d’accordo, penso che il mio romanzo sia altrettanto violento, direi forse feroce. E la ferocia ha a che fare con la forza. La famiglia è un luogo di inevitabile asimmetria di forze. I bambini sono in una condizione di dipendenza dagli adulti tra i quali spesso la donna ha meno forza economica, di prestigio. Tutto questo non ha importanza se circola l’affetto, l’amore. Se non c’è, la vita si fa feroce e tremenda. 

Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con 01 Distribution, che distribuisce in Italia il film “La vita Accanto”, al cinema dal 22 agosto 2024. 

Valentina Pigmei

Valentina Pigmei è giornalista e consulente editoriale. Ha fondato l’associazione femminista “La città delle donne” e collabora con diverse testate. 



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