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Massimo Recalcati "Ridare valore al mestiere di insegnante è il rimedio migliore al disagio della Scuola"

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La Repubblica, 3 maggio 2024 

Il disagio della Scuola è un disagio che non può essere ridotto né a quello degli studenti né a quello degli insegnanti né, tantomeno, a quello delle famiglie. È innanzitutto la Scuola come istituzione che è a disagio. Ma cosa significa questo disagio? Esso riflette, nel nostro tempo, il collasso più generale del discorso educativo. Come far esistere principi educativi in un’epoca, com’è quella ipermoderna, il cui comandamento fondamentale è quello del successo individuale a qualunque costo?

Non a caso, uno dei fraintendimenti maggiori che stiamo vivendo è quello che confonde il piano delle regole con quello del senso della Legge. L’educazione non coincide con la regolazione della vita, ma con la sua umanizzazione. Educare non significa sottomettere la particolarità della vita del figlio all’universalità astratta delle regole. 

Il rispetto delle regole viene invocato come condizione indispensabile per garantire la costruzione di una buona cittadinanza, ma quello che si dimentica è che le regole sono solo degli impedimenti esterni che agiscono sul comportamento volendone limitare gli eccessi. Concepire l’educazione a partire dalle regole è una impostura perchénon considera la differenza che sussiste tra le regole e il senso della Legge. Non a caso nel nostro Paese le regole tendono a moltiplicarsi proprio perché manca l’acquisizione collettiva del senso della Legge. 

La vita della Scuola dovrebbe avere come compito più alto quello di trasmettere il senso della Legge al di là del rispetto formale delle regole. Il senso della Legge implica la trasmissione del senso dell’impossibile: non si può essere tutto, fare tutto, godere di tutto, avere tutto, sapere tutto. Se questo senso non si iscrive nel cuore del figlio — se l’impossibile viene negato — si afferma il principio perverso — oggi totalmente egemonico — che tutto sia possibile. La conseguenza maggiore che è sotto gli occhi di tutti coloro che si occupano del disagio giovanile è la caduta del desiderio, il suo appassimento. 

La Scuola è allo sbando — come allo sbando è il discorso educativo — perché è sempre più difficile far esistere e trasmettere da una generazione all’altra il senso della Legge come condizione della possibilità vitale del desiderio. Nondimeno, il senso della Legge non si rianima guardando al passato, rimpiangendo nostalgicamente una Scuola disciplinare, pre-Sessantotto, fondata sugli ideali patriarcali dell’obbedienza e dell’autoritarismo. È vero che nei momenti di smarrimento la tentazione del recupero nostalgico dell’autorità indiscussa è massima, ma non è mai la via giusta. 

Una Scuola all’altezza del compito di umanizzare la vita non passa attraverso una riesumazione della dimensione antiquata e repressiva della Legge. Il valore irrinunciabile della valutazione e della prova, che sarebbe a mio giudizio giusto preservare, non può essere sostenuto da un uso sadico della valutazione e della prova stessa. 

Allo stesso modo, se considero importante ridare valore al voto in condotta, è assai più importante ridare valore alla funzione degli insegna nti in un quadro di riforma complessiva dei piani di studio che favorisca le inclinazioni singolari degli allievi come già accade da tempo in altre parti del mondo. Se il perno simbolico dell’autorità simbolica degli insegnanti — garantito dalla forza della tradizione — si è indebolito rendendo assai più difficile il loro lavoro, solo la restituzione dell’importanza cruciale della loro funzione può ridare il giusto peso alla loro azione. Come si può pretendere che gli allievi rispettino i loro insegnanti se lo Stato è il primo a non riconoscerne il valore, a proletarizzarne le condizionidi vita, a umiliarne la professionalità? È solo il lavoro degli insegnanti che può custodire il nesso che unisce il senso della Legge — non tutto è possibile — con la possibilità generativa del desiderio. Questo però imporrebbe una selezione della loro attitudine, il ripristino di un criterio seriamente meritocratico, la valorizzazione dei migliori e un drastico allontanamento dalla Scuola di coloro che la parassitano. 

Una Scuola senza prove e valutazioni non esiste, ma le prove e le valutazioni non devono riguardare solo gli studenti ma soprattutto chi insegna. Ascoltate i ragazzi di oggi nel descrivere i loro insegnanti. Quanti possono testimoniare di aver incontrato un testimone effettivo del desiderio di sapere? Lo Stato ha la responsabilità massima di rivalorizzare la funzione degli insegnanti riconoscendo anche in termini economici il carattere decisivo della loro professione. Ma, d’altra parte, la vocazione all’insegnamento è una cosa seria che andrebbe ripensata a fondo. Fare l’insegnante non può essere un ripiego qualunque. Avendo dedicato una vita all’insegnamento so bene quanto la parola di un maestro possa risultare decisiva nel cammino di una vita. A condizione che quella parola sia viva, accesa, non spenta dalla noia e dalla rassegnazione.


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