Sinodalità, le domande per imparare a essere cristiani oggi
10 dicembre 2023
Con la guida profonda e sensibile di don Pierangelo Sequeri andiamo in cerca dei segnali che orientano la fede dentro la cultura di questo scorcio del nostro tempo nel quale vediamo prevalere fattori di incertezza che sembrano scoraggiare l’esperienza credente. Ogni domenica per otto settimane il celebre teologo milanese, da tempo firma cara ai lettori di Avvenire, ci condurrà alla scoperta della «fede dove non te l’aspetti» attraverso parole-guida offerte a tutti i «cercatori e trovatori».
L’intento di queste riflessioni è quello di illuminare i potenziali di lievitazione del seme cristiano nel nuovo contesto dell’epoca. Vasto programma, direte subito voi. E avete perfettamente ragione. Nondimeno, l’obiettivo può apparire scoraggiante, per la fede, solo se lo si concepisce appunto come una specie di programma mondiale di regìa culturale della storia dei popoli. Il cristianesimo, però, non è un programma di leadership o di governance del mondo. Lo è stato, naturalmente (a partire da Carlo Magno, non dall’imperatore Costantino), perlomeno nell’intenzione. L’impresa, come sappiamo, al netto delle superstizioni che ne hanno contraddetto l’ispirazione, ha pur generato una straordinaria avventura dell’Europa della filosofia e del diritto, dell’arte e della musica, della letteratura e della politica, della scienza e della tecnica. Nelle sue luci e nelle sue ombre, ha lasciato un’eredità non ancora del tutto consunta. Però il suo capitale non è più sufficiente a rilanciare il fervore di una creatività capace di aprire futuro per la storia dell’anima fra i popoli. La cosa che impressiona di più è il fatto che la frantumazione del legame sociale, e la crescita di aggressività isterica – individuale e collettiva – appaiono come effetti collaterali della nostra scoperta migliore: la dignità del singolo, la libertà dell’individuo, il rispetto della persona.
Come ha potuto accadere che la valorizzazione della dignità della singola persona, di cui andiamo così fieri, ci abbia condotti a un tale degrado delle relazioni comunitarie, al quale ci stiamo letteralmente rassegnando? Le nascite sono in calo, il desiderio è spento, dicono gli esperti. I poveri crescono, uno su mille ce la fa. La politica è appesa all’economia, l’economia alla tecnica, la tecnica non è appesa a niente: solo a sé stessa. Le stesse democrazie occidentali patiscono ora acutamente gli effetti sociali negativi della loro evoluzione individualistica e competitiva. Ciascuno è riconsegnato ai mezzi di cui dispone per conquistarsi il proprio riconoscimento. E, dunque, è abbandonato a sé stesso. Le generazioni adolescenti stanno interiorizzando questa angosciosa percezione con una rapidità che ancora ci sfugge.
La comunità cristiana, pur così disseminata di commoventi slanci di dedizione, non vede ancora una via nuova (o ne vede troppe). E quindi, cerca di fare quello che può con il linguaggio che ha e con le abitudini che sa. Però, ogni giorno che passa, scopre al suo interno debolezze troppo a lungo occultate, liti troppo furiosamente attizzate, omissioni troppo giulivamente trascurate. Cerco dunque di mettermi dalla parte del “noi” che corrisponde al cristiano comune di “oggi” (includendo anche il sacerdote, il religioso e la religiosa, in questo caso), il quale cerca di vivere il cristianesimo che c’è, nella cultura che c’è, al meglio che può. E cerco di farlo riaprendo l’autoreferenzialità di un gergo troppo ecclesiastico, con qualche parola-comune che possa restituire vitalità alle parolechiave della lingua cristiana.
In questo sforzo di immedesimazione mi lascio provocare dalla sollecitazione di papa Francesco a cercare una “sinodalità” ecclesiale che ritrovi l’allegria della fede che Gesù regala a chi non ha niente. Il tesoro è nel campo, certamente, ma bisogna scavare nei punti giusti: altrimenti uno si trova solo un campo pieno di buche, e si deprime. Intendo questa sinodalità – “camminare insieme” – come il riflesso e l’illuminazione credente della “complicità” umana e affettiva in cui si riconosce la sterminata maggioranza degli individui-massa che vengono illusi e disillusi dai signori della guerra, dai mercanti del tempio, dai politici della crescita, dai tecnici dell’innovazione, dai pubblicitari del progresso. Penso che dobbiamo dedicare più affetto ai milioni che, pur non coltivando nessuna ambizione di avere un ruolo “regale, profetico e sacerdotale”, per il quale si sentono umilmente impreparati, si riconoscono tuttavia amati da Dio e si sforzano di seguire Gesù. E non si sottraggono alla testimonianza di speranza e di amore che apprendono dal Vangelo di Gesù e ammirano nei suoi discepoli migliori.
Non è forse in questo modo che il cristianesimo mette il sapore di un sale non scipito nell’insipida zuppa della storia? Forse qualcuno è un po’ samaritano, qualcuno fin troppo pubblicano. E allora? Lo Spirito non è forse arrivato da Zaccheo, da Cornelio, dalla donna samaritana e dal centurione romano assai prima che arrivassimo noi? Imparare a cercare la fede anche dove non ci aspettiamo di trovarla – Gesù non faceva altro – è un esercizio che può rivelarsi salutare per la riscoperta della fede che abbiamo già trovato. I miei punti di osservazione sono sette parole, che adopero come il bastoncino del rabdomante: il futuro; le élites; i molti; l’intesa; l’onore; la prova; l’attesa. Vediamo cosa trovano.
La prima parola è il “ futuro”, che non è più quello di una volta. Insistendo sul tempo biblico-lineare del regno di Dio, siamo diventati inconsapevolmente debitori della pubblicità- progresso? Di fatto, del destino che accomuna gli umani dell’intera storia i nostri figli non sentono più neppure una parola. La prossima generazione super-tecnologica sarà forse più vicina al regno di Dio? La seconda parola è élite, argomento di grandi dispute socio-politiche, apparentemente. Il nostro tema sarà questo: la questione non è la mediazione delle élites – ecclesiastiche o laiche che siano –: il problema è la sostituzione, ossia il sequestro del cristiano impeccabile, e dell’umano realizzato in una comunità sempre più ristretta e selezionata dei salvati (perché perfettamente osservanti, o perché abbastanza ricchi, o perché meglio armati, dipende). E per i sommersi, pazienza.
La terza parola è i molti. Le società evolute, le chiese perfette, contengono le nuove moltitudini planetarie di individui, che non sono più di nessuna tribù, o le respingono? Sono allegramente inclusive e colorate o sempre più selettive e grigie? La quarta parola sarà l’intesa. Qui si ragionerà sul fiuto spirituale, ossia sulla sensibilità umana per la consolazione di una complicità appassionatamente solidale dell’umano che è comune: oltre le lingue, le etnìe, le politiche, le religioni. Fiuto scoraggiato, fiuto pervertito, fiuto lietamente ritrovato e condiviso. La quinta parola è l’onore. L’ipotesi di partenza è questa: l’avvilimento e l’umiliazione dell’altro è la madre di tutti i delitti. L’umiliazione e l’avvilimento di Dio, che falsifica la sua complicità con l’umano, lo ferisce nell’onore. Peccato contro lo Spirito, a Dio insopportabile (proprio come la mortificazione del prossimo).
La sesta parola è la prova. L’iniziazione alla vita è iniziazione alla giustizia dell’amore: passa attraverso la prova, vive la cognizione del dolore. Lasciare solo l’altro, in questa iniziazione, è la malattia mortale della comunità umana: il giudizio e la salvezza di Dio si decidono qui. La settima parola sarà attesa. Il compimento dell’avventura umana con «la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà», secondo la bella espressione del Credo liturgico (più bella di tutti i nostri ispidi trattati teologici su morte, giudizio, inferno, purgatorio, paradiso), significa che Gesù desidera che tutti e tutte abbiano la possibilità di partecipare alla vita di un mondo realmente riconciliato dalle sue ferite e onorato per le sue lacrime (della quali, troppo spesso, siamo responsabili).
Fino ad allora, non lasceremo indietro nessuno per sopravvivere meglio, e non faremo sacrifici umani per assicurarci una razza superiore. E non malediremo la vita come se fossimo gli unici a patirne le ingiustizie. Meno retorica e più umiltà, nel condividere l’attesa di riscatto che accomuna gli umani e non si estingue con la morte, non ci faranno che bene. La fede va chiesta a Dio gentilmente, per tutti. E dove meno te l’aspetti, sarà trovata.