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Perché la tragedia di Giovanna Pedretti ci riguarda

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Ci sono preadolescenti che postano una foto che riceve 99 commenti positivi e uno negativo. Dovrebbero dirsi: “Vado alla grande. Piaccio praticamente a tutti”. Invece per giorni vanno “in fissa” su quell’unico commento negativo. Fanno coincidere il proprio valore con l’unica cosa brutta che è stata detta di loro, si identificano solo in quella, dimenticandosi di tutto il resto.  

Tutti noi, siamo estremamente vulnerabili al giudizio altrui, specie se negativo nei nostri confronti. E lo siamo soprattutto in quei passaggi e frangenti della vita in cui ancora non siamo dotati di certezze e di un’identità stabile. Nel corso della vita, possiamo attraversare momenti di enorme fragilità dove ciò che un altro dice di noi, può trasformarsi in un detonatore in grado di generare un’esplosione fuori controllo.  

Quando si deve lavorare su una “verità che fa male” c’è un’enorme attenzione da prestare verso il soggetto che è al centro di quella verità, essendone il soggetto protagonista. Sia chiaro: la verità è verità e come tale va preservata e tutelata. Ma la persona che viene toccata da quella verità potrebbe non essere in grado di affrontarla, attraversarla, elaborarla e gestirla. Necessita di essere “preparata” all’accoglienza della verità che la riguarda. Nel lavoro con uno psicoterapeuta, ci sono pazienti che ci mettono anni a diventare consapevoli di una verità che li riguarda in prima persona. Per riuscirci, non devono essere invasi, assaliti o travolti, ma accompagnati con autorevolezza e pazienza: arriverà il momento in cui quella verità può essere detta in modo che sia utile a chi la deve mettere dentro di sé. Ci sono verità scomode che vanno “calibrate” sulla capacità che il soggetto ha di potersi relazionare con essa.   

È chiaro, poi, che ci sono verità e verità. Se io so che c’è un criminale che fa reati, non attendo i suoi tempi, ma mi muovo veloce perché la giustizia gli impedisca di compierne di nuovi. Ma se c’è una persona fragile che sta dicendo il falso a causa della propria fragilità, e quel falso non cambia il mondo in peggio, forse la cosa migliore è affrontare prima la sua fragilità. E poi farci carico del falso di cui è protagonista. 

La storia terribile accaduta in provincia di Lodi ci mostra molte cose del mondo social in cui tutti siamo immersi. Ci mostra che siamo fragili. Che la nostra fragilità spesso si trasforma in false verità, in cui vorremmo tutti apparire migliori di come magari siamo. Ci mostra anche che i social non vedono la fragilità. Magari vedono la verità e – per sostenerla e dichiararla – fanno scempio delle fragilità individuali. Ci sono persone che sanno reggere tutto questo. E altre che non ne sono capaci. Perciò affogano dentro la palude del brutto che in 24 ore ti fa diventare ciò che di te viene raccontato in un post, indipendentemente dal percorso di un’intera vita, dove sei stato molte altre cose.  

In questa storia io non vedo colpevoli. Vedo solo vinti. Siamo tutti sconfitti nel momento in cui cerchiamo di raccontare al mondo ciò che vorremmo essere, usando la velocità dei social. Perché quella velocità è spesso irrispettosa delle fragilità individuali, non empatica e clamorosa. Siamo tutti vinti quando, diventando paladini di una verità che ci sembra necessaria, ci accorgiamo che forse, col senno di poi, forse servivano quelle precauzioni di cui questo post vuole essere un memento.  

Precauzioni però che sono incompatibili con la velocità con cui tutti acceleriamo ciò che siamo e ciò che facciamo dentro i social. Le parole sono importanti. Quelle nei social ancora di più. Ma spesso non ce ne rendiamo conto.  

Alberto Pellai

Fonte: Famiglia Cristiana


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