L'amore dà il senso all'esistenza: non bastano le esperienze
21 gennaio 2024
L’orizzonte del termine “prova” è amplissimo. L’ampiezza semantica e il valore umano del concetto, che affiorano nelle varie formulazioni di ciò che è provato / messo alla prova / sperimentato / approvato, non è così tranquilla come sembra in un primo momento. L’omicidio è una prova di coraggio? In alcuni contesti – luoghi, tempi, rapporti – delle situazioni di vita, alcuni sostengono che lo sia. Forse anche il suicidio? È lecito mettere alla prova la fedeltà (cercare di provarla, appunto) con l’inganno? La famosa “prova d’amore” prova l’amore? Oggi la tv-spettacolo mette in scena condizioni artificiose di promiscuità, che metterebbero alla prova la fedeltà di un legame creando occasioni stimolanti per la trasgressione (“Temptation Island”, “Cambio moglie”, eccetera). Prova di che? Fedeltà di chi e a chi?
In molti modi abbiamo notizia di più seriosi (?) esperimenti psicologici, in cui viene simulata una prova di tenuta dei nostri sentimenti morali (immaginati come altruismo del sacrificio) e di controllo delle nostre pulsioni anaffettive (ridotte al calcolo dei vantaggi). “Uccideresti l’uomo grasso?”, “Il dilemma del prigioniero”, o altri esperimenti di coinvolgimento nella “scientifica” somministrazione del dolore sono la versione plateale della simulazione che mette alla prova la presunta linearità dei nostri criteri di valore e la nostra reale coerenza con l’etica del rispetto.
Servono, ormai, ad addestrare macchine semoventi al calcolo delle vite sacrificabili nei casi di un imprevisto, o a testare la disponibilità umana a rimanere scientificamente insensibile al dolore dell’altro. Intanto, mettono in circolazione l’idea che la conversione della moralità nel calcolo anaffettivo – logico, scientifico, razionale – dei vantaggi e degli svantaggi godibili può apparire persuasiva e produrre assuefazione. L’intelligenza artificiale può funzionare soltanto in questo modo. “Provano” altro? In ogni caso, la prova indica tradizionalmente un passaggio, non un approdo. Il valore della prova sta nell’essere superata, e nel suo essere incorporata come elemento validante – spirituale o fisico, esperienziale o logico – di una giusta affidabilità: attestata, conquistata, d’ora in avanti disponibile. Come evitare di legarla alla giustizia dei modi e degli scopi? I rituali di “iniziazione” selezionano momenti simbolicamente decisivi per il passaggio attraverso la prova della qualità umana di ciascun membro della comunità. E verificano l’affidabilità del singolo, che alla comunità è necessaria per vivere.
L’iniziazione mette alla prova – nei suoi diversi passaggi – la qualità umana dell’umano. In questo senso, l’iniziazione è dotazione di abilità e prova di verifica che mira al successo di un superiore livello di autonomia individuale e di partecipazione sociale. Nei suoi termini generali (l’iniziazione può valere anche per ambiti di esperienza e di appartenenza più specifici, come una società segreta, un ordine professionale, una comunità consacrata), si può pensare all’interiorizzazione di un legame religioso di appartenenza, all’inserimento nel legame sociale extra-domestico, al primo giorno di scuola e la fine degli studi, all’unione che inaugura la famiglia e all’ingresso nel mondo del lavoro.
È luogo comune che nella nostra società secolarizzata i luoghi / tempi ritualizzati come eventi simbolici della riuscita iniziazione siano evaporati. Forse parlare della sua scomparsa, anche nei suoi termini “tradizionali”, è un po’ azzardato. Di certo, le sue trasformazioni – dislocazioni, sostituzioni, ritualizzazioni – sono profonde e non marginali. Il bisogno di “mettersi alla prova”, e di ottenere “approvazione della comunità”, ai fini della dimostrazione di autonomia individuale e di importanza sociale, rimane profondo e ineliminabile.
L’abilitazione al superamento del passaggio (ossia l’educazione), ben diversa dall’addestramento, è in piena regressione. L’esercizio guidato della resistenza alla frustrazione dei tentativi è sostituito dall’ossessione di una democratica consegna (ossia l’abbandono) al fai-da-te. Se non ci sono esempi e regole che accompagnano l’iniziazione, contenendone i rischi potenziali ed esaltandone gli obiettivi reali, si infrangono quelle che ci sono, che appaiono inservibili o addirittura ostili all’emancipazione desiderata. E se gli obiettivi perdono il sostegno di un’affezione creativa, che li trasforma in oggetti del desiderio, non c’è regola che tenga: ogni eccesso della prova è possibile (il gioco della sfida mortale, l’esibizione della violenza persecutoria). La vita diventa così iniziazione infinita, prova interminabile. E non comincia mai. Le generazioni giovanili – è un’osservazione ormai condivisa – patiscono duramente la depressione degli obiettivi degni di iniziazione. Vuoi perché gli obiettivi navigano nella poesia dei grandi sogni, vuoi perché la loro prosa affonda nella mediocrità delle piccole voglie. Gli estremi di questa polarizzazione premono su due linee di sfondamento (non necessariamente volontario).
Da un lato, il passaggio attraverso la “prova” iniziatica esaspera la sua disponibilità al sacrificio: come affermazione di potenza distruttiva, ma anche auto-lesionistica. Dall’altro lato, l’idea della prova si risolve nella immediatezza del godimento: si tratta di “provare” tutto, per consumare emozioni più che raggiungere obiettivi. La pervasività mediatica dei social, di cui siamo produttori- consumatori, esalta entrambe le derive, ne travolge persino la differenza. La prova è per provare: non deve provare niente altro che sé stessa. L’iniziazione non inizia a niente e non conclude niente: l’eccitazione del suo azzardo è mezzo e fine a sé stesso. Immaginatevi che cosa devono diventare i processi di affermazione e di riconoscimento che ti insediano al vertice della comunità nei campi della potenza e del valore sociale che appaiono oggi dominanti: l’economia, la tecnica, la politica. E cioè quei campi in cui la logica sacrificale della competizione e quella eccitante del consumo appaiono ormai esasperate (se non sei disposto a sacrificarti e a sacrificare in nome del profitto, della potenza, del potere, sei fuori).
Provare tutto, mettere tutto alla prova? Nella vita come puro esperimento, sempre rinnovabile, la prova – in tutti i sensi – non c’è più. Perché non c’è passaggio alla vita, ma solo il suo rinvio. Il sacrificio, in sé, non prova niente (e rende perverso il piacere che si procura). Il godimento, in sé, non prova nulla (e produce assuefazione all’insensibilità che lo stordisce). La vita, senza destinazione, falsifica tutte le prove
Ci soccorre qui la potenza di una pagina della Prima Lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo. Pagina universalmente citata ed esaltata, ma forse non sempre afferrata in tutta la sua forza dirompente. «[…] E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi agape, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanza e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi agape, non sono nulla» (1 Cor 13, 2-3). Vi invito a dare tutto il loro peso a queste paradossali antitesi.
La fede “che sposta le montagne” è annunciata da Gesù come prova dell’autentica adesione al vangelo (Mt 17, 20). La disponibilità a consegnare il proprio corpo alle fiamme – allora come oggi, purtroppo – è il segno più eloquente del martirio cristiano, prova della fede. Eppure, anche la fede e il martirio, separati dalla generazione di agape, non provano nulla. L’agape è la “prova” decisiva della vita riuscita, in tutti i suoi “passaggi”. Non sono le prove che danno senso alla vita, è la vita che dà senso alle prove. L’assuefazione a “provare tutto” e a mettere tutto “alla prova” semplicemente, consuma la vita e ne perde il filo. I passaggi attraverso le prove della vita vanno affrontati con il distacco necessario, se vogliamo ritrovare la passione segreta della sua destinazione. La sua prova e dimostrazione, il cristianesimo la chiama fede ( Lettera agli Ebrei, 11, 1).