Massimo Recalcati "Il peso del fallimento e la ferocia di Narciso"
La Repubblica, 24 novembre 2023
Sappiamo bene chi sono gli uomini che odiano, maltrattano e uccidono le donne. Sono gli uomini
che rifiutano la libertà della donna. È questa l’essenza più pura del maschilismo in quanto figlio
naturale dell’ideologia del patriarcato. Il suo presupposto è l’idea che la donna sia afflitta da una
minorità ontologica, morale e cognitiva che la consegna a non essere altro che un oggetto passivo
nelle mani dell’uomo. Per questa ragione, quando la soggettività femminile fa la sua apparizione
(attraverso la decisione di interrompere un legame amoroso o quella di intraprendere una carriera
professionale indipendente, come è appena accaduto nel caso di Giulia), può provocare reazioni
violentissime. Nel fantasma maschilista, infatti, la donna non può esprimere una soggettività libera
perché viene concepita come una mera proprietà dell’uomo.
Ma la violenza che trova il suo apice nel femminicidio scaturisce sempre da una cultura fatta di
umiliazioni e di offese quotidiane, di mortificazione e di negazione della libertà della donna. Può
avvenire non solo come esercizio di un potere sadico, ma anche nel nome dell’amore. È questo un
altro paradosso che andrebbe mostrato in tutta la sua crudeltà: nel nome dell’“amore” si può
arrivare a sopprimere la libertà della donna. Nella violenza degli uomini sulle donne c’è sempre un
intento fantasmaticamente pedagogico: disciplinare, regolare, purificare la loro naturale e
irresponsabile peccaminosità. È il delirio moralistico che troviamo frequentemente al cuore degli
uomini che maltrattano le donne: piegare con la forza e il ricatto la donna, renderla servizievole
come dovrebbe essere ogni donna secondo la cultura del patriarcato.
Non a caso nella lunga storia dell’Occidente la donna che rivendicava la sua libertà veniva
identificata con la strega. Si riguardi Comizi d’amore di Pasolini per cogliere quanto la libertà
femminile sia vissuta dagli uomini, in una cultura che non aveva ancora conosciuto i movimenti di
liberazione femministi e la rottura benefica del ’68, come una minaccia al loro posticcio prestigio
fallico. Nella Recherche di Proust Albertine, che incarna l’essenza del femminile, viene descritta
come un essere perennemente in fuga, inappropriabile, irraggiungibile, impossibile da catturare,
tale da sconcertare il protagonista sino a sospingerlo a intraprendere il progetto geloso del suo
imprigionamento. Più l’uomo incontra il carattere indomito della libertà della donna e più è
incentivato a reprimerla brutalmente. Nondimeno non è mai possibile impadronirsi di quella
libertà. È la constatazione disperata che muove diversi autori di femminicidi ad accanirsi sul
cadavere delle loro vittime per provare ad afferrare in extremis la dimensione, in realtà
inafferrabile,della loro libertà.
La spinta all’appropriazione, al controllo e al sequestro della
libertà della donna da parte degli uomini vorrebbe scongiurare il rischio della perdita. In gioco qui
sono i destini del dolore legato all’esperienza della separazione che spesso troviamo, come nel
caso di Giulia, alla base del passaggio all’atto femminicida. Di fronte alla fine di una relazione
amorosa esistono due vie: la prima è quella del dolore del lutto, del trauma della perdita, del
fallimento e della solitudine. L’uomo abbandonato o tradito è messo di fronte a una ferita
narcisistica che deve riconoscere ed elaborare. La seconda via è quella della violenza che rigetta il
lavoro del lutto per ribadire un diritto di proprietà e, di conseguenza, l’esistenza di un legame che
esclude per principio la separazione. È questo il nesso profondo che unisce narcisismo e
depressione: “Non sopporto di non essere più tutto per te, dunque ti uccido perché, in realtà, non
posso riconoscere di non essere niente senza di te”. Questa dipendenza assoluta, di natura
simbiotica, alimenta fantasmi di gelosia estremi dove la spinta a una possessività che vorrebbe
sopprimere la libertà del partner si unisce alla sensazione di un profondo vuoto interno. In gioco è,
cioè, un tipo di legame che non riguarda l’amore tra due adulti, ma una dipendenza anaclitica
primaria che non può non evocare il legame originario con la madre.
Non a caso anche per l’assassino di Giulia non è difficile ipotizzare un lutto dei legami primari mai
avvenuto. È un insegnamento che dovremmo sempre tenere presente: la violenza è un’alternativa
all’esperienza dolorosa del lutto. Vale per gli individui come per i processi collettivi: la violenza
viene al posto di un lutto impossibile. Nel caso di Giulia, come in diversi altri casi di femminicidio,
la vittima si è trasfigurata in un prolungamento fantasmatico della madre senza la cui presenza la
vita del soggetto è destinata a sprofondare nel nulla. È l’altra faccia del patriarcato: non quella dell’
ayatollah che perseguita sessuofobicamente la donna in quanto incarnazione del peccato, ma quella
del figlio imbozzolato in legami primari senza essere in grado di viverne il lutto e che, come hanno
raccontato recentemente i genitori di Filippo, per addormentarsi deve tenere regressivamente
accanto a sé un orsacchiotto per non sentirsi cadere in un abisso di fronte ad una separazione che
non è in grado di soggettivare.
È questa una cifra generale del nostro tempo: l’accudimento prolungato dei figli vorrebbe
scongiurare il trauma benefico della separazione. La carenza simbolica della legge paterna che
dovrebbe favorire il distacco dai legami primari si mescola qui con la tendenza a rendere la
dipendenza da quei legami interminabile.