Alessandro D’Avenia "Educazione sentimentale? Faccia a faccia."
Per vivere abbiamo bisogno del mondo: ci apriamo a ciò che è fuori di noi per necessità. Andiamo incontro a cose e persone perché ci sono utili: il nostro strato animale è fatto di bisogni. Noi umani però non ci apriamo per sola necessità: gli animali non apparecchiano la tavola, non guardano i tramonti, non scrivono lettere d’amore...
L’animale ha il muso, non il volto, non si racconta, l’uomo sì. Noi facciamo l’amore per dare nascita l’uno all’altro, e questo ci dà gioia. Ma se questo non accade l’uomo regredisce a predatore, rinuncia alla sua evoluzione e si sente vivo alla maniera del bruto (animale in latino), possedendo e sottomettendo: dice «mio», come il bambino che strappa il gioco a un altro, per dire «io».
La violenza è infatti paradossalmente proporzionale alla debolezza del sé, il bisogno non matura in relazione, resta egocentrismo infantile. Negli ambienti malavitosi, culmine di questo infantilismo del potere, si dice «meglio comandare che fottere»: i due fenomeni sono percepiti come gradazioni di potere, si esiste nella misura in cui si domina e sfrutta l’altro.
Nella prima parte della narrazione simbolica della creazione biblica, Adamo non è il maschio ma l’Umano (l’umanità intera: adam significa semplicemente fatto di adamah, la terra), e ha la sua essenza nella dimensione relazionale, infatti la donna è tratta «dal fianco» per indicare simbolicamente che è della stessa materia (corpo sociale), l’Umano è uni-duale, cioè la sua essenza è la relazione: l’altro gli è, appunto, «a fianco». L’umano non è in-dividuale (letteralmente l’in-divisibile), ma duale (il con-divisibile), e se nel racconto il principio maschile sottolinea il fare (lavorare il giardino di Eden), quello femminile l’essere (Eva significa semplicemente la Vivente), è perché le due dimensioni sono proprie, prima, dell’Umano, e poi, della dualità corporea uomo-donna: tutti siamo chiamati singolarmente e socialmente a dar vita attraverso la capacità creativa (e il primo lavoro umano è proprio la relazione, un lavoro che non si improvvisa).
L’individualismo ci fa invece credere che l’uomo è uno e deve auto-costruirsi tecnicamente, e quindi la dimensione relazionale da essenziale diventa puramente funzionale. Nel racconto quando l’umano vede per la prima volta l’altra, pieno di stupore dice: «è come me», soggetto non oggetto. Scopre di essere relazione, prima in se stesso: è capace di dialogo interiore. E poi fuori di sé: con l’altro, che è parte di lui senza essere sua proprietà. Il male comincia quando agiscono soli, individualisticamente. Se la donna non è «come me», e quindi «altro da me», ma «mia», e quindi «altro per me», smette di essere soggetto e diventa oggetto, mezzo.
Una cultura individualista non riconosce e non educa alla dualità, alla relazione come essenza dell’Umano: il mondo e gli altri sono il self-service del self-made man. L’altro in quanto «mezzo» è riserva di «pezzi» di ricambio: lo si fa a pezzi nella mente e nel cuore prima che nelle mani.
Una frase di Cristo, uomo scandaloso per come trattava le donne (persino quelle ritenute «intoccabili») va alla radice: «Fu detto: “Non commettere adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per dominarla, ha già commesso adulterio con lei nel cuore» (Mt 5). La traduzione «ha già commesso adulterio con lei» nell’originale suona «ne ha distrutto l’integrità», cioè «l’ha cor-rotta»: l’ha rotta, fatta a pezzi.
L’invocata educazione alle relazioni che vogliamo affidare alla scuola non basterà a mutare un modo di essere che si struttura nell’infanzia e nell’adolescenza sulla base dei vissuti relazionali, né sarà sufficiente qualche lezione teorica a trasformare lo sguardo individualista in relazionale. Serve un modo nuovo di vivere e intendere il rapporto con gli altri, per accedere a un’energia dell’essere differenti che ci è divenuta inaccessibile: l’individualismo combinato al consumismo è infatti la negazione delle relazioni umanizzate e la resa ai bisogni.
Una cultura che elimina il corpo con l’uso continuo degli schermi dati ai bambini, che avalla la pornografia, la pubblicità, le trasmissioni e le piattaforme social in cui la donna è ora Venere sacra (la sua presenza, divinizzata e idealizzata, serve a erotizzare oggetti o magnificare situazioni) ora Venere profana (è lei stessa l’oggetto da vendere e usare), è una cultura ipocrita perché prima allena lo sguardo che «fa a pezzi» la donna e poi si scandalizza per la mancanza di rispetto. In una cultura individualistica e consumistica l’educazione sentimentale diventa così ben presto retorica.
Solo un’educazione dello sguardo, e quindi del cuore e della mente, «all’integrità» (il contrario di dis-integrare: «fare a pezzi») dà agli umani un volto. Questo sguardo si struttura sin da piccoli interiorizzando il modo in cui, a casa, a scuola, per strada, in tv, gli adulti si rapportano prima con se stessi e poi tra loro: oggetti o soggetti? La violenza è in tutti, uomini e donne, di tutte le età e strati sociali: è nella persona. E solo un’educazione relazionale può arginarla, perché allena a sentire l’altro come me stesso: se lo ferisco ferisco me, se lo abbraccio abbraccio me. E tutto comincia dal faccia a faccia della relazione.
Provate a tenere oggi la mano sul volto di qualcuno per almeno un minuto, in silenzio. Quella stessa mano che potrebbe far violenza sentirà piano piano che il confine del corpo non è l’io ma il noi, un pronome che in una poesia Mariangela Gualtieri definisce largo quanto tutti i viventi. Noi diamo vita all’Umano solo insieme, l’eros ci spinge a unirci e accogliere il peso e il bello della differenza, in una energia e novità d’essere che brilla in quella luce duale che chiamiamo amore.
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