Alessandro D’Avenia "Tutta la vita"
“E io ancora mi sveglio aspettando un messaggio che non arriva… tutta la vita”. Così canta Drast, cantautore del 2001, in un verso che sintetizza la ricerca della sua generazione: l’attesa vana di un messaggio d’amore. La canzone, intitolata “Tutta la vita”, si riferisce a una ragazza sparita all’improvviso, ma quando nel finale chiede: “Dove sei andata?”, la domanda si può adattare alla vita stessa, promessa d’amore non mantenuta.Ed è infatti questa la domanda dei ragazzi con cui ho a che fare tutti i giorni a scuola: dove è finita la vita?
Hanno “tutto” per “essere viventi”, ma “poco” per “essere vivi”. Il combinato di consumismo, nichilismo e individualismo (che chiamo CONIND, vera pandemia esistenziale) di cui li abbiamo dotati paralizza il desiderio e quindi il destino, rendendoli anzitempo apatici, impauriti o depressi. Ma il dolore è anche la loro salvezza, perché il desiderio non può essere mai distrutto, è più radicale della paura di non essere abbastanza: la spinta a nascere sempre di più caratterizza gli umani, che sanno coniugare i verbi al futuro e sono apparsi sulla Terra cominciando a seppellire i loro simili, convinti che l’oltre, non la morte, ha l’ultima parola.
A ispirare quest’oltre è il desiderio: principio di umanizzazione e animazione della vita, che sin da bambini impariamo ad allenare o distruggere guardando quello che desiderano gli adulti. Lo diceva già due secoli fa Leopardi: “Sebbene spento nel mondo il grande e il bello, non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere, non è tolto né possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità e la monotonia” (Zibaldone, agosto 1820). Sta a noi adulti nutrire il loro desiderio e non solo il loro stomaco, non scambiare la gioia(creare/amare) con il pienessere (consumare/usare).
La felicità è scoprire ciò in cui ciascuno di noi è insostituibile e agire di conseguenza. I ragazzi vengono immessi in un sistema culturale che invece chiede a tutti la stessa cosa, e così a poco a poco il loro desiderio si spegne, il loro destino evapora. Quando arriva maggio cerco di chiudere programmi e verifiche, per dedicare le ultime settimane di scuola all’esplorazione della loro vocazione attraverso esercizi, letture, test. La maturità, esame che promuove il 99,8% dei ragazzi ed è quindi inutile, si chiude con la paternalistica domanda di rito: “Dopo che vuoi fare?”. Questa domanda, posta in corner e non sempre (in genere solo ai “bravi”), indica tutta l’inadeguatezza di un sistema educativo in cui la vocazione di ciascuno, invece di essere la prima, è l’ultima delle preoccupazioni. Dovrebbe essere “la” domanda, la prima, appena seduti all’esame: “Perché sei venuto al mondo?”. Se dopo 13 anni a scuola con adulti “educatori” non hai scoperto i tuoi talenti e i tuoi limiti che cosa abbiamo fatto con te? Ti abbiamo educato o addestrato? Fatto nascere o imbalsamato? Dove troverai mai il coraggio di vivere, anzi di “essere vivo”, se non sai neanche che cosa “ti rende vivo”? La domanda a cui questa generazione va allenata è questa: “Perché sei qui?” e non “Che cosa vuoi fare?”.
Il “perché” è ciò che poi genera qualsiasi “che cosa” e “come”: chi sa il “perché” può affrontare poi ogni “come” e “che cosa”. Per capirsi: il mio perché non è fare l’insegnante, lo scrittore, il narratore, l’editorialista… questi sono solo i “come” e “che cosa” di una più radicale vocazione, ciò che mi fa essere vivo, il perché sono qui, che cosa posso essere e fare solo io, ciò che mi consente ogni giorno di venire alla luce e al mondo: sono qui per aiutare gli altri a trovare la propria vocazione attraverso la bellezza, risvegliare il loro desiderio addormentato o scoprire quello ancora sconosciuto. Che poi questo diventi “lavoro” (e quindi valore riconosciuto e retribuito) attraverso una lezione, un articolo, un libro o un racconto teatrale, lo detta la contingenza storica e le occasioni incontrate.
Il desiderio è quel principio di ispirazione che libera dalla “bipolarità” di cui è prigioniera questa generazione (e non solo): piacere (faccio solo quello che mi va) e dovere (prima o poi sono costretto a far qualcosa). Oscillare tra piacere e dovere significa avere rinunciato alla libertà, lasciar decidere altro o altri, in balia di emozioni passeggere o costrizioni eterodirette. Per questo poi l’arena per esistere un po’ di più diventano i social, vite schermate utili a lenire il dolore di non essere nessuno, cioè di nessuno (solo chi appartiene esiste, solo chi si riceve nelle relazioni buone poi si avventura nella vita). Ma per fortuna la vita è generosa, e sempre qualcosa o qualcuno risveglia l’ispirazione, il desiderio, che ha dentro sia il dovere (chiunque ami qualcosa si impegna, costi quel che costi, per ciò che ama, altrimenti non lo ama), sia il piacere, per la persona “ispirata” tutto diventa piacere, anche la fatica, perché tutto punta a fare altra vita, creare e crearsi: ricrearsi.
Ma come può questa generazione maturare un’arte di vivere, senza prima averne l’ispirazione: il desiderio o vocazione che dir si voglia? E come può farlo se nessuno li aiuta a scovarla? Che me ne faccio di un ragazzo che sa chi è Telemaco se poi non riesce ad essere Telemaco (nome che vuol dire “colui che combatte da lontano”: per chi e cosa lotti tu “da lontano”, cioè fin da ora, anche se non lo ottieni subito?) ma si limita ad essere Telefono (una vita schermata)? E qui il tema diventa politico come segnalava sempre Leopardi: “L’ardore giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente nella considerazione degli uomini di Stato. Questa materia vivissima, e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è considerata appunto come non esistente. Eppure esiste ed opera senza direzione nessuna, senza provvidenza, senza esser posta a frutto”.
La politica di cui parlo non è quella dei politicanti che spesso è solo farsa o retorica del potere, ma la cura operata da chiunque abbia affidate delle vite, un progetto da realizzare e non la gestione di risorse da esaurire (da quando le persone si chiamano “risorse umane” non possiamo che esser tutti esauriti: tutto comincia sempre dalle parole sbagliate). Manca un progetto educativo, una paideia che abbia a cuore i destini di ciascuno e quindi di tutti. La scuola continua a servirsi del lessico militare con cui è nata a fine Ottocento, quando serviva a mettere dietro una scrivania dei contadini: appello, file, classe… anziché aprirsi a quello della bottega (maestro, movimento, stile…). Non basta più un sistema che punta ancora a “intruppare” anziché a “individuare”, nell’unico modo in cui ci si individua: all’interno di relazioni generative (sin da quando siamo bambini impariamo a dire “io” dopo aver detto “tu”) e trovando lo stile originale di ciascuno.
Leopardi, riferendosi ancora all’ardore giovanile continua così: “laddove anticamente era una materia impiegata e ordinata alle grandi utilità pubbliche, ora questa materia così naturale e inestinguibile divenuta estranea alla macchina e nociva, circola e serpeggia e divora sordamente come un fuoco elettrico, che non si può sopire né impiegare in bene né impedire che non scoppi in temporali e terremoti”. Gli era già tutto chiaro: i giovani rivolgono l’energia inespressa del desiderio o contro gli altri o contro se stessi (chi non crea de-crea, chi non genera de-genera): violenza, suicidi, dipendenze, patologie alimentari, abulie o iperattivismo, depressioni… ne sono la crescente evidenza. Questa fragilità è fragilità del desiderio oppresso o represso.
Può sembrare un quadro fosco, ma non lo è, perché lo riporta a una concretezza possibile. Infatti vedo fiorire o rinascere chi trova adulti disposti a chiedere: “Perché sei venuto al mondo?”, adulti che ascoltano la risposta senza imporre copioni, e rimangono a far la strada insieme, anzi magari la aprono. La riposta dei giovani non è quasi mai: sono qui per comprare cose, fregarmene di tutto e tutti, e divertirmi più che posso… queste sono solo fughe dal dolore profondo del desiderio dimenticato e quindi del destino mancato. Non sono ottimista, perché ritengo l’ottimismo l’ideologia paternalistica che parla dei giovani (mai “con” i giovani) come “il futuro” senza poi fare nulla, ma sono invece pieno di speranza, che è azione concreta rivolta a ciò che ho per le mani.
Un giovane non è il futuro, ma ha futuro in sé, solo se impara a dargli un nome, il proprio: ciò che solo lui può essere e fare, scoprendo che i talenti che ha non gli appartengono ma sono già del mondo che li sta aspettando, la sua unicità è per la comunità. Solo così scopre che è necessario al mondo, proprio facendo venire al mondo quello per cui è fatto, e si tira fuori dall’anonimato nichilista, consumista e individualista, diventa “vivo” non solo lui ma tutto attorno a lui.