Enzo Bianchi "La cura antica della pazienza"
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di ENZO BIANCHI
per gentile concessione dell’autore.
A un anno dall’inizio della devastante pandemia, prendiamo sempre più coscienza che il Covid è
molto più di un’epidemia, perché i suoi effetti sulla vita personale e sociale si accrescono man mano
che passa il tempo, un tempo che pare illimitato. La domanda costante in noi e tra di noi è: fino a
quando?
Siamo avvertiti sui mutamenti del nostro comportamento, sui nuovi assetti che si stanno delineando,
segnati da fine e distruzione di legami, storie, equilibri che davano senso al quotidiano. Dai dati
forniti da diversi e qualificati osservatori la famiglia risulta essere la realtà più ferita: le separazioni
sono aumentate del 60%, con stima per difetto. La vita comune in condizioni di “clausura” e di
numerose limitazioni diviene faticosa, conflittuale, in particolare tra coniugi, uomini e donne
impegnati in storie di amore. Si giunge alla non comprensione reciproca, a una tensione non parlata,
quando non esplicitamente ad atteggiamenti verbali e fisici di violenza. Ecco allora la separazione
come via inevitabile per non permettere che una vita all’insegna dell’amore si trasformi in vita
infernale.
A partire da questi dati mi sento di rilevare quanto segue: nella nostra società, che da qualche
decennio è sempre più individualista e segnata da tratti di narcisismo, non c’è più “pazienza”, l’alta
virtù che consente di vivere accettando la diversità, l’alterità, la complessità. Pazienza come
makrothymìa, capacità di sentire in grande e di sopportare le debolezze altrui. Il conflitto non pare
neanche più gestibile e viene inteso solo come via che conduce alla separazione e alla rottura, esiti
accompagnati da sofferenza, confusione e disordine sociale.
Ma oltre alle famiglie soffrono per la “clausura” anche i single, trascinati in una noia, in un’accidia
spesso riempita con il conforto dell’alcol.
Contatti ed empatia sono decisivi nella lotta contro questa deriva, e invece, purtroppo, quanti
tentano di uscirne vedono crescere le loro difficoltà a incontrarsi e a essere supportati in un
cammino già difficile.
Ma si pensi anche a quanti, per mancanza di spazio nelle loro case, restano ore e ore davanti allo
schermo di un computer, non solo per il lavoro da remoto ma anche per la fruizione di altri
contenuti, spesso stesi su un letto o su un divano. Il movimento diventa più difficile, il corpo si
impigrisce e i social assorbono quel tempo che potrebbe essere dedicato a pensare, stare in silenzio
o tentare, per quanto possibile, una relazione con la natura. E potremmo continuare riflettendo sul
malessere degli adolescenti… In breve, quasi tutti in questo tempo soffrono, senza intravedere
orizzonti di speranza, e tutti sono messi alla prova nella loro qualità umana. Lo testimonia la
crescita della cattiveria e della violenza, che si esprime anche nella piaga dei femminicidi. Di fronte
a ciò sorge spontanea una domanda: perché nei media vi è così tanto spazio per la pandemia, ma
così poca riflessione sui suoi effetti sociali?