Il sorriso di Roma (l'ultima recita di Gigi Proietti).
mercoledì 4 novembre 2020
L’anima di un popolo e di una città, la cifra di un grande artista La bonarietà usciva da tutto il viso di Gigi Proietti anche quando si immedesimava in un samurai giapponese. Il sorriso del romano più puro era come una luce, un’innocenza, sotto a ogni piega della sua fronte e dell’intero suo corpo sulla scena. Qualcuno ha detto che lui non faceval’attore di mestiere ma che eraun attore. A difesa e vantaggio di questa sua gelosa identità, egli stesso diceva: «A teatro tutto è finto ma niente è falso».
Un concetto, anche questo, proprio dei romani quando sono davvero se stessi, genuini, diretti, di una schiettezza quasi imbarazzante, ma sempre rivestita di un sorriso perché, però, male che sia, non è la fine del mondo! La verità va riconosciuta ma domani è un altro giorno. Il mondo è sì, un teatro dove tutto si muove, cambia, passa, ma la scena sempre si ripulisce e si presta a nuove fantasie della storia. E, come nelle favole, la finzione è che «tutti camminano, camminano... camminano sempre» e il gatto con gli stivali si ferma solo a risuolare i tacchi.
Meravigliosa la sua gag sul vecchio narratore che, un po’ svanito, mescola le trame e impiccia i personaggi in esiti esilaranti. Un percorso anche psicologico, mentale, sull’ironia più fine dello spirito popolare dei romani, che si diverte guardando che ogni ordine, di cose e di parole, finisce gambe all’aria! Ma perché sa che la vita rimane, mentre le cose cambiano. Che funziona così.
Quando, al teatro Olimpico, Proietti, colmo di gratitudine e gioia, salutava la gente che stracolmava la sala, questa si alzava in piedi e, invece di dirigersi verso le uscite, si accalcava sotto al palco e restava lì, fissa e muta, come a chiedere: continua a raccontare! A’ fanatico! è un’apostrofe di prim’ordine a Roma; l’aggettivo si rivolge a chi si dà troppo da fare, lavora con ansia, con assillo, per raggiungere il suo scopo a tutti i costi. Non vale la pena di affannarsi tanto, dice la fiducia romana che molti scambiano per indolenza, fatalismo, poca voglia di lavorare.
Certo, le derive ci sono, ma l’anima integra di questo atteggiamento si può accostare persino a quella del Vangelo, dove il Maestro dice: «Non preoccupatevi... Guardate gli uccelli del cielo... Osservate come crescono i gigli del campo» (Mt 6,25–26.28). Anche Gesù potrebbe sembrare scettico verso i “fanatici”!
E qui sta solo la parte in superficie dell’iceberg di quella ricchezza sapienziale della romanità che, spesso, noi italiani, sottovalutiamo: l’andare oltre ogni tipo di fanatismo. Si tratta di un lungo cammino che dai latini in poi è stato intrapreso, ancorché spessissimo bloccato, storicamente, da impennate di rigidità che andavano in senso contrario – si pensi alla violenza imperiale sui martiri cristiani o a quella, più recente, dell’Inquisizione – ma che, grazie a Dio, con tempo e intelligenza, ha portato ad acquisire una saggezza preziosa, diffusa nella gente.
Sugli errori di ieri s’è fatta strada un’elasticità, una mitezza, una pazienza, una libertà d’accoglienza, una fede nella Provvidenza, un’autoironia; spazi di convivenza e non sottoposti a condizioni elitarie, si sono aperti. Sia in campo materiale che morale. L’anima di un abbraccio sul mondo che ha coinvolto, in un inestricabile intreccio, anche la Chiesa romana e universale.
E in questi tempi di radicalismi risorgenti, di scontri interni e esterni di civiltà, interessi, religioni e partiti, lo sguardo sorridente di Proietti è un simbolo e un invito che vale milioni di parole. Grazie a chi custodisce questa apertura di pensiero che rinuncia al senso tragico della vita e della storia il quale è l’orizzonte di tutti i fanatismi. E proprio alla morte, che ne porta la bandiera, che è l’estremo segno di questi ultimi, Proietti ha dato scena capovolgendo ancora la falsità in finzione: l’ha “recitata” nel giorno della nascita. Non poteva mica fare il contrario, altrimenti i romani gli avrebbero gridato dietro: ’a fanatico!