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Enzo Bianchi "Tutti a tavola dell’accoglienza"

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La Repubblica - 24 febbraio 2020
dal sito del Monastero di Bose 

Gli anni del secondo dopoguerra, una famiglia povera e precaria del Monferrato: queste le mie origini. Mio padre stagnava pentole e macchine da verderame, con poco guadagno. Per tirare avanti faceva anche il barbiere, sebbene pochi potessero pagarsi il lusso di farsi radere. Mia madre era gravemente malata al cuore, sapeva che se ne sarebbe andata presto e poteva fare poco, tra una crisi asmatica e l’altra. Morì quando avevo otto anni…
La vita era grama, eppure in quel clima su cui incombevano la povertà e la morte ricordo la tavola come un magistero, per me ancora bambino. La cucina si affacciava sulla strada, e chi entrava era stupito dal grande tavolo in noce massiccio che si trovava di fronte.
Durante il giorno sul tavolo vi erano una tovaglia su cui stavano un pane (una grìssia), un fiasco di vino rosso (barbera o dolcetto) e un orciuolo con l’olio. Il tutto ricoperto da un tovagliolo ricamato a punto croce con la scritta: “Il pane, il vino e l’olio ci trasmettano lezione e sapienza”.
E così la tavola diventava un simbolo; anzi, oserei dire, un sacramento. Non era possibile entrare in casa senza vedere la maestà di quel pane, di quel vino e di quell’olio. Quell’icona racchiudeva un magistero grande: rispetto per quel pane che era vita (“senza pane c’è la morte”, si diceva); pane che aveva richiesto lavoro e sudore; pane raro nel dopoguerra, in particolare quello bianco; pane vegliato e atteso con trepidazione, soprattutto nei mesi di maggio e di giugno, quando sui campi di grano incombono i temporali con la “tempesta”, la grandine. C’era una venerazione per il pane da parte di tutti: mai sprecato, mai posato male sulla tavola, sempre condiviso.
Ma la tavola di casa mia aveva soprattutto una caratteristica: era spesso un luogo di accoglienza dello sconosciuto. Abitavo al centro del paese, davanti alla chiesa e all’unica piazza, luogo di arrivo di zingari, mendicanti, venditori ambulanti.
Proprio loro erano gli sconosciuti invitati a tavola, perché mio padre ripeteva: «È vergognoso dare da mangiare sulla porta!». Così fin da piccolo ho mangiato accanto a sconosciuti, spesso poco decenti, che a volte mi facevano paura, altre volte mi allietavano, come i “ramai” montenegrini.
Ascoltavo le poche parole scambiate e imparavo ad accettare uno sconosciuto accanto a me. Tutti potevano essere ammessi a quella tavola, povera ma sempre capace di offrire pane, vino e verdure.
Sì, la tavola è il luogo di accoglienza dello sconosciuto, dello straniero, come ho sperimentato fin da piccolo. E siccome quelli erano tempi di fame e di penuria, ho capito ben presto che la festa nasce dall’azione del condividere più che da ciò che viene condiviso. Basta poco, ma se è condiviso, quel poco moltiplica lo stupore dell’incontro, la gioia. Di più, nella sua essenzialità di condivisione di pane, vino e poco altro, l’incontro a tavola infiamma i cuori e si apre all’ascolto dell’altro. E così quanti mangiano lo stesso pane imparano a essere “compagni” ( cum-panis), a vivere insieme, mai senza l’altro
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