Fulvio Ferrario “Diaconia”, questa sconosciuta
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Mentre la rilevanza sociale della predicazione cattolica e protestante sembra in caduta libera, in molti Paesi la diaconia, specie quella organizzata in stile aziendale, costituisce un pilastro decisivo di ciò che resta del sistema di protezione dei settori più deboli della società. Ma qual è oggi il significato teologico e pastorale della diaconia?
La Chiesa cattolica utilizza un termine latino, caritas; quella evangelica, addirittura, uno greco, diakonia o diaconia. I significati originari sono abbastanza diversi (rispettivamente: “amore” e “servizio”), ma nel gergo ecclesiastico indicano lo stesso contenuto, cioè l’impegno sociale delle Chiese, sia a livello comunitario, sia sul piano delle grandi organizzazioni socioassistenziali.
La storia della diaconia cristiana (utilizzerò il termine “protestante”) è lunga quanto quella della Chiesa, per molte ottime ragioni, che hanno a che vedere con la persona di Gesù, ma anche con una molteplicità di altri fattori.
Per quanto riguarda le Chiese europee del nostro tempo, il dato più vistoso, e per alcuni versi paradossale, è questo: mentre la rilevanza sociale della predicazione cattolica e protestante sembra in caduta libera, in molti Paesi la diaconia, specie quella organizzata in stile aziendale, costituisce un pilastro decisivo di ciò che resta del sistema di protezione dei settori più deboli della società.
In Paesi come la Germania, il fenomeno ha proporzioni clamorose; in Italia si avverte, per ovvie ragioni, essenzialmente la presenza cattolica, ma anche quella evangelica ha dimensioni, bilanci, organici, sproporzionatamente più consistenti rispetto a quelli delle Chiese. Una delle ragioni del fenomeno risiede, naturalmente, nell’interesse degli enti pubblici ad appaltare servizi a organizzazioni in generale più efficienti e meno costose di quelle che il pubblico stesso potrebbe predisporre.
In ogni caso, semplificando un poco, si potrebbe affermare che la diaconia è la forma più consistente di presenza ecclesiale nella società. È possibile affermare che essa concorre a quello che potremmo chiamare il core business della Chiesa, cioè l’annuncio del Regno di Dio, anticipato nella storia di Gesù?
Chi si occupa della questione senza pregiudizi, non può non vedere che la diaconia costituisce, per il Cristianesimo europeo dei nostri giorni, una grande occasione. Per utilizzarla debitamente, tuttavia, è necessario, anzitutto “evangelizzare” la diaconia, cioè rendere esplicite e operanti le sue radici bibliche.
Non può trattarsi, naturalmente, di clericalizzare forme di intervento ampiamente determinate dalle dinamiche tipiche di una società pluralista: ciò sarebbe, oltre che cristianamente deleterio, anche impossibile sul piano pratico. D’altra parte, secondo Luca 22,26s., il diacono per eccellenza è Gesù stesso; e l’“amore” (la caritas) che le Chiese cercano di annunciare anche attraverso il loro intervento nella società è in primo luogo quello di Dio, così come si manifesta nella vicenda dell’uomo di Nazareth.
Come declinare l’annuncio di questa storia nella secolarità dell’impegno sociale, costituisce, a mio sommesso avviso, una delle sfide pastorali e teologiche più rilevanti di questo tempo. Quando le Chiese si interrogano su come “raggiungere” la società scristianizzata, tendono a dimenticare che, nella diaconia, esse sono già presenti nelle sue pieghe più complesse e nelle sfide più incandescenti.
Il Cristo che prende forma nel loro servizio (con o senza la consapevolezza di chi concretamente opera) deve però essere portato al linguaggio, perché la fede cristiana ha a che vedere con la Parola e dunque anche con le parole.
Perché la diaconia sia consapevole del proprio mandato, è necessario, anzitutto, che lo sia la Chiesa. Chi si preoccupa, non necessariamente a torto, della secolarizzazione dell’impegno diaconale (“una Ong come altre”), dovrebbero anzitutto domandarsi se non siano le Chiese ad avere problemi di identità.
Non mi riferisco, naturalmente, all’identità delle Chiese stesse: su di essa si “riflette” (più propriamente: si “chiacchiera”) anche troppo. Mi riferisco alla domanda sull’identità di Gesù, quella che pone egli stesso, l’unica che interessa la fede cristiana: «Voi, chi dite che io sia?».
Una Chiesa consapevole di questa domanda sa che ogni abbozzo di risposta può solo consistere in parola e azione, che si interpretano reciprocamente. La cosiddetta “evangelicità” della Chiesa e, in essa, della diaconia, è tutta qui.