Enzo Bianchi “La preghiera è imparare a vedere con gli occhi di Dio”
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Famiglia Cristiana 25 giugno 2025
Incontriamo fratel Enzo Bianchi a Casa della Madia, il suo monastero vicino a Ivrea. Vecchia conoscenza del nostro giornale, con cui ha collaborato negli anni passati, dal prossimo numero, in uscita il 3 luglio prossimo, inaugurerà una nuova rubrica di spiritualità incentrata sulla preghiera dal titolo: “Cristiano chi sei?”.
Fratel Enzo, perché ha scelto questo titolo?
«Sono convinto, e non è solo un mio pensiero, che in questo momento c’è una grande fragilità nella vita di fede di tanti cristiani. Papa Leone nel suo recente intervento alla Conferenza episcopale italiana ha chiesto ai vescovi di risvegliare la fede in Gesù Cristo come unico Salvatore e come centro della fede cristiana. Viviamo in un tempo in cui i cristiani si sono giustamente aperti ai bisogni del mondo, al dialogo e al confronto con tante realtà terrene, ma è venuta meno la centralità del primato di Cristo, da cui dipende la nostra fede. La nostra salvezza non dipende da Lui?».
In parole semplici cosa è la preghiera?
«La preghiera ha uno sviluppo diverso da persona a persona. C’è quella della persona semplice che chiede grazie e protezione e che va rispettata, ma sapendo che non è sufficiente per una matura vita di fede. La preghiera non è tanto un chiedere a Dio, quanto un ascoltare la sua voce che si manifesta nella Parola di Dio. È dall’ascolto che nasce la fede, che conosciamo la volontà di Dio, che plasmiamo la nostra vita secondo il Vangelo. La preghiera è un lungo cammino che porta la persona ad adorare e lodare Dio fino alla misura della contemplazione, che non è solo dei mistici, ma è la capacità aperta a tutti di assumere lo sguardo di Dio sulle persone e sulle cose. È qui l’apice della preghiera».
Cosa direbbe a un giovane?
«L’unica cosa che si può chiedergli è di fermarsi dieci minuti al giorno per leggere alcune righe del Vangelo e chiedersi se trova qualcosa che parla al suo cuore. Tutto qui. Non dico che questo lo renderà automaticamente cristiano, ma almeno maturerà una memoria affettiva di Gesù che rimarrà nel tempo. E che nel momento opportuno riemergerà come una vera luce».
Qual è la vera malattia che ci affligge oggi?
«Vedo due malattie che si incrociano. La prima è quella di un mondo in fuga che invece che combattere assecondiamo con le nostre scelte. Il mondo è in fuga perché siamo noi che lo facciamo correre. Viviamo dal mattino a sera a una velocità massima. La seconda è che questa rapidità non ci da tempo per pensare, per fermarci, per interrogarci, per approfondire. Diceva il poeta Fernando Pessoa che ci vuole tempo perché ci sia tempo. Se vogliamo uscirne dobbiamo organizzare la nostra giornata prima di viverla e mettere da parte del buon tempo per quello che vogliamo realmente fare. Altrimenti è lui che ci mangia, facendoci diventare estranei a noi stessi».
E quindi cosa succede?
«Succede che io non ci “abitiamo” più, è come se fossimo in un balcone a guardare la vita che scorre senza esserne più i protagonisti. E arriviamo a sera che siamo stanchi, svuotati, senza niente a cui appigliarci per dire che, sì!, c’è un filo rosso nella nostra vita. Molte persone anziane mi dicono di non aver vissuto. E sono tristi, non perché non hanno avuto qualche successo o del denaro nella loro vita, ma perché sentono che il tempo per loro è volato inutilmente. È un problema antropologico prima che cristiano».
Qualche consiglio perché questo non succeda?
«Bisogna accettare di avere ogni giorno un piccolo momento di solitudine e di silenzio. Conduciamo vite che rischiano l’isolamento scansando la solitudine, che è quella dimensione buona che scegliamo per stare soli e in silenzio. Se le prime volte possiamo sentire angoscia e smarrimento, man mano si scoprono però energie nascoste, si acquista una capacità di visione e di intelligenza delle cose che sfugge nella routine. Capiamo, cioè, meglio e in profondità i legami che abbiamo e le relazioni con le persone care. Lo vedo qui alla Madia: molte persone il primo e il secondo giorno in completo silenzio stanno male e vogliono tornare a casa, prese quasi da un crisi di panico. Ma se riescono a resistere poi non se ne vogliono più andare».
Molti si scoraggiano perchè durante la preghiera si distraggono.
«C’è un’educazione alla concentrazione nella preghiera, ma non dobbiamo spaventarci se accade. La mente vaga nella preghiera, possono esserci distrazioni. Ci vuole tempo e perseveranza perché perdano la loro forza. A volte però sono delle specie di mostri che si agitano dentro di noi e che salgono dalle nostre regioni interiori più basse. È il allora momento di immergerci ancora di più in noi stessi per guardarli in faccia senza spaventarci, per vincerli e ordinarli con la forza dello Spirito Santo».
Spesso oggi ci si rivolge agli psicologi…
«Oggi esiste una pericolosa “psicologizzazione” della vita di fede. Anche nella Chiesa si parla più di psicologia che dell’azione della grazia, cioè dello Spirito Santo. Persino nei seminari, cosa che ha contribuito a creare un vero deserto nel campo delle vocazioni. Così Gesù non è più il medico delle nostre vite. Io credo, invece, che bisogna combattere soprattutto con le armi spirituali contro i fantasmi che ci abitano. È pericolosa questa mescolanza tra spiritualità e scienze umane e può in casi limite essere causa di abusi spirituali, perché a un certo punto non si capisce più se uno è il padre spirituale o lo psicologo».
Come è collegata la preghiera con la carità?
«Il mio maestro spirituale mi diceva sempre che la preghiera è come fare un passo tra gli eventi della vita e tra le persone che soffrono. Fare quell passo mi porta ad aver cura dell’altro, a consolarlo, a prestargli aiuto. La preghiera è ortoprassi, cioè muove all’azione. Non è uno slancio sentimentale di un momento, ma qualcosa che si decide del nostro essere più intimo e che dà frutti spirituali visibili all’esterno».
Un altro grande tema è quello della pace del cuore.
«La pace è l’ultimo frutto della vita dello spirito. Per ottenerlo occorre che lo Spirito Santo scenda nelle nostre profondità, lì dove manteniamo delle riserve verso il nemico, lì dove abbiamo ancora forte il nostro carico di aggressività. Se questo non accade rimarranno sempre dentro di noi delle forme di rancore, di odi nascosti, di volontà di dominio. Lo vediamo anche tra noi cristiani. Pensiamo alla guerra fratricida in Ucraina: è terribile pensando che siamo tutti fratelli, battezzati e parte dell’unico corpo di Cristo. Giovanni Paolo nell’enciclica Novo millennio ineunte scrisse che la Chiesa e le comunità religiose devono essere testimoni di comunione. Devono, cioè, diventare scuole di pace».
Come si coordinano preghiera personale e comunitaria?
«Sono come il movimento del cuore di diastole e sistole. Non può esserci l’una senza l’altra. Ormai ho 55 anni di preghiera comunitaria e posso testimoniare che l’una sostiene l’altra. Se avessi solo la preghiera personale senza uno sbocco in quella comunitaria è come se mi mancasse l’oggettività in cui esprimere la mia fede. Per questo sono rarissimi i veri eremiti, quelli che vivono, cioè, solo la preghiera personale senza il sostegno di quella comunitaria».
Vuole raccontarci un episodio che ha in qualche modo ispirato la sua preghiera?
«La mia vita di preghiera è nata così: quando ero molto piccolo mia madre ogni sera mi faceva inginocchiare sul letto, mi diceva le parole delle preghiera e me le faceva ripetere. In questo modo mi ha iniziato a farmi balbettare con Dio e da allora non ho potuto più smettere di pregare. Come mi ha insegnato a mangiare con la bocca, così con la stessa bocca mi ha insegnato a pregare. Credo che se le madri facessero questo coi loro figli, farebbero loro un grande regalo».
Stefano Stimamiglio