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Umberto Galimberti “Ma non basta distinguere tra maschile e femminile”

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19 Aprile 2025 

La Corte Suprema di Londra assume il dato biologico come criterio unico per differenziare il genere. Ma è sufficiente per affrontare la complessità umana dell’ambivalenza sessuale? Ecco il parere di Galimberti su una questione che, nata per garantire dei diritti, non può ridursi a una mera questione di diritto. 

Quello che più infastidisce della sentenza presa all’unanimità dalla Corte Suprema di Londra è l’assunzione del dato biologico come unico criterio per stabilire la distinzione di genere. Scrive infatti la Corte: «La definizione di donna deve essere basata sul sesso biologico». Lo stesso criterio è stato ribadito da Trump quando ha detto che esistono solo due generi: maschile e femminile. 
Ma l’uomo, a differenza degli animali, oltre al dato biologico ha anche un dato psicologico e, da quando è nata, la psicoanalisi, con Freud e Jung, non cessa di ricordarci che nessuno “per natura” è relegato in un sesso pieno. Ogni maschio ha una controparte sessuale femminile e ogni donna ha una controparte sessuale maschile. E ogni maschio se si relazionasse alla sua parte femminile incomincerebbe a capire qualcosa di più delle donne ed eviterebbe di trattarle come sua proprietà. 
Allo stesso modo ogni donna se si relazionasse alla sua parte maschile eviterebbe di rappresentarsi talvolta unicamente come forma di seduzione per il desiderio maschile. 
L’ambivalenza sessuale, l’attività e la passività è iscritta come differenza nel corpo di ogni soggetto, e non come termine assoluto legato a un determinato organo sessuale. Ma questa ambivalenza sessuale profonda deve essere ridotta, perché altrimenti sfuggirebbe all’ordine sociale. Tutto il lavoro ideologico consiste allora nel disperdere questa ambivalenza irriducibile, per ridurla alla grande distinzione del maschile e del femminile, intesi come due sessi pieni, assolutamente distinti e opposti l’uno all’altro. Risolta la differenza dei sessi nella differenza degli organi sessuali, il corpo, consegnato alla sua anatomia, rimuove la sua originaria ambivalenza psichica, per iscriversi in quello statuto sessuale che, se da un lato gli consente di entrare, senza fraintendimenti nell’ordine sociale, è pur sempre una forma di negazione della natura umana. 
Riferiscono gli antropologi che la distinzione maschile/femminile fu il primo principio d’ordine a partire dal quale si organizzarono le culture primitive che non conoscevano alcuna forma di lavoro a cui partecipassero insieme uomini e donne. Se ad esempio gli uomini cacciavano, alle donne era lasciata la cura di raccogliere, se la foresta era lo spazio del maschile, l’accampamento lo era del femminile, foresta e accampamento risultano così distinti da segni contrari a secondo che si tratti di uomini o di donne. Questa distinzione si ripercuote nel linguaggio che, a differenza degli antichi Greci e dei Latini che contemplavano anche il neutro (nec uter ,né uno né l’altro), conosce solo parole maschili e femminili. Ma se la realtà sociale, già con i primitivi, è il prodotto dell’opposizione dei segni sessuali, allora è l’opposizione che genera l’effetto di realtà. Giocata non sull’essere della persona, ma sull’avere la vagina o il fallo, la differenza sessuale è la maschera eretta per dissolverne la profonda ambivalenza del corpo e della psiche umana, che, mantenuta, non consentirebbe la divisione sociale dei sessi, dei ruoli e persino del lavoro. Il principio di identità sessuale non lo si ottiene da una fenomenologia del corpo, e tanto meno da un’analisi del suo profondo, ma da quell’operazione logica che, risolvendo la sessualità nella genitalità, fa di quest’ultima il principio universale che la cultura ha sempre mantenuto intorno al sesso e al corpo, quasi l’equivalente generale dei valori sociali, il caposaldo e il richiamo ultimo delle istituzioni. 
Senza un modello non c’è né norma né trasgressione, e la distinzione sessuale che prevede solo il maschile e il femminile su base biologica è appunto quel modello che, conferendo l’identità a ogni soggetto, consente di indicare le modalità del suo accesso all’ordine sociale, giuridico, istituzionale, e di giudicarlo, sempre in rapporto al modello, come mancante, colpevole, deviante, perverso. 
Come si potrebbe parlare di “perversione” senza un concetto di identità sessuale che riconosce solo il maschile e il femminile e non invece l’ambivalenza sessuale iscritta in ogni femmina e in ogni maschio? La coppia genitore e genitrice che è paritetica nella riproduzione sessuale diventa gerarchica nella produzione sociale, risolvendo il significato di madre in quella di genitrice, per elevare il significato di genitore in quello di padre. È come padre e non come “genitore” che nelle tribù primitive il maschio dispone delle donne e le scambia, ed è come genitrice e non come “madre” che la donna era esclusa dall’ordine sociale, perché, come dice Aristotele: «La femmina offre al nascituro la materia e il maschio la forma». Concetto questo che ritorna anche nella cultura cristiana dove la Madonna offre la materia, ma il figlio dice di sé che «fa tutt’uno col Padre suo». 
Lo stesso linguaggio che fa derivare “madre”, “materia”, “matrice” dalla stessa radice, collega la riproduzione sessuale al matri- monio e la produzione sociale al patri-monio, che è sempre patrimonio di valori, siano essi di natura ideale o economica. 
Se come dice Heidegger: «Il linguaggio parla (Die Sprache spricht )», la sua parola trasmette, ma nello stesso tempo smaschera l’ideologia sottesa alla distinzione maschile/ femminile, che non indica la differenza tra l’espressione anatomica e biologica dell’uomo e quella della donna, ma la differenza tra la forma, il tipo, la nozione, l’idea, il modello di cui l’uomo è portatore, e la materia di cui la donna è depositaria. È qui evidente che la differenza sessuale trascende il suo significato biologico per assumerne uno ideologico che le consenta di diventare un dispositivo d’ordine della società. 
Ma allora la sessualità incomincia ad allucinare quando incomincia a fungere da segno e da ragion d’essere di ciò che essa non è, quando è costretta a ricevere da “altrove” un senso che essa propriamente non ha. Questo “altrove” è la società che, assumendo la sessualità come dispositivo significante, la rimuove come vicenda erogena, per diffonderla come significato universale. E perché questa cosa sia inconfutabile, deve apparire come un fatto “naturale”, deve provenire cioè dalla “natura” stessa delle donne. E che cose c’è di più naturale e di più evidente del loro corpo? 
Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e quello della donna deve emergere la “prova” inconfutabile della legittimità del dominio del primo sulla seconda. Sottratte alla biologia, le differenze corporee diventano il linguaggio con cui l’ideologia subordina la sessualità alle condizioni di produzione dei rapporti sociali, costringendola a tenere un discorso che non proviene da essa, e va più lontano, perché legittima l’ordine sociale a cui deve sottomettersi. In questo senso diciamo che non è la sessualità a produrre i suoi fantasmi nella società, ma è la società a produrre fantasmi nella sessualità, a marchiare il corpo, e a costringerlo a recitare le iscrizioni del potere incise sulle sfortune del desiderio.


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